Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

INTERVISTA. Il cofondatore del Bds spiega le ragioni del movimento non-violento che dal 2014 Tel Aviv combatte come una «minaccia strategica»
Omar Barghouti: «Basta complicità, boicottare Israele è un obbligo etico» Manifestazione pro-Palestina a Roma - Gregorio Borgia/Ap

Dopo il tour di Omar Barghouti in varie città e atenei d’Italia, cui hanno fatto seguito polemiche e precisazioni, abbiamo raggiunto il palestinese Premio Gandhi 2017, difensore dei diritti umani e cofondatore del Bds, il «movimento nonviolento a guida palestinese per il Boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele» per approfondire proprio il tema del boicottaggio.

Come è nata l’idea di un movimento in tal senso?

Il Bds è stato lanciato nel 2005 dalla più grande coalizione della società palestinese. Si ispira alla lotta anti-apartheid sudafricana e alla lotta per i diritti civili degli Stati Uniti e affonda le sue radici in un secolo di resistenza popolare palestinese. Mira a porre fine al regime di colonialismo, occupazione e apartheid di Israele, che dura da 75 anni, e a sostenere il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Oggi che dimensioni ha assunto il Bds nel mondo?

Con l’inizio del genocidio in corso da parte di Israele contro 2,3 milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza occupata e assediata, l’importanza del Bds è cresciuta esponenzialmente. Israele sta perpetrando il primo genocidio al mondo in diretta streaming, con il pieno sostegno dell’Occidente coloniale, in particolare di Stati Uniti, Unione Europea e Regno Unito. Questo livello di “impunità totale”, come l’ha definito di recente il Segretario generale delle Nazioni Unite, è probabilmente senza precedenti, il che implica che anche le campagne Bds devono intensificarsi a livelli senza precedenti, facendo pressione sui fondi di investimento o pensionistici e sulle istituzioni di tutto il mondo, come i consigli comunali, le università, le chiese, le istituzioni culturali e così via, affinché adottino linee guida per gli acquisti e gli investimenti che escludano le aziende implicate in gravi violazioni dei diritti umani ovunque. Queste linee guida possono essere applicate per escludere le aziende coinvolte nel genocidio, nell’apartheid, nell’occupazione militare e negli insediamenti di Israele, così come possono essere applicate per escludere le aziende coinvolte in altre ingiustizie. Gli sforzi del Bds per smantellare il regime di apartheid coloniale di Israele, aiuterebbero a sostenere i diritti non solo del popolo palestinese, ma anche dei popoli e delle comunità di tutto il mondo. Dopo tutto, Israele è oggi un modello per gran parte dell’estrema destra e dei suprematisti bianchi del mondo, che danneggia non solo i palestinesi ma anche milioni di altre persone.

Omar Barghouti

Davvero il boicottaggio dei comuni cittadini può far male a una potenza politico militare?

I cittadini di Paesi quasi democratici come l’Italia, la Francia, la Germania, gli Stati Uniti, il Regno Unito, ecc. hanno l’obbligo etico di impegnarsi. Non stiamo chiedendo la carità, chiediamo la fine della complicità. A causa del crescente impatto del movimento Bds, dal 2014 Israele lo considera una “minaccia strategica” di prim’ordine e investe ingenti risorse finanziarie, di intelligence, di propaganda e diplomatiche per combatterlo. Per anni Israele ha persino dedicato un intero ministero governativo alla lotta contro il Bds. Come rivelato dal documentario innovativo di Al Jazeera, The Lobby, e come rivelato recentemente da un’inchiesta di The Nation, Israele e i suoi gruppi di pressione negli Stati Uniti hanno speso centinaia di milioni di dollari per combattere il Bds. Il movimento ha fatto sì che grandi multinazionali cessassero totalmente o parzialmente il loro coinvolgimento. Solo questo mese, in seguito alla sentenza della Corte internazionale di giustizia che ha stabilito che Israele sta plausibilmente commettendo un genocidio, due importanti aziende giapponesi hanno interrotto le relazioni con il più grande produttore privato di armi israeliano. Giganteschi fondi sovrani in Norvegia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Nuova Zelanda e altrove, così come una notissima fondazione benefica Usa hanno disinvestito da aziende e banche israeliane o internazionali coinvolte nell’occupazione. E così comuni, chiese, sindacati, organizzazioni di lavoratori. Decine di migliaia di artisti e accademici hanno dichiarato il loro sostegno al boicottaggio culturale e accademico di Israele.

Da più parti si cerca di far passare nella politica internazionale e nei media l’equiparazione tra antisionismo e antisemitismo. Il Bds è l’uno, l’altro o nessuno dei due?

Ancorato alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il movimento Bds si oppone categoricamente a tutte le forme di razzismo, compresi l’islamofobia, l’antisemitismo e certamente il sionismo. Un numero crescente di sostenitori del Bds anti-coloniale ebraico-israeliano svolge un ruolo significativo nel movimento, e un sondaggio del 2022 ha mostrato che il 16% degli ebrei americani sostiene il Bds, con una percentuale in forte aumento per i minori di 40 anni. Essi comprendono che non c’è nulla di ebraico nell’assedio, nella pulizia etnica, nei massacri, nel furto di terra e nell’apartheid di Israele, e quindi non c’è nulla di antiebraico di per sé nel sostenere il Bds per porre fine a questi crimini.

In Italia da tempo stiamo assistendo a inedite restrizioni della libertà di stampa, di manifestazione e di opinione. Lei pensa che il boicottaggio possa offrire alle masse un valido sostituto alla manifestazione di piazza in un momento in cui la partecipazione fisica è in grande declino?

Se qualcuno pensa che questa repressione, o il maccartismo 2.0, si fermerà al silenzio della difesa dei diritti dei palestinesi, si sbaglia. La repressione non ha un interruttore on-off, come gli europei dovrebbero sapere bene dalla loro storia oscura. La legislazione anti-Bds in decine di Stati americani viene usata come modello per reprimere la difesa del diritto di voto dei neri, la giustizia climatica, i diritti riproduttivi e delle donne, la teoria critica della razza, i diritti Lgbtqi+, ecc. Lo stesso sta accadendo in Europa a un ritmo che dovrebbe far arrabbiare o almeno allarmare tutti i liberali, non solo i progressisti

 
 
Commenta (0 Commenti)
COMPLESSO MILITARE. Autorevoli economisti sono stati incaricati da altrettanto autorevoli governi di preparare piani di spending review, ovvero di revisione della spesa. Ora però pare che per finanziare la guerra i soldi si trovino eccome
Soldati ucraini vicino Bakhmut, Ap Soldati ucraini vicino Bakhmut - Ap

La grande maggioranza degli italiani è contraria a contribuire economicamente a uno sforzo bellico. Ma questo, comunque la si pensi sulla guerra in Ucraina, non deve stupire. Da ormai più di trent’anni, giornalisti, politici ed economisti ripetono a reti unificate che gli italiani non si possono permettere un livello così elevato di spesa pubblica. Le pensioni pesano troppo sul bilancio dello Stato.

Per la scuola non ci sono soldi: i nostri insegnanti sono sottopagati e mossi più dalla passione per il loro lavoro che non da incentivi economici. Non parliamo poi di medici e infermieri, mestieri che richiedono ormai una vocazione pari a quella ecclesiastica. Sostegno ai disoccupati? Neanche per idea. Non ci sono soldi. Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, così ci dicono, e ora bisogna stringere la cinghia. Intere generazioni, dagli adolescenti fino ad arrivare ai quarantenni di oggi, sono state cresciute con questo mantra.

Autorevoli economisti sono stati incaricati da altrettanto autorevoli governi di preparare piani di spending review, ovvero di revisione della spesa. Ora però pare che per finanziare la guerra i soldi si trovino eccome.

Secondo i conti di Sbilanciamoci e Rete Pace e Disarmo, nel 2024 l’Italia si appresta a destinare oltre 28 miliardi di euro alla spesa militare. 28 miliardi di euro è poco meno di un’intera finanziaria, quattro anni di reddito di cittadinanza, sette volte la spesa annuale in sanità della regione Calabria. Ma questo non basta: l’alleanza atlantica pretende di più. Vuole più coinvolgimento da parte degli Stati, più armi, più carri armati, più personale militare. L’obiettivo richiesto nero su bianco a ogni Stato è di dedicare lo 0,25% del proprio Prodotto interno lordo all’aiuto militare all’Ucraina. Per l’Italia, si tratterebbe di 5 miliardi e mezzo. Solo per l’Ucraina.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:
Super-base sul Mar Nero, la Nato avvicina la Russia

Ecco quindi che in Europa si discute di come finanziare ulteriormente lo sforzo bellico. Due sono le posizioni sul tavolo. Da una parte i soliti «falchi», con la Germania in testa, che vorrebbero che ogni Stato contribuisse per sé, tagliando ancora la spesa oppure aumentando le tasse. Dall’altra i «latini», Francia, Italia, Spagna, che spingono per l’emissione di eurobond, cioè di debito pubblico europeo.

In passato si parlò più volte di una mutualizzazione del debito, ovvero di una sua condivisione tra gli Stati membri dell’Unione, tramite l’emissione di obbligazioni – bond appunto – europei. Se ne discusse per fare fronte alla crisi del debito nel 2011, ma lì la politica interna ebbe la meglio sulla solidarietà. Sono state solo la crisi del Covid, e il finanziamento delle transizioni energetica e digitale a far saltare questo tabù. E ora che la via è aperta, gli eurobond potrebbero servire per costruire un’Europa militare, laddove non siamo riusciti a costruire un’Europa politica e tanto meno una solidale.

Ma quale ipotesi di finanziamento prevarrà alla fine? La storia insegna che in passato si è finanziata la guerra con la politica fiscale – ovvero aumentando le tasse o diminuendo la spesa – se il consenso a favore della guerra era alto e la paura per l’inflazione era bassa. Si è invece finanziata la guerra con il debito, innanzitutto interno, nonché stampando moneta – cioè aumentando l’inflazione – se l’opinione pubblica era contro la guerra e lo Stato aveva più difficoltà di ordine burocratico o economico a raccogliere tasse.

I paesi «frugali» sono oggi contraddistinti da avversione per l’inflazione e alto supporto per la guerra, e spingono quindi per la via fiscale. Gli elettori italiani e i loro vicini meridionali sono invece contro la guerra, ma soprattutto contro l’idea di aumentare le tasse.

Tra le due vie, entrambe folli, la soluzione si dovrebbe trovare in una terza strada. Riducendo, invece che aumentando, le spese militari, lavorando il più possibile per diminuire il livello della tensione e per arrivare a un negoziato, invece di sostenere questo scontro che non può portare nulla di buono per i popoli europei.

Perché la storia insegna anche che a guadagnare dalle guerre, alla fine, sono sempre e solo i produttori di armi.

 
 
Commenta (0 Commenti)

La studiosa Maria Chiara Franceschelli analizza il voto e la situazione interna al Paese che Putin continuerà a guidare sino al 2030

 GUARDA IL VIDEO

Le elezioni in Russia si sono aggiudicate il titolo di ‘farsa’, persino da parte della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, la quale, insieme al suo vice Matteo Salvini, di parere assai contrario, è riuscita a fare diventare una bega italiana un fattore internazionale di grande rilevanza soprattutto sul fronte della negazione dei diritti fondamentali nel Paese del rieletto Vladimir Putin.   

Il presidente russo, dopo avere incassato quasi il 90% dei voti con un’affluenza record alle urne che è andata oltre il 73%, alza la voce tanto sul fronte della guerra ingaggiata contro l’Ucraina quanto contro chi grida alla illegittimità delle elezioni nel suo Paese, con il voto esteso anche nelle regioni ucraine da poco annesse dove abbiamo visto la presenza di militari russi ai seggi elettorali.

Maria Chiara Franceschelli, ricercatrice presso la facoltà di Scienze politiche e sociologia della Scuola Normale di Pisa e coautrice del volume ‘La Russia che si ribella – Repressione e opposizione nel Paese di Putin’, analizza la situazione interna a un Paese grande quasi quanto un continente e il genere di consenso manifestato al ‘capo supremo’. La studiosa esclude che le elezioni siano state uno spartiacque a livello internazionale, ma sostiene abbiano radicalizzato le posizioni nei confronti di Mosca. 

 

Commenta (0 Commenti)

Ma Al Sisi «non ha invaso il suo vicino», ammonisce il presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Vero. Gli è bastato invadere il suo Paese con un sanguinoso colpo di stato nel luglio 2013

Il “piano Mattei” al via con Al Sisi, il fascino indiscreto delle dittature Un manifestante durante una protesta contro Al Sisi in visita a Parigi - Ansa

È il fascino indiscreto, e talora scomodo, delle dittature. Siamo stati amici di Saddam Hussein contro l’Iran di Khomeini, di Gheddafi quando era il “guardiano” dell’Africa; persino Putin e Assad ci sono serviti contro l’Isis, l’egiziano Al Sisi adesso è utile contro le migrazioni, il turco Erdogan, sultano dalle ambizioni neo-ottomane, è anche membro nella Nato. Eppure questi ultimi due, nostri amici e alleati, si sono congratulati vivamente con Putin per la sua rielezione che noi condanniamo con veemenza per una repressione sistematica e impietosa degli oppositori.

Ma Al Sisi non ha invaso il suo vicino, ammonisce il presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Vero. Gli è bastato invadere il suo Paese e imbastire un sanguinoso colpo di stato nel luglio 2013 per abbattere un governo che poteva non piacere, quello dei Fratelli Musulmani, ma che era stato eletto regolarmente e approvato persino dagli Stati uniti di Obama.

Tre settimane prima del golpe del generale egiziano ero all’ambasciata italiana del Cairo a incontrare i rappresentanti di quell’esecutivo, accolti con il dovuto rispetto, intervistati e filmati dai media. Ora molti di quei politici e militanti sono morti o li attende la forca. Questo è il Paese dove ha perso la vita Giulio Regeni, torturato e ucciso dai poliziotti di Al Sisi, sotto processo a Roma ma che il generale continuerà a proteggere.

Questo è il prezzo di quel colpo di stato, paragonato a quello di Pinochet in Cile dal Nobel della letteratura Orhan Pamuk, costato migliaia di vittime, centinaia di migliaia di persone incarcerate e alla fine anche il fallimento dello stato egiziano e di governanti che non sanno uscire dalle loro contraddizioni.

In Egitto oltre il 30% della popolazione – 114 milioni di abitanti – vive sotto la soglia di povertà. I tecnocrati di Sisi hanno tagliato pesantemente il carburante e altri sussidi ai consumatori durante una precedente tornata di riforme quindi l’attuale deficit del bilancio è causato soprattutto da aziende statali inefficienti e da costosi progetti infrastrutturali. Ma tenere sotto controllo questa élite – ci informa Barron’s, pilastro dell’informazione finanziaria Usa – potrebbe rivelarsi ancora più impegnativo, poiché incide sull’esercito egiziano, i cui tentacoli economici si estendono attraverso l’economia.

Non è chiaro se Al Sisi possa mantenere il potere se esautora i militari: in realtà i finanziamenti che stiamo dando al Cairo non salvano un Paese e il suo popolo ma il colpo di stato del generale-presidente.

Come scrive Barron’s, l’Egitto è un Paese sull’orlo del fallimento, con un debito estero di oltre 160 miliardi di dollari, e interessi da pagare per 40 miliardi di dollari l’anno che si divorano tutte le entrate dello stato. Ma come si dice nel miglio quadrato di Londra “It’s too big, to fail”, è troppo grande per fallire. Gli Emirati arabi uniti, il Fondo Monetario e l’Unione europea hanno sottolineato con forza questo punto promettendo in queste settimane circa 40 miliardi di dollari in investimenti e prestiti, di cui 8 vengono dal Memorandum d’intesa firmato domenica con Ursula Von de Leyen (accompagnata da quattro premier europei tra cui Meloni). In realtà aggiungendo i prestiti della Banca africana e di altre fonti si arriva a circa 60 miliardi di dollari.

Poi l’Italia ci mette sopra come ciliegina il Piano Mattei, soldi e progetti già previsti dalla Cooperazione, un gioco di bussolotti in cui l’unica a fare qualche grosso affare è l’Eni, salvo che non inciampi come nell’ottobre scorso negli appalti israeliani del gas offshore che appartiene ai palestinesi di Gaza. Mattei, che aveva sostenuto la lotta anti-coloniale degli algerini contro i francesi, si rivolterebbe nella tomba. Altro che capitalismo non predatorio: vatti a fidare di Tel Aviv.

Il generale-presidente egiziano è così messo male che si sta vendendo a pezzi il Paese. Gli Emirati ha promesso un acconto di 24 miliardi di dollari per un resort grande quanto Londra da costruire sulla costa del Mediterraneo nell’Egitto occidentale. E adesso si parla di vendere anche Alessandria con il suo porto e le sue magnifiche attrattive.

Ma perché siamo così generosi con il generale golpista del Cairo? Se gli israeliani attaccheranno a Gaza il valico di Rafah migliaia di palestinesi cercheranno di fuggire alla morte nel Sinai egiziano, come previsto sin dall’inizio dai documenti militari pubblicati in ottobre da Haaretz.

La realtà è che noi amiamo i dittatori e le finte democrazie. Netanyahu è il leader che è stato più volte al Cremlino. Non ha messo sanzioni a Mosca né dato una pallottola a Zelenski. Gli alleati di Putin in Medio Oriente per tenere in piedi il siriano Assad, Hezbollah e pasdaran iraniani, sono nemici di Israele. Ma Putin non ha mai detto una parola contro i raid israeliani in Siria. In fondo Netanyahu “aiuta” Putin a tenere a bada alleati difficili e ognuno massacra chi vuole nel cortile di casa sua, che sia in Ucraina, a Gaza o al Cairo, mentre le monarchie assolute del Golfo stanno zitte e sperano di farla franca davanti alle stragi dei palestinesi.

Tre quarti dell’umanità non fa una piega contro i massacratori. L’Europa intanto paga Al Sisi come paga Erdogan per tenersi i migranti e tutti e due sono amici di Putin. Mentre gli Usa vendono armi a tutti, poi si vedrà chi resta in piedi. Di «collettivo» in questo Occidente ci sono solo i discorsi ipocriti degli europei sulla democrazia e la nuova «economia di guerra». Ma chi invade chi?

 

Commenta (0 Commenti)
INTERVISTA ALLO "SPITZENKANDIDAT" DEI SOCIALISTI EUROPEI. Von der Leyen e Meloni da Al Sisi? Un altro regime non democratico a cui si offrono soldi, come già in Tunisia. Ma nella strategia non sono inclusi i nostri valori europei e il rispetto dei diritti umani
Nicolas Schmit, foto Ap Nicolas Schmit - Ap

Incoronato il 2 marzo dal congresso del Partito socialista europeo (Pse) a Roma come Spitzenkandidat, ovvero candidato alla guida del prossimo esecutivo comunitario, Nicolas Schmit è esponente di lunga carriera del Partito socialista del Lussemburgo.

Classe 1953, già ministro del lavoro e poi degli Esteri nel Granducato, eurodeputato nel 2019 e da allora Commissario al Lavoro e agli affari sociali in carica.

A lui si devono due importanti provvedimenti dell’Europa sociale: la direttiva sul salario minimo del 2022 e la legge per la tutela dei lavoratori delle piattaforme (la cosiddetta “direttiva rider”), ora in via di approvazione finale.

Incontriamo Schmit nella sede del Parlamento europeo di Bruxelles a margine della due giorni “My Choice, My Voice” dei giovani socialisti europei a cui ha partecipato anche la segretaria Pd Elly Schlein.

Domenica scorsa la presidente della Commissione Ursula von der Leyen era in Egitto per stringere accordi con il presidente Al Sisi. Al suo fianco, come qualche mese fa in Tunisia, la premier Giorgia Meloni. Se l’esternalizzazione delle frontiere è la strategia migratoria messa in campo dall’Ue, è una buona scelta?

Non mi piace il modello: la presidente accompagnata da vari primi ministri, come era già accaduto in Tunisia. Di nuovo un regime non democratico a cui si offrono soldi. Eppure nella strategia non sono inclusi i nostri valori europei e il rispetto dei diritti umani, che dovrebbero essere garantiti a tutti i profughi.

L’Europa si sta precipitosamente armando per arginare la minaccia russa. Ci siamo proprio dimenticati delle possibili soluzioni diplomatiche?

Non penso che stia correndo verso il conflitto. Dobbiamo essere fermamente al fianco di Kiev, altrimenti il rischio di altre guerre si fa molto più alto. Lei parla di diplomazia, ma si può negoziare solo con chi vuole, e non è certo Putin. Il Cremlino vuole un’Ucraina fantoccio della Russia, non è accettabile. Dobbiamo sostenere Kiev anche per la nostra sicurezza, perché se Putin può vincere la guerra non si fermerà all’Ucraina e arriverà ai Balcani, alla Moldavia e non solo. La diplomazia arriverà quando sarà il momento.

Arrivare alla fine del conflitto a Gaza è una necessità. Come facciamo?

Dobbiamo aumentare la pressione su Israele. Questo governo è di estrema destra, anche gli Usa hanno problemi con loro. Netanyahu non ascolta nessuno ma quello che sta succedendo nella Striscia è – parola perfino debole – inaccettabile. Non parliamo più solo dei bombardamenti, ma di persone che muoiono di fame per colpa delle autorità israeliane che bloccano gli aiuti umanitari alla frontiera. Tel Aviv agisce oltre ogni regola internazionale e perfino contro l’interesse del popolo e dello Stato di Israele.

Il Consiglio europeo di questa settimana ha in agenda, anche su spinta del governo Meloni, il tema delle politiche agricole. Come si risolve il rebus: ascoltare le richieste del mondo rurale ma non buttare via il Green Deal?

Gli agricoltori sono le prime vittime del cambiamento climatico. La siccità in Catalogna o in Sicilia, le inondazioni che rovinano i raccolti, i roghi che mangiano ogni cosa sono esempi di come non possiamo contrapporre la transizione ecologica alla sopravvivenza della buona agricoltura europea. I problemi del mondo rurale non possono essere realmente legati al Green Deal, dato che non è ancora stato implementato. Il problema è nei loro guadagni troppo bassi e per superarlo dobbiamo certamente rivedere e mettere a punto alcune politiche europee in materia.

Lei è commissario in carica al lavoro della Commissione Von der Leyen e al tempo stesso candidato per i socialisti. Pensa di dimettersi in vista delle elezioni di giugno?

La decisione è già presa: non lascerò il mio posto ma separerò nettamente l’attività istituzionale da quella elettorale. D’altronde lo stesso vale anche per la presidente della Commissione, che resta in carica anche per evitare che si crei un vuoto di potere a Bruxelles

 
 
Commenta (0 Commenti)
MACRON E VON DER LEYEN. Democrazia corre il rischio di diventare il nome delle buone intenzioni che i governanti vogliono farci credere di avere. Guardo l’espressione compiaciuta di Ursula von der Leyen affiancata dal presidente […]
L’Europa tra bullismo e tiranni Ursula von der Leyen e il presidente egiziano Abdel Fattah El-Sisi

Democrazia corre il rischio di diventare il nome delle buone intenzioni che i governanti vogliono farci credere di avere. Guardo l’espressione compiaciuta di Ursula von der Leyen affiancata dal presidente egiziano Abdel Fattah El-Sisi, soddisfatto come se avesse vinto la lotteria, e mi torna in mente questo avvertimento, letto in un libro di John Dunn dei primi anni Novanta, quando sembrava che tutti fossero destinati, prima o poi, a vivere in un paese la cui forma di governo poteva dirsi democratica. Oggi il trionfalismo di quegli anni sembra appartenere a un’epoca lontana, ma fa rabbia pensare, almeno per chi già c’era a quei tempi, quanto avremmo fatto meglio a prendere sul serio gli avvertimenti di Dunn.

Invocare la democrazia per i nemici e condonare l’autoritarismo degli amici non è certo una novità, come hanno scoperto a proprie spese tanti paesi di quello che oggi chiamiamo «il sud del mondo» nel corso della guerra fredda. L’attuale presidente egiziano non è che l’ultimo di una lunga serie di autocrati che esemplificano quello che un presidente Usa che aveva il dono della sintesi chiamava our son of a bitch. Franklin D. Roosevelt era Democratico, non Repubblicano, ma ragionava come il capo dello Stato di una potenza imperiale.

In questo la sua posizione non era diversa da quella di tanti capi di Stato europei che prima di lui avevano tentato di far quadrare il bilancio morale di un regime democratico che difende una posizione di dominio o di egemonia sul piano internazionale.

Colpisce che oggi a avere lo stesso atteggiamento sia la responsabile dell’Unione europea, un’entità politica che ha costruito la propria legittimità sull’idea che i valori democratici fossero una conquista di civiltà. Un’idea su cui si è basata la promessa di un continente che si sarebbe lasciato definitivamente alle spalle l’imperialismo e la politica di potenza che avevano condotto a due guerre sanguinosissime e allo sterminio degli ebrei in nome della «purezza razziale».

Domenica al Cairo quella promessa è stata tradita, e non per la prima volta, in nome della difesa dei confini del «giardino» europeo.
Mi rendo conto che questo giudizio appare ingenuo agli occhi dei tanti realisti che oggi si danno da fare per difendere la tesi che l’Europa unita è, di fatto, una potenza che non può sottrarsi alla dura logica del conflitto che deriva da interessi incompatibili. L’Europa deve armarsi, ci dicono questi realisti, e prepararsi alla guerra, se necessario, per proteggere la propria sicurezza da altre potenze come la Russia, o domani la Cina, che hanno mire espansioniste. Questo imperativo strategico ci impone di non guardare tanto per il sottile, anche perché sappiamo di non poter contare più come un tempo sulla protezione degli Stati uniti, che da anni, e non solo durante la presidenza Trump, guardano al fronte del Pacifico come quello cruciale per i propri interessi nazionali.

Sono sufficientemente realista da prendere queste preoccupazioni sul serio, ma è proprio il mio realismo a alimentare il dubbio che non sia una realpolitik maldestra e venata di arroganza a metterci al sicuro dalle minacce.
Un esempio di come una postura bellicosa sia del tutto insufficiente a tutelare la sicurezza europea lo abbiamo avuto nei giorni scorsi nelle dichiarazioni di Emmanuel Macron che, da un lato ha lasciato intendere che la Francia potrebbe intervenire, in una qualche forma in verità poco chiara, nel conflitto tra Russia e Ucraina, e poi ha aggiunto che la sua dichiarazione era un esercizio di «ambiguità strategica» necessario per scopi di deterrenza.

Una situazione che ricorda quelle baruffe di paese in cui uno dei litiganti strepita e minaccia sfracelli contro l’avversario urlando «tenetemi» agli astanti. Un gioco pericolosissimo se, come accade talvolta, nessuno ti trattiene.
L’Europa a guida centrista di questi anni trasmette a chi la osserva, a Mosca o a Pechino, la stessa impressione. Un ometto spaventato da un bullo che sa bene di non essere in grado di affrontare.
Per essere forti le democrazie non possono basarsi solo sull’aumento delle spese militari. Devono far leva, come sono state in grado di fare quando hanno affrontato il fascismo e il nazismo, sui propri principi e sulle promesse che li esprimono: l’eguale libertà e la prospettiva di una vita decente per tutti i propri cittadini.

C’è poco da sorprendersi se persone spaventate per il proprio futuro, messo a rischio da politiche economiche di austerità che hanno eroso la sicurezza sociale e i diritti di cittadinanza, guardano con diffidenza al nuovo interventismo di leader centristi che inseguono la destra (sotto questo profilo l’attivismo di Giorgia Meloni fianco a fianco di von der Leyen e Macron dovrebbe far riflettere). Un’Europa ripiegata su se stessa, ossessionata dalla difesa dei propri confini da poche decine di migliaia di disperati che lascia morire di sete e di fame su un barcone, o lascia alla mercé degli sgherri di governi autocratici, non può avere la credibilità per farsi rispettare dai propri avversari e amare dai propri cittadini.

 
 
 
Commenta (0 Commenti)