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Politica. Da un lato, è vero: per battere la destra occorrono tutti, ma proprio tutti, ivi compresi quel 4-5% di voti attribuiti all’area centrista, ma anche, perché no, quel 2-3% solitamente […]

Elly Schlein con Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni durante una manifestazione a Roma foto di Angelo Carconi/Ansa Elly Schlein con Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni durante una manifestazione a Roma - foto di Angelo Carconi/Ansa

Da un lato, è vero: per battere la destra occorrono tutti, ma proprio tutti, ivi compresi quel 4-5% di voti attribuiti all’area centrista, ma anche, perché no, quel 2-3% solitamente ottenuto dai partiti della sinistra radicale. Dall’altro lato, è altrettanto evidente: è impossibile che questo intero arco di forze possa concordare un programma politico comune. E allora, se il dibattito politico continua ad impantanarsi sul tema «chi sta con chi», non se ne esce: bisogna cambiare approccio, bisogna fare – se è lecito scomodare Vittorio Foa – una «mossa del cavallo».

Il modo corrente di impostare la questione rivela un vizio di fondo: molti, anche a sinistra, continuano a ragionare restando prigionieri della cosiddetta cultura del maggioritario. Secondo questa logica, accordi elettorali e accordi politici devono necessariamente avere lo stesso perimetro. Ma non è scritto da nessuna parte che debba essere così. Accordi elettorali e accordi politici sono due sfere ben distinte: un accordo politico, certo, si traduce in un accordo elettorale; ma non è vero l’inverso: si possono prevedere aree di accordo programmatico e aree di dissenso e differenza: ma questo non dovrebbe impedire una tattica e una strategia elettorale unitaria e cooperativa.

Questo, sul piano dei principi: ma, concretamente, come fare? In genere, si rimanda ad un futuro indefinito la soluzione dei dettagli tecnici: ma questi non sono mai solo tali. È bene cominciare a parlarne subito. Poiché è probabile che il sistema elettorale non cambi (il governo si è incartato nel rebus di una legge adatta all’elezione diretta del premier; il Pd non sembra aver sciolto le sue incertezze sul modello da proporre), allora bisognerà agire sfruttando strategicamente alcune caratteristiche del Rosatellum. Ricapitoliamo: questo sistema prevede il 37% dei seggi eletti attraverso sistemi uninominali maggioritari e il 61% su base proporzionale, mediante liste bloccate che convergono su una candidatura uninominale (con soglia al 3%). Il voto degli elettori è molto vincolato: nessuna possibilità di voto disgiunto, chi vota un simbolo vota il candidato collegato, e persino i voti di chi indica solo il candidato sono redistribuiti tra le liste. Ma va notato un aspetto: i dati delle precedenti elezioni mostrano come siano molto pochi gli elettori che scelgono solo il candidato uninominale, moltissimi invece quelli che votano solo per il simbolo del partito. Di fatto, la gran parte degli elettori segue una logica di comportamento tipica delle competizioni proporzionali. E i voti dei candidati uninominali sono, in larghissima misura, la somma dei voti alle liste collegate. E allora, l’obiettivo è semplice: si tratta di neutralizzare gli effetti distorsivi della quota maggioritaria e di «proporzionalizzare» quanto più possibile gli esiti del voto.

Questo è possibile se si costruisce una coalizione elettorale che impedisca un’asimmetria degli schieramenti e la conseguente sovra-rappresentazione della destra, frutto solo della divisione dei suoi avversari (scenario 2022).

In che modo? Non c’è bisogno di inventare nulla, ci si può ispirare ad alcuni aspetti della strategia elettorale dell’Ulivo, nel lontano 1994 (documentata anche da alcune ricerche). I passaggi tecnici (ma molto politici) sono i seguenti. Si tratta di: a) condividere una valutazione sul peso percentuale di ogni possibile alleato; b) classificare preventivamente i collegi uninominali sulla base della loro qualità competitiva (sicuri, probabili, incerti, difficili, impossibili); c) operare una distribuzione ponderata delle candidature, sulla base del peso di ciascuna forza e di un’equa ripartizione delle varie tipologie di collegi; d) riservare alla coalizione un certo numero di candidature indipendenti in cui possano riconoscersi più forze.

Si potrebbe configurare, quindi, uno scenario che è possibile descrivere con l’immagine di due cerchi concentrici: il primo è quello del nucleo centrale della coalizione, che condivide un programma comune; il secondo è quello costruito da altre forze che, con una propria autonomia, concordano tuttavia una strategia elettorale comune (contro la destra, ma anche nel loro stesso interesse: facendo parte di un cartello elettorale molto ampio si può disinnescare la tagliola del voto utile e può essere più facile superare la soglia del 3%; ci riflettano, in particolare, le forze della sinistra radicale, se non vogliono andare incontro all’ennesima tornata di delusione e frustrazione e magari vogliano provare a ottenere finalmente una presenza in parlamento).

Naturalmente, un’obiezione sarà subito sollevata: è un cartello elettorale, appunto, non una proposta di governo. Si può replicare con vari argomenti. Il primo nasce dal buon senso: certo, è un accordo elettorale: e allora? Bisogna forse impiccarsi alle divisioni e spianare la via ad un’altra iper-maggioranza della destra? Già nel 2022 l’autolesionismo è stato palese: bisogna ripetere lo stesso copione? Sarebbe folle. Ma si può dire molto di più: il nucleo centrale (e quanto più ampio possibile) dell’alleanza presenta un programma comune di governo, e dipende dagli elettori se potrà avere una maggioranza autosufficiente. In ogni caso, dopo il voto si potrà aprire una normale dialettica parlamentare, sulla base dei rapporti di forza emersi dalle urne. Forse potrebbe essere un modo per cominciare ad uscire da questo nostro, oramai insostenibile, sistema pseudo-maggioritario, sempre più asfissiante

 

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Il 21 Marcia ad Assisi. Fino a qualche tempo fa ci dicevano che presto avrebbero vinto. Ora ci dicono, insieme a Draghi, che dobbiamo sviluppare la produzione di armi e indebitarci per fronteggiare una guerra infinita

 

È una questione di sopravvivenza. Se vogliamo fermare la folle corsa verso la terza guerra mondiale dobbiamo rimettere la pace al primo posto. Non è solo una necessità morale. È una decisione essenziale per la sopravvivenza. Nostra e dei nostri figli, dell’Europa e dell’umanità intera.

Molti governanti, che hanno tra le mani le nostre vite e quella del pianeta, non sanno più cos’è la pace e parlano di guerra come se fosse una partita di calcetto. Intanto il pericolo cresce e si avvicina inesorabilmente. Bomba su bomba, strage dopo strage, massacro dopo massacro. Nel 2014 si combatteva nel Donbass. Oggi i missili esplodono a Kiev e a Mosca. Da un anno assistiamo alla carneficina di Gaza e ora temiamo il peggio in Cisgiordania e nel resto del Medio Oriente. È un’escalation continua. Di questo passo, quello che vediamo malvolentieri in tv domani saremo costretti a viverlo nelle nostre città.

La redazione consiglia:

Prima di tutto la pace

Fino a qualche tempo fa ci dicevano che presto avrebbero vinto. Ora ci dicono, insieme a Draghi, che dobbiamo sviluppare la produzione di armi e indebitarci per fronteggiare una guerra infinita. Non ci sono soldi per rimettere in piedi il nostro sistema sanitario, per assicurare una pensione dignitosa a ciascuno, per sostenere le famiglie in difficoltà, per dare un’educazione e un lavoro adeguato alle nuove generazioni, per affrontare le catastrofi climatiche e accelerare la transizione ecologica. Non ci sono soldi. Tranne che per la guerra, per le armi, per i missili, per i contractors che stanno arricchendo tutte le lobby, le mafie e i mercanti di morte. È questo che vogliamo anche nella prossima legge di bilancio?

Prima di tutto la pace non è uno slogan per anime belle ma il solo principio guida di tutte le decisioni politiche e sociali che può aiutarci a trasformare il futuro che incombe.
Mettere al primo posto la pace vuol dire mettere da parte tutti gli altri interessi, a partire da quelli che ci hanno trascinato in una guerra permanente di tutti contro tutti.
Mettere la pace sopra ogni altra cosa è responsabilità di tutti: governanti, politici, istituzioni, società civile, cittadini. Perché ciascuno di noi ha la possibilità di fare pace, ovunque, in ogni attimo della giornata.

C’è stato un tempo, dopo la fine della seconda guerra mondiale e la liberazione dal nazifascismo, in cui lo sapevano tutti. Oggi non è più così. Per questo in tanti stanno soffrendo. Per questo siamo in grande pericolo. Per questo, sabato 21 settembre, nella Giornata mondiale della Pace, alla vigilia del Summit del Futuro dell’Onu, ti invitiamo a venire ad Assisi. Solo rimettendo la pace al primo posto riusciremo a salvarci. Il giorno dopo non servirà a niente manifestare. Se lo sai anche tu, non mancare. Diciamolo insieme forte e chiaro: prima di tutto… la pace!

* Presidente della Fondazione PerugiAssisi per la Cultura della Pace

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Unicredit/Commerzbank. L’istituto con sede a Milano vorrebbe comprare il restante pacchetto di azioni che il governo di Berlino sta mettendo sul mercato per completare la privatizzazione

I grandi capitali nel risiko draghiano

 

Capitalisti italiani che mangiano capitalisti tedeschi? Può accadere anche questo nelle odierne sommosse del potere economico internazionale. Andrea Orcel, capo di Unicredit, ha reso noto che la banca italiana ha acquisito il nove percento della tedesca Commerzbank.

E non intende fermarsi: l’istituto con sede a Milano vorrebbe comprare il restante pacchetto di azioni che il governo di Berlino sta mettendo sul mercato per completare la privatizzazione.
Se l’acquisizione andrà avanti, la Bce darà il suo placet. Il direttorio di Francoforte condivide infatti l’allarme del Rapporto Draghi sulla competitività. Gelosi di preservare le rispettive proprietà nazionali, gli stati membri dell’Unione europea hanno finora ostacolato le acquisizioni transfrontaliere tra capitali, col risultato che le aziende europee sono oggi “nane” nella lotta globale con i giganti americani e cinesi.

La ricerca scientifica in effetti conferma. La centralizzazione dei capitali in sempre meno mani procede in Europa a ritmi ancora blandi. L’ottanta percento del capitale azionario è controllato in Italia e in Germania da circa il 2 percento degli azionisti. Sembrano pochi, ma in realtà sono ancora dieci volte troppi rispetto allo 0,2 percento degli Stati uniti. Per Draghi e i suoi, un cambio di passo è dunque urgente. Bisogna subito apparecchiare un nuovo banchetto di mergers europei, a partire proprio dal settore bancario.

Commerzbank sembra l’antipasto ideale. Durante la crisi dell’eurozona si rivelò una delle banche più avventuriste nel prestare alla Grecia e agli altri paesi debitori, le svalutazioni dei suoi crediti fecero più volte tremare i mercati e alla fine fu salvata solo con una partecipazione statale. Oggi la banca viene rimessa sul mercato ma vale appena 14 miliardi, troppo minuta per sopravvivere in un sistema continentale egemonizzato da UBS con 97 miliardi, BNP Paribas con 70, Santander con 65, Intesa Sanpaolo con 67. E, per l’appunto, Unicredit con 59 miliardi e tanta voglia di allargarsi.

Per realizzare il sogno della banca italiana che fa shopping in Germania c’è però da superare qualche ostacolo. Il primo scoglio è posto da vari esponenti del governo e dei lander tedeschi. La Germania vive infatti un paradosso. Pur essendo il centro indiscusso dell’economia europea, a livello di settore bancario ha evitato di favorire capitalizzazioni eccessive, privilegiando il più delle volte dimensioni regionali o poco più. Conseguenza è che oggi l’istituto tedesco più capitalizzato è Deutsche Bank con appena 27 miliardi in dote, ben sotto i principali concorrenti svizzeri, francesi, spagnoli, italiani e olandesi. Il risultato, ironico, è che adesso persino tra le file dei rigorosi liberisti tedeschi c’è chi teme il risiko draghiano delle acquisizioni europee. L’idea prevalente a Berlino è che bisogna avviare una determinata politica di fusioni tra banche tedesche, in modo da raggiungere un minimo di massa critica nazionale prima di aprirsi alle lotte sul mercato europeo.

L’altro scoglio è l’opposizione dei sindacati tedeschi, ostili a un tentativo di acquisizione estera che per la prima volta potrebbe creare esuberi in Germania piuttosto che nelle consuete periferie europee. In passato, vari esponenti del mondo sindacale tedesco avevano accusato gli omologhi degli altri paesi di frenare la modernizzazione europea con richieste di protezioni statali ritenute ormai desuete. Stavolta tocca a loro subire gli effetti della modernizzazione.

Anziché esser serviti sul solito piatto, stavolta i capitalisti italiani potranno dunque sedere al banchetto delle fusioni bancarie europee? È presto per dirlo, siamo solo al primo libar nei calici.
La cosa certa è che Marx trova di nuovo conferma: la centralizzazione dei capitali in sempre meno mani è la forza che muove il mondo. I capitalisti di tutte le nazioni in certi casi assecondano il processo e in altri lo ostacolano, spingendo a seconda delle circostanze sul libero scambio, sul protezionismo e talvolta su guerre sanguinose, se serve. Dipende solo dal posto che ogni volta si trovano a occupare: dal lato degli invitati o del pasto in tavola

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L’Unione può attendere. Da tempo incapace di esprimersi, se non per reiterate formule generiche, sulla guerra che ne sfiora i confini e su quella che da mesi insanguina la Palestina e incombe sull’intero […]

Legittimando  la destra

 

Da tempo incapace di esprimersi, se non per reiterate formule generiche, sulla guerra che ne sfiora i confini e su quella che da mesi insanguina la Palestina e incombe sull’intero Medio oriente, l’Unione europea aspetta, guarda e si preoccupa.

Aspetta le elezioni americane, aspetta l’evolversi della situazione sul terreno, aspetta gli umori dei mercati, scruta le oscillazioni dell’opinione pubblica e barcolla tra le forze contrastanti che la attraversano. Ogni governo, prima di tutto, dietro ai suoi guai secondo i suoi tempi e il proprio istinto di autoconservazione. L’Unione può attendere.

La maggioranza di centrosinistra guidata da Ursula von der Leyen, che formalmente governa l’Unione, è poco più che una messa in scena, una finzione istituzionale, un estenuante esercizio di retorica cui contribuiscono sostanzialmente i mirabolanti suggerimenti di rilancio, del tutto slegati dalle realtà politiche, dell’ex governatore della Bce. La realtà è un’altra e ben più ruvida. Alla fine di questa tormentosa estate conservatori, nazionalisti, estreme destre e postfascisti governano di fatto il Vecchio continente con l’eccezione, sotto assedio e per ora, della penisola iberica.

Dell’Italia inutile dire. In Svezia e Finlandia le maggioranze di governo si appoggiano sull’estrema destra nazionalista. Nei Paesi bassi tutto ruota intorno al partito xenofobo di Wilders. Ad est solo il Pis polacco ha dovuto sloggiare dal governo, ma il suo sistema di potere, costruito negli anni, si conserva perfettamente e lega le mani alla coalizione liberale uscita vincitrice dalle elezioni. Per il resto regimi nazionalisti e autoritari.

Ma il vero mutamento decisivo si è prodotto nei due stati chiave d’Europa: Francia e Germania. A Parigi il presidente Macron, che per anni ha venduto la sua figura indigesta come ultimo baluardo contro l’estrema destra, impone ora un governo conservatore del tutto dipendente dal Rassemblement national che per suo tramite potrà veicolare le proprie istanze politiche. Per Le Pen le porte sono state aperte.

In Germania l’influenza dell’estrema destra non è certamente meno insidiosa solo perché indiretta. L’exploit di Afd in Sassonia e Turingia, nonché le imminenti temutissime elezioni in Brandeburgo, hanno spinto il governo di Berlino a una draconiana stretta sulla politica migratoria, alla moltiplicazione dei paesi considerati sicuri con relative restrizioni del diritto d’asilo, alla facilitazione dei respingimenti e delle espulsioni legate all’accordo di Dublino. Fino all’attuale sospensione, dopo l’attentato islamista di Solingen, degli accordi di Schengen con la reintroduzione delle frontiere intraeuropee della Germania (diverse delle quali da tempo già riattivate).

Il respingimento dei richiedenti asilo si scontra però inevitabilmente con il diritto comunitario. Per ricorrere a questa misura estrema bisognerebbe dimostrare concretamente una grave minaccia, altrimenti non fronteggiabile, alla sicurezza del paese, un vero e proprio stato di emergenza. Cosa tutt’altro che realistica, anche se la ministra degli interni Faeser ci sta provando. Del resto, essendo del tutto evidente che nessuna di queste misure possiede una qualche efficacia concreta nella profilassi del terrorismo, quel che conta è il loro valore propagandistico rivolto agli elettori in esodo verso l’Afd. Ma anche questa funzione si è spesso dimostrata in passato piuttosto inefficace quando non controproducente. Non potendosi del tutto sostituire al radicale appeal della destra estrema, le svolte securitarie “costituzionali” finiscono perlopiù col legittimarla.

Se il “cordone sanitario” francese nei confronti del Rassemblement national si è rivelato una miserabile truffa, il “muro tagliafuoco” tedesco ancora regge nei confronti dell’Afd e dei suoi esponenti politici, ma non è affatto impermeabile ai contenuti e agli umori che questo partito veicola. L’influenza delle posizioni di destra sull’attività di governo è così destinata a crescere e a spostarne progressivamente l’asse.

Tutto questo non potrà che riflettersi, presto o tardi, sui rapporti di forze nelle istituzioni dell’Unione europea. Visto il tasso di nazionalismo che ormai vi circola, fino a quando terranno quelle norme, quelle garanzie e quelle protezioni che oggi arginano le politiche xenofobe e gli egoismi nazionali? E, fino a quando le componenti socialdemocratiche ed ecologiste dell’attuale maggioranza Ursula non saranno sostituite da forze di tutt’altro segno decise a cambiare radicalmente i connotati dell’Unione? Uno scontro già va delineandosi: socialdemocratici, verdi e liberali diffidano von der Leyen dall’includere esponenti della destra Ecr in posizioni di peso nel suo governo, ma si tratta di forze indebolite e in grave difficoltà il cui potere condizionante è in evidente declino. Mentre non sono un mistero, d’altra parte, gli appetiti di destra che da tempo circolano nel Ppe. In un simile contesto la sfrontata giravolta di Macron può fare scuola

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Commenti. La manovra «seria ed equilibrata» di bilancio annunciata dal ministro dell’economia Giorgetti non sembra perciò essere la chiave per fermare il declino del sistema industriale italiano. Serve un cambio di passo, un modello di sviluppo che ponga al centro investimenti, formazione e lavoro di qualità. Per evitare la lenta agonia

 

Il calo a luglio dell’indice destagionalizzato della produzione industriale non è soltanto un problema congiunturale. La serie negativa è anche su base annuale. Rispetto al mese di settembre 2023 quello che si osserva è un vero e proprio tracollo dell’attività industriale italiana. Un salto all’indietro. Un tonfo del -3%, ancora più preoccupante se si considera che la marcia indietro si protrae ormai da 18 mesi.

La rilevanza del dato è evidente. Posto pari a 100 il volume della produzione del febbraio 2023, oggi lo stesso indice segna appena 95,2 (-4,8%). Quindi, per l’Italia una “torta” complessivamente più piccola da dividere però, secondo i dati Istat di agosto, tra un numero crescente di occupati. Una tendenza che accentua ancor di più le disuguaglianze nella distribuzione del reddito, considerando che i salari reali medi sono fermi (per essere ottimisti) da oltre 20 anni (Ocse, 2024).

Solo pochi settori industriali si salvano. Le diminuzioni riguardano quasi tutto il manifatturiero. Avanzano lentamente l’alimentare (5%), il chimico (4%) e l’energia (2%). Pochi comparti industriali e non tutti ad alto contenuto tecnologico. Tra i settori più colpiti ci sono l’automotive (-26%), l’abbigliamento (-19%) e, senza eccezioni alcuna, i comparti di punta in termini di R&D e innovazione.

Uno scivolamento all’indietro del sistema produttivo nazionale che rischia di relegare l’economia italiana ai margini della competizione globale. Una inascoltata sirena d’allarme sempre più preoccupante, anche alla luce del rallentamento europeo, con la profonda crisi del settore automobilistico tedesco, che trascina con sé anche la produzione italiana di beni intermedi, inclusa la componentistica auto (-7%).

Cosa attendersi? L’Italia e i Paesi europei si trovano oggi in una posizione fragile, schiacciate, tra l’incudine e il martello degli Stati uniti e della Cina, detentrici di tecnologie avanzate, know-how e risorse. Sono questi i fattori strategici che consentono oggi il controllo delle catene di valore mondiali, dello sviluppo e della fornitura. Il modello italiano, da tempo vulnerabile nelle stesse filiere produttive europee, e più di esse, rischia, in assenza di politiche industriali, di accumulare un ritardo non più colmabile nella competizione internazionale.

Serve una politica industriale. L’indice Istat della produzione industriale è il termometro che misura lo stato di salute dell’attività economica. Anticipa di qualche mese la dinamica del Pil. Con una crescita modesta (se non nulla) i margini per la prossima manovra di bilancio saranno sempre più stretti. Anche alla luce del nuovo Patto di Stabilità firmato dal Governo Meloni. Una coperta corta che rischia di de-finanziare ulteriormente aree cruciali della spesa sociale e degli investimenti pubblici, come è già accaduto in questi mesi con i tagli al sistema sanitario, educativo ed universitario.

La manovra «seria ed equilibrata» di bilancio annunciata dal ministro dell’economia Giorgetti non sembra perciò essere la chiave per fermare il declino del sistema industriale italiano. Serve un cambio di passo, un modello di sviluppo che ponga al centro investimenti, formazione e lavoro di qualità. Per evitare la lenta agonia.

*Entrambi gli autori sono del dipartimento economia, società, politica dell’Università di Urbino Carlo Bo

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Crisi Europea. Da quella dei ricchi arriva la «modernità»: sarebbe il nucleare. Da Sbilanciamo il "fare" di una miriade di iniziative concrete e "contrarie" con forme di democrazia diretta
L'Altra Cernobbio, uno degli incontri
 

L’incontro che da 15 anni, per iniziativa di Sbilanciamoci e altre organizzazioni si tiene a Cernobbio in contemporanea a quello dei ricchi del mondo è tra i pochi strumenti che ci restano per attivarci.

Ecco un altro convegno. La la settimana scorsa è stata la conferenza per la pace promossa a Berlino dalla Fondazione Rosa Luxemburg, ora è l’incontro annuale che da 15 anni, per iniziativa di Sbilanciamoci e altre organizzazioni della società civile fra cui l’Arci, si tiene a Cernobbio in contemporanea a quello che ormai da anni nella stessa città riunisce i potenti del mondo convocati dallo Studio Ambrosetti.

Si tratta di convegni spesso stimolanti perché tra i pochi strumenti che abbiamo per ascoltare gli altri e dire la nostra, come un tempo accadeva quando c’erano i partiti e si comunicava per poi decidere insieme. Per attivarsi. Non voglio naturalmente fare una cronaca, ma alcune considerazioni sì. Dalla Cernobbio dei ricchi, per quanto è dato capire, è stato ridefinito il concetto di modernità che ora sarebbe il nucleare e un ritorno indietro il più veloce possibile dai progetti, e dunque dalle loro scadenze, solo poco tempo fa raccolte nel Green new deal. Da Sbilanciamoci invece un’informazione ricca sulle tantissime iniziative assunte per andare efficacemente in senso contrario, testimonianza di un nostro “fare” che si sposta sempre più sul territorio per dar vita a nuove forme di democrazia diretta locale: penso per esempio alla «pratica dell’obbiettivo»,, ai Consigli di fabbrica che poi diventarono anche di zona, embrioni di potere diretto, come quelli di cui parlava Rosa Luxemburg, e tanto ne scrisse Gramsci. E ora vorrei aggiungere qualche considerazione e proposta.

1. La prima riguarda quanto ci ha detto Enrico Giovannini, ex ministro del lavoroe il solo invitato anche all’incontro Ambrosetti. Ci ha detto che un tema dalle conseguenze potenzialmente terrificanti discusso nell’”altro convegno” è stato quello dell’Intelligenza Artificiale. A parte la pericolosa manipolazione dei nostri cervelli che si rende possibile, c’è un altro dato “nostro” con cui è necessario metterlo in contatto:nel corso di tutto il XX secolo il progresso tecnologico ha prodotto una riduzione dell’occupazione tradizinale del 15 %, le previsioni per il XXI, quello che stiamo vivendo, sarà del 75 %! Se ne deduce che avremo una società in cui il suo 25% più potente, usando una piccolissima élite di tecno-scienziati, comanderà su un mondo popolato da un 75% di esseri umani costretti a diventare un’ enorme area di servitori, badanti di vario genere, di cui faranno parte non solo i pochi istruiti ma anche tutti quelli che saranno in possesso di una laurea destinata a diventare in pochissimo tempo obsoleta. Ma se è così ha senso che noi continuiamo ad affrontare il tema della scuola in modo tradizionale, spingendo affinché queste lauree siano più numerose, sebbene non siano più servibili, senza invece riprendere l’intuizione che ebbe il movimento operaio italiano negli straordinari anni ’70: quello di un ripensamento generale della scuola che finalmente conducesse a un sistema in cui lungo tutto l’arco della vita lo studio si intrecciasse con il lavoro, una moltiplicazione delle 150 ore, e/o anche ”4 ore di studio e 4 ore di lavoro”, per ricordare il Piano proposto da Il Manifesto ?

2. Monica Di Sisto al convegno ha giustamente parlato della necessità di rendere più attiva l’iniziativa politica della società civile a livello europeo. Affinché l’Europa esista come soggetto unitario non bastano infatti, anche se sono urgenti, riforme che portino ad unificare settori importantissimi come il fisco o il sistema bancario. Ma perché questo avvenga bisogna infatti che l’Unione europea diventi soggetto, e dunque operi unitariamente a livello della società civile. E però, perché questo avvenga, occorre prima di tutto che gli europei si conoscano fra loro, avvertano le stesse esigenze e compiano le stesse esperienze. Qui è indispensabile una autocritica complessiva di tutti noi, dall’Arci al sindacato a tutte le nostre Ong. La sola esperienza utile che in questi decenni si è fatta in questo senso è stata l’Erasmus,che ha dato almeno a una parte consistente degli studenti l’occasione di conoscere e vivere per un po’ in un altro paese europeo. Non sarebbe necessario varare un Erasmus per gli spazzini, sicché a rotazione uno dei lavoratori di questo settore, per esempio del comune di Firenze, possa andare a fare lo stesso mestiere nella città di Tolosa? E la stessa cosa vale per gli insegnanti, per gli addetti ai trasporti, per i contadini? Sì da capire meglio come affrontano tanti temi nuovi negli altri paesi, pensiamo solo a quanta centralità abbia oggi il problema della “spazzatura”, vale a dire della produttività dei rifiuti! Ogni comune , piccolo o grande, dovrebbe dedicare qualche soldo del proprio bilancio per trasformare gli inutili gemellaggi oggi esistenti (al massimo scambio di bande musicali dei rispettivi vigili urbani) in azioni sociali concrete,

3. Una quantità di norme del green deal che pure fissano precisi impegni non vengono mai applicate, non solo perché nessuno conosce le norme e le obbligazioni se non gli addetti ai lavori istituzionali, ma anche perché non sanno come farlo. Per esempio: non si deve più cementificare, è urgentissimo, la Terra non respira più. Benissimo. Eppure è altrettanto urgente ridisegnare le città per far fronte alle nuove domande: pensiamo solo alle donne e al loro bisogno di socializzare il lavoro di cura. Bisogna dunque rammendare le città. Chi lo deve fare? Gli operai edili, gi urbanisti, le femministe, i vecchi e i giovani bisognosi di nuovi spazi.
Ma questo comporta ripensare una quantità di cose, a cominciare dal mestiere dell’edile, e dunque al modo di operare del suo sta facendo? No. Anche questo è urgente e non può che essere il frutto di un impegno collettivo, di soggetti socialmente diversi e pur tuttavia bisognosi di una comune soluzione.

4. Infine: se mi guardo in giro mi accorgo che in ogni Paese europeo c’è una qualche vertenza in corso per affrontare problemi su cui sono aperte anche da noi analoghe vertenze. Basti per tutte la questione che da noi è stata chiamata «il salario di cittadinanza»..Possibile che non si. sia riusciti ad aprire una vertenza a livello europeo, un movimento europeo unificato che renderebbe la lotta più forte? (E questo vale per ogni altra rivendicazione).

Ecco, alla Cernobbio di Sbilanciamoci a Como ogni relatore ha parlato di cose di questo genere e questo è stato l’interesse vero del convegno. Ma proprio per questo vorrei che a livello di ogni Comune, ma anche di ogni quartiere, si costruissero collettivi di persone – studenti così come pensionati – che si attivino assieme per affrontarli

 
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