Opinioni Nel presidente della Repubblica Usa, l’intuito politico della nostra premier ha creduto di riconoscere un altro Berlusconi, da adulare per avere dalla sua parte
Giorgia Meloni a Capitol Hill per la cerimonia di giuramento di Donald Trump – LaPresse
Non si può negare che Giorgia Meloni abbia intuito politico. Questa capacità le è stata utile, senza dubbio, negli anni della sua ascesa ai vertici della politica nazionale. Altri, provenienti dallo stesso partito, si sono persi per strada.
Non riuscendo a trovare un punto di equilibrio stabile tra il legame con le origini, che voleva dire anche con la base del consenso elettorale, e la necessità di muoversi in un ambiente dominato dalla personalità di Silvio Berlusconi. Un padrone più che un leader politico, in grado di fare e disfare le fortune di molti aspiranti a ruoli di spicco nell’ambito della destra italiana dopo gli anni Novanta. Meloni è passata da «giovane promessa» a partner politico senza mai perdere del tutto il favore di Berlusconi, tenendo insieme con disinvoltura le parole d’ordine della destra post-fascista e l’anomia vitalista berlusconiana, liberale nelle dichiarazioni di principio e libertina nelle scelte concrete, senza chiara distinzione tra politica e vita.
Sempre all’intuito si deve il consolidamento di Meloni come punto di riferimento dell’alleanza elettorale che, dopo l’uscita di scena di Berlusconi dalla vita e dalla politica, si è imposta come egemone nel parlamento e nella società civile italiana. Questi anni di governo sono stati poveri di risultati sul piano economico e sociale (nulla va bene, e molto va peggio), ma questo non ha messo fino a ora in discussione la posizione di Giorgia Meloni come guida della coalizione e del governo. Archiviato il vitalismo berlusconiano, la nuova leader ha imposto un suo stile che oscilla, a seconda dei momenti e degli interlocutori, tra la donna del popolo portavoce di valori tradizionali e conservatori, e la statista che si allinea alle correnti prevalenti di una politica europea il cui baricentro si è spostato sempre più a destra nel corso degli ultimi anni. Amata dai «suoi», mai messa in discussione dagli alleati (persino quello apparentemente più riottoso, Matteo Salvini, si guarda bene da insidiarne il ruolo come leader della destra), blandita dai centristi e persino da certi ambienti tecnocratici un tempo vicini al Pd, Giorgia Meloni è riuscita finora e schivare le conseguenze di errori politici del suo governo e di diversi scandali che hanno coinvolto esponenti del partito.
La redazione consiglia:
Manca manodopera migrante. Florida: «Lavorino i bambini»La sua presenza alla cerimonia di investitura di Donald Trump sembrava il suggello di un percorso di successo: dalla Garbatella a Washington. Tuttavia, è proprio nel rapporto con il nuovo presidente degli Stati uniti che Meloni si trova a dover affrontare la sfida più difficile, fino a ora, della sua esperienza di governo. Un confronto dall’esito imprevedibile, che potrebbe erodere il consenso di cui gode nel paese e tra gli alleati, e persino provocarne la caduta. A tradirla è stato probabilmente un eccesso di fiducia in se stessa, e nell’intuito che le è stato così prezioso in passato. In Donald Trump, infatti, Meloni ha creduto di trovare un altro Berlusconi, da adulare puntando a coltivare con lui una «relazione speciale» utile sia nella politica europea sia in quella nazionale italiana. Trump, tuttavia, nonostante qualche somiglianza superficiale, non è Berlusconi. Quello che sta accadendo negli Stati uniti è un cambiamento di regime, portato avanti da un gruppo di persone prive di scrupoli, e con interessi economici al cui confronto Mediaset è davvero poca cosa.
Così è avvenuto che la «relazione speciale» si sta trasformando in una «relazione spiacevole» che comporta non solo il rischio dell’umiliazione da parte di Trump, ma anche una frattura seria con i partner europei, coi quali fin qui Meloni era riuscita a mantenere una buona intesa grazie alle sue posizioni sull’Ucraina e sulla sicurezza. Inebriata dai propri successi, e dal servilismo di gran parte della stampa italiana, nella sua visita a Washington la presidente del consiglio italiana potrebbe trovarsi a essere il proverbiale vaso di coccio (fuor di metafora, la rappresentante di un paese che conta pochissimo sul piano internazionale e non può permettersi di alienarsi le simpatie dei partner europei per affidarsi a un autocrate che intende perseguire una politica di potenza utilizzando i dazi come una delle risorse per ottenere quel che vuole).
Se le cose andassero male, la “bravissima” Giorgia Meloni potrebbe trovarsi a far fronte a una crisi economica e sociale che, date le condizioni dell’Italia, si trasformerebbe facilmente in una crisi politica. A questo punto l’inconsistenza di un nazionalismo fatto di gesti eclatanti (prevalentemente a spese dei migranti) e di tante chiacchiere non potrebbe essere ricomposta affidandosi ancora una volta all’intuito.
Se in Italia ci fosse un’opposizione organizzata, sostenuta da una stampa forte, le prossime settimane sarebbero il momento per farsi sentire. L’esperienza recente induce tuttavia a un certo scetticismo. Continueremo a leggere editoriali sulle «incongruenze» di Elly Schlein e sul pericolo che i pacifisti e il M5S rappresentano per l’occidente e per la serenità di qualche editorialista irritabile. Non è escluso che la relazione speciale con Trump provochi la caduta di Giorgia Meloni, ma la sua uscita da palazzo Chigi non sarà sufficiente a cambiare la direzione di fondo della politica italiana fino a quando non emergerà una chiara visione alternativa del futuro.