IL «TRIANGOLO DI WEIMAR». L’agenda del riarmo, correndo sul filo del si vis pacem para bellum, trova facili apologeti, sempre pronti ad irridere i cosiddetti pacifinti. Fra fra i problemi c’è come la teoria della guerra pare avere buon gioco nel raccontarsi teoria della pace
Macron e Scholz in un vertice del 2022 - Ap
«Caro Antonio, noi non siamo in guerra con la Russia». Inizia così il messaggio di Emmanuel Macron, che però subito aggiunge che «è necessario non porsi limiti davanti a un nemico che non se ne pone alcuno».
L’Antonio in questione non è il ministro degli esteri Tajani – che ieri ha scandito la propria distanza da Parigi, sottolineando come per l’Italia la guerra resti fuori dall’Europa. Antonio è un ragazzino francese che, con comprensibile apprensione, si è rivolto a Macron per sapere se verranno inviati soldati in Ucraina.
Lo scambio avviene mentre a Berlino il cosiddetto Triangolo di Weimar (Macron, il cancelliere tedesco Scholz e il premier polacco Donald Tusk) ha sbloccato, inter alia, la fornitura di missili a lungo raggio agli ucraini, le cui città continuano ad essere insanguinate dai russi.
Ancora mancano dettagli, ma si tratta verosimilmente dei tedeschi Taurus, ritenuti capaci di colpire con precisione i centri di comando, penetrando bunker e fortificazioni.
L’annuncio collettivo sottintende il superamento delle polemiche fra Parigi e Berlino, che hanno visto i tedeschi risentiti per l’esiguità del contributo materiale della Francia alla difesa ucraina e per le frasi di Macron sull’invio di truppe quale antidoto alla vigliaccheria.
Una decisione comune, che mira certo a «fornire i mezzi perché la Russia non vinca», ma che parla anche di schieramenti politici in un’Europa che si prepara alle
Leggi tutto: L’Europa alla teologia della guerra - di Francesco Strazzari
Commenta (0 Commenti)COMMENTI. Il consenso a fisarmonica dei 5 Stelle è un problema. Ma, dopo l’Abruzzo, il Pd al 20% concentrato nella rappresentanza dei settori sociali medio alti non può essere da solo la soluzione
Il voto in Abruzzo ha avuto almeno il merito di archiviare, fino al prossimo accidente positivo, il culto, consolatorio o inebriante, del «vento»: a settembre 2022, c’era un vento di destra in Italia; poi, il vento di destra era ovunque; anzi no, in Spagna si ferma; in Sardegna, finalmente, cambia direzione. Emergono, così, gli ostacoli strutturali lungo la strada per arrivare ad una coalizione progressista credibile, quindi competitiva, l’unica opzione politica possibile per dare forza di governo ad un programma di dignità del lavoro, giustizia sociale, conversione ambientale e, prima di tutto, pace.
Il primo ostacolo è annoso, diffuso in tutte le democrazie mature ed oltre: la lontananza dei partiti della sinistra storica, in tutte le sue declinazioni, dalle fasce popolari. Il secondo è relativamente recente, presente a macchia di leopardo in giro per l’Europa, significativo in Italia: nel voto amministrativo, il restringimento del consenso delle periferie sociali al M5S, il soggetto che, sin dal suo esordio, ne ha intercettato nel voto politico, in concorrenza alla destra e alla defezione, la rabbia, le paure, la sfiducia incancrenita. Certo, il consenso a fisarmonica al M5S nel voto per i diversi livelli di governo lo registriamo regolarmente a partire dal suo arrivo in parlamento nel 2013. Accomuna i giovani movimenti anti-sistema. In Francia, avviene per La France Insoumise di Melenchon. Ma tali caratteristiche non attenuano la preoccupazione. Sono le due facce della stessa medaglia. Tuttavia, la discussione si è concentrata sul «crollo» del M5S. Come se il primo problema non esistesse e fosse, implicitamente, delegato al M5S il cimento di riportare il «popolo» nell’orbita progressista. Come se un Pd al 20%, concentrato nella rappresentanza dei settori sociali medio-alti fosse un risultato soddisfacente.
Invece, la sfida impegnativa è per entrambi i principali protagonisti del «campo»: soggetti distinti, irriducibili ad unum. La somma delle forze date, pur necessaria, non è sufficiente, neanche nel voto politico. Il lavoro preliminare da fare, separatamente e insieme, è, nel lessico antico, l’elaborazione di un’analisi di fase condivisa, almeno a grandi linee, per trovare punti d’incontro sulle grandi questioni di fronte a noi.
Siamo da qualche anno, in un’altra stagione dell’umanità. La «fine della Storia» è finita. Il trionfo del modello liberal-democratico a seguito della globalizzazione dei mercati non vi è stato. Anzi, quel modello è archiviato finanche a Washington, nel suo epicentro. Siamo nella stagione della protezione sociale e identitaria. Allora, quale Ue, oltre la favola degli Stati uniti d’Europa e l’autolesionismo del programmato ulteriore allargamento? Oltre le divergenze sull’invio di armi all’Ucraina, quale relazione con il global south, inclusa Russia e Cina, ossia quale ordine internazionale? Quali condizioni ai movimenti di capitali, merci, servizi e persone, anche nel mercato unico europeo, per arrestare la svalutazione del lavoro, il disfacimento delle classi medie, l’esaurimento della vivibilità sulla terra, il rattrappimento delle democrazie? Come governare con realismo i flussi migratori e intervenire sulle loro cause? Quale intervento pubblico nell’economia? Quale senso di comunità nazionale? Come affrontare l’emergenza antropologica? Quale cultura del limite all’utilizzo delle tecnologie e alla sovranità dell’individuo sul versante dei diritti civili?
Pd e M5S, le basi sociali di una coalizione possibile
Le risposte saranno diverse, ma le domande non possono essere evase. La svolta sarebbe nel riconoscimento reciproco del senso politico delle posizioni dell’altro per arrivare ad un’alleanza espressione di due matrici culturali, non soltanto compatibili, ma «contaminate», in grado di attrezzare tutti ad allargare la rappresentanza di quelle fasce popolari oggi auto-esiliatosi nell’astensione attiva o affidatesi, spesso per disperazione, alle destre. Poi, ciascuno dei protagonisti ha compiti specifici da svolgere, sul piano del consolidamento o della ridefinizione della cultura politica, della forma partito, della selezione e formazione di classi dirigenti adeguate.
È un cammino difficile, ma gli ostacoli non si possono aggirare. Non vi sono scorciatoie
L’11 marzo è iniziato il mese del Ramadan, che è il nono mese dell’anno lunare musulmano. Il calendario islamico non inizia con la nascita di Gesù Cristo, ma con l’Higira, l’anno in cui il profeta Mohammed (Maometto) lasciò la città di Mecca verso Medina, per predicare e professare l’islam in altre città e villaggi della penisola arabica. In realtà si tratta del mese in cui il Profeta Mohammed ha ricevuto la rivelazione del libro sacro dell’Islam. Ovvero il Corano. Ramadan è il mese sacro per il mondo musulmano.
È un mese dedicato al digiuno: “mangiate e bevete finché, all’alba, possiate distinguere il filo bianco (primissimo albore del mattino) dal filo nero (il buio della notte)”. Questo mese è dedicato anche alla preghiera, alla meditazione, è un mese di condivisione e di unione.
Il digiuno (al Sawm) è uno dei cinque pilastri dell’Islam, gli altri pilastri sono: la professione di fede, la preghiera che si fa cinque volte al giorno (all’Alba, a mezzogiorno, nel pomeriggio, al tramonto e alla sera), l’elemosina e il pellegrinaggio alla Mecca.
Il digiuno è un obbligo per tutti i fedeli adulti e sani. Dalle prime luci dell’alba fino al tramonto non possono mangiare, bere, fumare, praticare sesso e non solo questo; il digiuno in generale comprende anche l’astenersi dai comportamenti ingiusti, scorretti, ingenerosi e quindi è un mese di purificazione del corpo e dell’anima. Durante questo mese sacro i fedeli si sentono più vicini a Dio, il digiuno permette loro di provare il senso della fratellanza, della condivisione, ma anche il senso della povertà.
Sono esentate dall’obbligo del digiuno vaste categorie di fedeli: i malati, i minori, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, quelle che allattano, le donne durante il ciclo, chi è in viaggio, chi è in guerra. Come si vede, vi è una flessibilità molto palese e concreta.
Al tramonto viene interrotto il digiuno con l’iftar, la rottura del digiuno, che spesso si fa in modo collettivo, per condividere con gli altri questo momento così importante. Spesso si invitano parenti, amici, conoscenti e persone meno abbienti per festeggiare e condividere assieme l’iftar e per recitare le preghiere serali (Al Tarawih).
Questo mese viene celebrato da quasi due miliardi di persone sparse in tutto il mondo e non solo nel mondo arabo ed islamico, il mese unisce due miliardi di persone che hanno tradizioni, culture e usanze diverse. Soprattutto unisce due mondi antagonisti tra di loro: il mondo sunnita collegato prevalentemente al mondo arabo e il mondo sciita legato all’Iran.
Durante questo mese i fedeli si scambiano gli auguri dicendo “Ramadan Mubarak”, che significa Ramdan bendetto, oppure “Ramdan Kareem” cioè generoso e la risposta è “Allaho Akram” – Dio è il più generoso”.
Il mese di Ramdan dura di solito, come tutti i mesi del calendario lunare, 29 o 30 giorni e all’ultimo giorno tutti i fedeli festeggiano la vigilia dell’Eid Al Fitr con il quale si interrompe il digiuno e si fa festa.
Si vive e si festeggia questo mese sacro da 1445 anni in tutto il mondo e di solito prima dell’inizio del Ramadan si prepara tutto il contesto urbano, illuminazione delle città, dei villaggi, ma anche delle case e dei quartieri, per creare un clima di gioia e di festa. Il Ramadan ha anche il suo cibo, il suo dolce e ogni città e ogni villaggio ha tradizione e costumi propri; per esempio c’è la figura del mussaher , l’uomo che con il suo tamburo gira nei quartieri prima dell’alba per svegliare la gente ed invitarla a consumare un pasto notturno; In altre tradizioni addirittura bussa alle porte delle famiglie per ricordare loro che si sta avvicinando l’alba e devono concludere il Sohur, cioè il pasto notturno.
Quest’anno il Ramadan accade in un momento molto particolare soprattutto per i cittadini palestinesi di Gaza, di Gerusalemme e di Cisgiordania, dove la gente non muore soltanto di bombe, ma purtroppo anche di fame. Molti mezzi di informazioni, a livello globale, hanno intervistato i cittadini palestinesi su come hanno accolto il Ramadan in questa situazione.
Anche io, nel mio piccolo, ho chiesto la stessa cosa a diversi amici/amiche. Quasi tutti hanno risposto: “avremmo preferito se si fosse ritardato questo mese sacro per un po’ di tempo quest’anno, perché siamo sfollati, affamati, c’è la carestia, ci manca tutto; non c’è nemmeno una moschea dove possiamo pregare in pace”.
Già alla data odierna, i morti e i feriti dalle bombe israeliane hanno superato 105 mila persone, molte di loro sono bambini e donne, questo senza contare i dispersi. Da aggiungere a questo lungo elenco di sofferenza coloro che sono morti letteralmente di fame, per mancanza di cibo, di acqua e di medicinali.
Non vogliamo gli auguri di buon Ramadan da parte di tanti governanti perché, al posto dei loro auguri, preferiamo che mandino cibo, acqua e medicinali ai bambini di Gaza, anziché i rituali e falsi auguri; diciamo a loro: imponete un cessate il fuoco immediatamente; anziché auguri non sinceri vi chiediamo di bloccare le vostre forniture di armi con le quali vengono uccisi i nostri bambini.
Ramadan Kareem a tutt*
Commenta (0 Commenti)
La Corte di giustizia europea ha deciso di non accogliere la questione d’urgenza sollevata dalla nostra Cassazione: restano validi i provvedimenti con i quali il tribunale di Catania non ha convalidato il trattenimento di alcuni migranti tunisini nel Centro di Modica-Pozzallo. Trattenimento che il questore di Ragusa aveva disposto sulla base del «decreto Cutro» che com’è noto prevede una garanzia finanziaria per evitare il trattenimento.
Non c’era nessuna ragione di urgenza per la decisione della Corte di giustizia, i richiedenti asilo non sono più in stato di detenzione. La vera ragione di urgenza era la necessità del governo Meloni di ottenere prima delle prossime elezioni una sconfessione delle decisioni delle giudici di Catania Apostolico e Cupri. Ma la Corte europea non si è piegata alle esigenze politiche del governo italiano. Per la sentenza dei giudici di Lussemburgo si dovrà attendere almeno un anno. E intanto le decisioni dei giudici di Catania rimangono pienamente efficaci.
Secondo le giudici Apostolico e Cupri, l’articolo 6-bis del decreto legislativo 142/2015, come modificato dal decreto Cutro prevede una garanzia finanziaria la cui prestazione si configura non come misura effettivamente alternativa al trattenimento, ma come un requisito imposto al richiedente asilo, proveniente da un «paese terzo sicuro», per evitare il trattenimento amministrativo, requisito che nella pratica non si potrebbe mai adempiere.
In questo modo, in contrasto con la vigente direttiva europea in materia di procedure di asilo, il trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo avrebbe carattere generalizzato.
La Cassazione chiedeva ai giudici di Lussemburgo se gli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33 risultassero ostativi rispetto a una normativa di diritto interno che contempli quale misura alternativa al trattenimento del richiedente (che non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente e che non possa provvedere alle proprie necessità), la prestazione di una garanzia finanziaria di ammontare stabilito in misura fissa anziché in misura variabile, «senza consentire alcun adattamento dell’importo alla situazione individuale del richiedente, né la possibilità di costituire la garanzia stessa mediante l’intervento di terzi».
In realtà la Corte di Cassazione avrebbe già potuto decidere sulla legittimità dei provvedimenti del questore di Ragusa, sotto il profilo delle carenze di motivazione, rilevate dai giudici del Tribunale di Catania, ma aveva preferito rimettere alla Corte di Lussemburgo la complessiva questione dell’incompatibilità della disciplina sul trattenimento derivante dal decreto Cutro, con la normativa dettata dall’Unione europea.
Con questo rinvio alla procedura ordinaria da parte della Corte di Giustizia, rimane assai incerta l’applicazione del Protocollo Italia-Albania che si basa sulle «procedure accelerate in frontiera» e sul trattenimento amministrativo generalizzato per coloro che «provengono da paesi terzi sicuri». Non si vede davvero quale «garanzia finanziaria» potrebbero offrire le persone migranti soccorse in acque internazionali e deportate in Albania.
Si può attendere su tempi più lunghi un esercizio imparziale della giurisdizione, magari un intervento della Corte Costituzionale, sulle misure di trattenimento nelle procedure di asilo applicate in frontiera.
A meno che il governo non ricorra all’ennesimo decreto legge «sicurezza», ancora una volta in violazione del sistema gerarchico delle fonti imposto dalla Costituzione (all’articolo 117). In giorni nei quali sembra smarrito il valore della vita umana, dal genocidio in Palestina fino alle ricorrenti stragi di Stato nelle acque del Mediterraneo, il rispetto delle regole formali stabilite a livello europeo, a garanzia della libertà personale di chi fugge in cerca di protezione, e del diritto di asilo, costituisce un banco di prova per le residue possibilità di sopravvivenza delle democrazie europee, sempre più orientate, in vista delle prossime scadenze elettorali, a negare non solo i diritti ma la stessa presenza dei richiedenti asilo, ristretti in spazi considerati ancora al di fuori del territorio statale, se non deportati nei paesi terzi
L’analisi di Alessia De Luca (Ispi) sulla perdita di potere degli Usa nello scenario internazionale
Gli Stati Uniti balbettano di fronte al conflitto israelo-palestinese e non riescono nell’intento di essere incisivi nella guerra tra Russia e Ucraina. Anche l’aver lasciato l’Africa nelle mani di Cina e Russia è uno dei segni della perdita del loro ruolo di superpotenza globale. Il tutto alla vigilia di elezioni che potrebbero vedere il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump.
Alessia De Luca, giornalista e analista dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) nonché responsabile del daily focus dell’Istituto, ripercorre gli ultimi anni di storia degli Usa per aiutarci a comprendere i cambiamenti degli assetti internazionali.
Commenta (0 Commenti)DOPO L'ABRUZZO. Pd, M5S, rossoverdi e +Europa hanno trovato last minute un accordo anche in Basilicata, dopo dieci giorni di peregrinazioni tra rose di nomi. Verificheremo il 22 aprile se il campo […]
Pd, M5S, rossoverdi e +Europa hanno trovato last minute un accordo anche in Basilicata, dopo dieci giorni di peregrinazioni tra rose di nomi. Verificheremo il 22 aprile se il campo progressista riuscirà a sottrarre un’altra regione alle destre, ravvivando il vento sardo. Ma il punto qui è un altro. Dopo il voto in Abruzzo, si sta diffondendo – complice anche lo studio dei flussi dell’Istituto Cattaneo – una vulgata secondo cui gli elettori 5 stelle e dell’ex terzo polo tenderebbero a fuggire da un’ammucchiata che comprende partiti considerati troppo distanti. Una tendenza accentuata dai continui battibecchi tra i leader, in primis Conte e Calenda. La tesi è stata subito sposata dai commentatori mainstream, con l’obiettivo – sempre il solito – di indurre il Pd a scegliere l’abbraccio con i moderati e a scaricare il M5S.
L’architrave del ragionamento però non appare sufficientemente solido. Come ha scritto ieri Antonio Floridia ci sono tante ragioni che spiegano la propensione all’astensione degli elettori del M5s nelle elezioni locali o regionali, a partire dal basso tasso di identificazione partitica e l’estraneità alle reti di consenso locali. Non è un caso che gli elettori del M5S, in Abruzzo, siano quelli che hanno meno indicato una preferenza per i consiglieri regionali. Difficile sostenere che tra questi elettori ci sia stato un rigetto per la presenza nella coalizione di piccole liste centriste, che peraltro hanno avuto pochissimo spazio e visibilità nella campagna elettorale, compresi i leader nazionali. Né si può in alcun modo considerare troppo moderato il candidato del centrosinistra D’Amico, che invece aveva proposte radicali su lavoro, sanità e ambiente. E del resto Giuseppe Conte, nelle sue numerose tappe in Abruzzo, ha speso parole di grande fiducia verso D’Amico, escludendo qualsiasi sua tendenza al centrismo.
C’è però un’altra possibile causa dell’astensionismo a 5 stelle, di cui nel Pd occorre tenere conto: la fatica a considerarsi parte di un bipolarismo destra-sinistra, come è quello che sta ormai prevalendo su scala nazionale nel confronto Schlein-Meloni e che si è visto in Abruzzo, con la forte presenza delle due leader. Un Movimento nato sull’onda dell’antipolitica, allergico alle etichette di destra e sinistra, in grado di pescare voti da tutto l’arco politico, fa effettivamente fatica a riposizionarsi su schemi più tradizionali di lotta politica. Rischia di perdere per strada soprattutto i voti di protesta di chi contesta il sistema politico in generale. Così come è possibile che la linea di sinistra impressa da Schlein al Pd possa aver spinto alcuni elettori che erano migrati verso i 5S in dissenso con la stagione renziana a tornare a casa. Non è un mistero che in casa 5S avrebbero preferito una vittoria di Bonaccini alle primarie, proprio per potersi espandere nell’elettorato di sinistra.
Il travaglio del M5S nel percorso verso un nuovo bipolarismo è un tema reale, ed è il vero motivo per cui finora Conte ha faticato a considerarsi parte di una coalizione, nonostante i casi di alleanza coi dem. E non stupisce che, in caso di elezioni locali dove il candidato non è un esponente a 5 stelle (come era Todde in Sardegna), i voti possano assottigliarsi. L’elettorato del Pd, che viene dall’Ulivo di Prodi, è molto più allenato all’idea di una coalizione, e così anche quello rossoverde. Quello del M5S molto meno, e su questo c’è ancora molto lavoro da fare.
Non stupisce neppure il dato del Cattaneo secondo cui una parte di chi alle politiche aveva scelto il cosiddetto Terzo polo, in Abruzzo ha scelto il centrodestra. Calenda, e soprattutto Renzi, non fanno nulla per nascondere la loro equidistanza tra i due poli, e strizzano spesso l’occhio anche a destra, come sta avvenendo in Basilicata per Azione, fino all’ultimo incerta tra destra e sinistra (ma ha già silurato il candidato giallorosso). Semmai va notato come il tentativo di Renzi di drenare voti a Fi stia avendo l’effetto opposto. Per il campo largo, dunque, l’Abruzzo è un inciampo, non una condanna. La Basilicata, dove alle politiche 2022 i 5S avevano preso il 25% da soli (più di tutto il centrosinistra fermo al 21%), dirà qualcosa in più su questa allergia degli elettori grillini alle coalizioni. Per ora va notato che i leader, in una situazione molto complicata, e nonostante la sconfitta in Abruzzo, hanno lavorato per non andare divisi al voto. E non era scontato
Commenta (0 Commenti)