Sfratto atlantico Washington si sfila anche dalla risoluzione Onu per i tre anni di guerra. Bessent e Waltz: Kiev si decida a darci le terre rare
Il presidente ucraino Zelensky e l’inviato americano per l’Ucraina Keith Kellogg, ieri a Kiev – Ap
La rapida sovrapposizione di politiche russe e statunitensi sulle sorti dell’Ucraina prende sempre più forma il giorno dopo l’affondo di Donald Trump contro il «dittatore» e ormai ex alleato Volodymyr Zelensky. A Kiev, l’incontro dell’emissario della Casa bianca, di fatto esautorato, Keith Kellogg, e quello del presidente ucraino sulla via dell’esautorazione non è stato seguito da una conferenza congiunta «su richiesta americana», ha detto alla Cnn un consigliere di Zelensky.
DAGLI USA, sia il segretario del Tesoro Scott Bessent che il consigliere per la sicurezza nazionale Michael Waltz hanno esortato Zelensky a «abbassare i toni» (Waltz), e «firmare l’accordo» che consentirebbe agli Usa lo sfruttamento delle risorse naturali e delle terre rare ucraine. Se solo Kiev avesse accettato questa ulteriore spoliazione, ha detto Bessent, «gli Stati uniti, con un interesse economico maggiore in Ucraina, provvederebbero uno scudo di sicurezza». Il segretario del Tesoro ha anche ventilato la possibilità di «alleviare» le sanzioni alla Russia per velocizzare i negoziati di pace.
MA LA MANIFESTAZIONE più concreta dell’allineamento Washington/Mosca è il rifiuto del governo Usa, anticipato dal Financial Times, di firmare la dichiarazione del G7 per il terzo anniversario (lunedì prossimo) dell’inizio della guerra in Ucraina: il motivo è che respinge l’appellativo di paese aggressore riservato alla Russia. Chissà che la Casa bianca non intenda anche cominciare a chiamare la guerra un’«operazione speciale». Allo stesso modo, delle fonti diplomatiche hanno rivelato a Reuters che gli Stati uniti si sono rifiutati di partecipare a una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, prevista sempre il 24 febbraio, che condanna l’invasione russa e ribadisce l’impegno a garantire «la sovranità, l’indipendenza, l’unità e l’integrità territoriale dell’Ucraina all’interno dei suoi confini riconosciuti internazionalmente», si legge nella bozza.
Il repentino allontanamento Usa dall’Europa e dal suo “vicinato” è evidente anche nella politica interna statunitense degli ultimi giorni: già il 14 febbraio Bloomberg aveva dato notizia di un memo del segretario della Difesa Pete Hegseth – oscurato dal «massacro di San Valentino»: le dimissioni in massa dal dipartimento di Giustizia per non firmare il documento con cui si facevano cadere le accuse contro il sindaco di New York Eric Adams, e il licenziamento di migliaia di dipendenti della Sanità – in cui ordina ai vertici del Pentagono di sviluppare dei piani per tagliare il budget della Difesa dell’8% nei prossimi 5 anni. Per dare la misura dell’impatto: il budget approvato per il solo 2025 è di 850 miliardi di dollari.
IL MEMO INDICA le 17 categorie di spesa esentate dai tagli, fra cui la modernizzazione delle armi nucleari e della difesa missilistica – l’Iron Dome americano che Trump ha detto di voler realizzare – l’acquisizione di sottomarini, munizioni e altre strumentazioni, e naturalmente la sicurezza al confine e i piani per la deportazione di massa dei migranti. Molte testate Usa sostengono infatti che non si tratti di veri tagli ma di uno spostamento di risorse verso imprese care a Trump. L’alto funzionario del Pentagono Robert G. Salesses ha affermato non a caso in un comunicato che i soldi risparmiati serviranno a «riallineare» il dipartimento con le priorità della nuova amministrazione.
MENTRE – in chiave anticinese – si risparmiano i tagli anche all’Indo-Pacific Command, fra le eccezioni previste dall’ordine di Hegseth non rientra significativamente l’European Command, incaricato in questi ultimi anni della gestione della crisi Ucraina. Scaricato fra gli expendables (come anche il comando africano e quello mediorientale), proprio mentre Trump e lo stesso Hegseth chiedono agli alleati della Nato di portare la spesa per la difesa comune al 5% – trattabile, in pieno stile Trump – del Pil.
Il Cremlino è soddisfatto: ieri il portavoce Dmitri Peskov ha espresso l’assoluta «concordanza» di Mosca «con l’amministrazione americana» in merito alla «necessità di raggiungere la pace il prima possibile e di farlo attraverso i negoziati».
PROPRIO DURANTE l’espressione di questa corrispondenza di amorosi sensi, fonti dell’intelligence Usa e Ue hanno detto alla Cnn di non ritenere che Putin intenda davvero porre fine alle ostilità: il suo vero obiettivo sarebbe un’Ucraina interamente annessa a Mosca o che in alternativa torni sotto la sfera d’influenza della Russia. Il riferimento alle elezioni fatto il giorno prima da Trump pesa, in quest’ultimo scenario, come un macigno.
Il destinatario di quelle osservazioni, Volodymyr Zelensky, dopo il suo incontro con Kellogg rinuncia ad alzare la testa: il loro, dice in una dichiarazione che suona come una resa, è stato un «dialogo produttivo». «L’Ucraina è pronta a un investimento forte e effettivo e a un accordo di sicurezza con il presidente degli Stati uniti».
Condannato a otto mesi il sottosegretario Delmastro, che ha la delega alle carceri e vuole veder soffocare i detenuti. Per attaccare sulla giustizia il Pd ha svelato segreti d’ufficio. Dovrebbe dimettersi. Ma non lo farà perché per Meloni è una «condanna politica»
Ora aria Il sottosegretario ha violato il segreto del 41 bis. La procura aveva chiesto di assolverlo. La requisitoria tra fatti e dottrina: «Non ci sono state due testimonianze uguali tra loro». Per il pm mancava l’elemento soggettivo del reato. C’è anche un anno di interdizione dai pubblici uffici
Otto mesi di condanna e un anno di interdizione dai pubblici uffici. Questo il prezzo giudiziario che l’ottava sezione penale del tribunale di Roma ha stabilito per il sottosegretario Andrea Delmastro, colpevole di aver rivelato documenti segreti con le conversazioni tra Alfredo Cospito e altri detenuti al 41 bis del carcere di Sassari. Materiale che, il 31 gennaio del 2023, il deputato Giovanni Donzelli ha utilizzato in aula per attaccare la delegazione del Pd andata a far visita all’anarchico durante il suo lungo sciopero della fame, definendola come una specie di ponte tra il movimento libertario e la mafia. Un’assurdità politica mal sostenuta da documenti che dovevano restare riservati, anche perché il senso del «carcere duro», se ancora ne ha uno, è proprio quello di evitare che i detenuti possano comunicare con l’esterno.
LA SENTENZA è arrivata dopo un paio d’ore scarse di camera di consiglio e, soprattutto, dopo che il procuratore aggiunto Paolo Ielo aveva chiesto l’assoluzione dell’imputato perché «il fatto non costituisce reato». Durante la requisitoria, andata in scena ieri mattina, la sostituta Rosalia Affinito aveva cominciato dicendo che il fatto sussisteva, e cioè che il segreto in effetti era stato rivelato, perché le carte con le conversazioni tra detenuti al 41 bis comunque erano uscite dal Dap e non ci sono mai stati dubbi sul fatto che fossero «a limitata divulgazione». Poi Ielo è intervenuto sul filo della dottrina: «Il segreto amministrativo è una materia complessa», ha ripetuto a più riprese il pm davanti ai giudici, ricordando che lui già aveva chiesto l’archiviazione per Delmastro, poi negata dal gip che ha disposto coattivamente il processo. Il punto, per Ielo, è che mancava l’elemento soggettivo del reato. «E questo lo dico perché faccio il pm e non sono l’avvocato dell’accusa», ha rintuzzato.
IN SOSTANZA Delmastro sarebbe incappato nel complesso giro delle «norme matrioska» che regolano il sottile confine tra documenti riservati, documenti segreti e documenti a limitata divulgazione: «Si tratta di un errore su norma extrapenale che ha prodotto un errore sul fatto». Da qui la richiesta di assolvere il sottosegretario perché il suo comportamento non avrebbe costituito reato. A queste parole il presidente Francesco Rugarli ha annuito, confermando l’antica credenza, diffusissima tra i processualisti, che quando un giudice fa segno di sì con la testa non è mai un buon segno per l’imputato. In effetti le tesi di Ielo lasciavano ampio spazio a una considerazione ulteriore: se il fatto sussiste ma
Leggi tutto: Caso Cospito, Delmastro condannato a otto mesi - di Mario Di Vito Roma
Commenta (0 Commenti)Centrosinistra Insulti tra Picierno e Pedullà. I timori dei dem sulle incursioni di Conte. Il dialogo con Si. Il nodo delle spese militari divide le opposizioni. Vacilla la piazza in comune. Il leader 5 stelle: «Meloni si dimetta per il flop diplomatico in Ucraina»
Elly Schlein e Giuseppe Conte – LaPresse
Il ciclone Trump complica di molto la vita al fronte delle opposizioni italiane. Chi pensava che la fine delle ostilità in Ucraina (ancora solo in ipotesi) avrebbe portato una schiarita nel campo largo, riavvicinando Pd e M5S, rischia di rimanere deluso. Di frotte alle spallate di del presidente Usa, i partiti arrancano. Soprattutto il Pd, che da tre anni aveva fissato la propria bussola sull’atlantismo, e dunque sulla lotta comune Usa-Ue per difendere Kiev dall’aggressione russa.
Ora che Trump ha scaricato violentemente Zelensky, regalando l’Ue ai margini del negoziato, ora che tra le due sponde dell’Atlantico si è aperta una voragine, i dem appaiono sotto choc. Più esposti alle incursioni degli alleati, soprattutto il M5S, che da anni vota no all’invio di armi in Ucraina e si è caratterizzato su una posizione pacifista. E ora può dire, con Giuseppe Conte, che «Trump con ruvidezza smaschera tutta la propaganda bellicista dell’’Occidente sull’Ucraina e dice una verità che noi stiamo dicendo da tre anni, ossia che battere militarmente la Russia era irrealistico».
CONTE IERI SE L’È PRESA con Meloni, chiedendone le dimissioni per «il fallimento diplomatico» in Ucraina. Ma il messaggio era rivolto anche ai dem, o almeno a quella parte (non Schlein) che ha sempre accusato i 5s di «filoputinismo». Ieri il casus belli ha riguardato Pina Picierno: la vicepresidente del Parlamento europeo ha detto a Repubblica che sul sostengo alla Russia «sta rinascendo l’asse gialloverde tra Lega e 5S», paragonando il partito di Conte a quello di Orban.
L’eurodeputato Gaetano Pedullà, su La7, ha reagito definendo Picierno «un’infiltrata dei fascisti nella sinistra. Chiede più guerra, più armi, più povertà, più morti: non ha nulla a che vedere con la sinistra». «Ha un’ossessione contro di noi», rincara una nota ufficiale del gruppo contiano a Bruxelles. «Accomunare i Patrioti e le loro relazioni torbide con il Cremlino con le nostre battaglie per la pace e la giustizia sociale è un’offesa intollerabile».
É seguita una rissa verbale tra esponenti dei due partiti, con molti dem a difesa di Picierno, compresi Zingaretti e Bonaccini. «Ci sono delle “linee rosse” che non vanno oltrepassate anche nello scontro politico più duro», ha detto il senatore Alessandro Alfieri, coordinatore della minoranza Pd.
I VERTICI DEI DUE PARTITI si sono tenuti alla larga dallo scontro, ma le faglie di rottura sono molteplici e riguardano anche il diverso rapporto con la commissione von der Leyen. C’entrano le spese militari, che potrebbero essere scorporate dal Patto di stabilità. Il no alle armi è uno dei temi che i 5 stelle vogliono mettere al centro della manifestazione che Conte ha annunciato nei giorni scorsi. Ben sapendo che per il Pd è un nodo complicato.
Per ora la linea del Nazareno è si all’esercito europeo e alla razionalizzazione delle spese militari. «Costruiamo una difesa comune con chi ci sta , anche rompendo il tabù del sì di tutti i 27 paesi, l’Ue già spende più della Russia», ha rilanciato ieri il responsabile esteri dem Peppe Provenzano. Che chiede all’Ue una «svolta radicale», con un maxi piano di investimenti sul modello Next Generation che comprenda la difesa, ma anche industria, economia e lavoro.
Una linea, quella del rilancio dell’Ue sul piano sociale e sulla difesa comune, su cui il Pd sta dialogando con Sinistra italiana. Le posizioni non sono allineate, Fratoianni chiede a Schlein di fare uno sforzo in più, e cioè di prepararsi a dire no all’aumento delle spese per le armi nei singoli paesi, ad oggi la prospettiva più probabile viste le difficoltà di realizzare una difesa comune. Ma peseranno, assai più di quelli della destra dem, i condizionamenti del Pse, che in questi anni non ha mai tolto l’elmetto.
A SINISTRA C’È CHI VEDE il bicchiere mezzo pieno. «Forse è finita la discussione sul sì o no all’invio di armi a Kiev che ci ha visti divisi in questi anni», sospira un parlamentare di sinistra. «Ed è possibile che la presenza di Trump aiuti ad allentare l’asse tra Pd e Washington». Sempre che non sia Conte a salire sul taxi di Trump, per convenienza. Tra i dem i timori ci sono. «Ma visto quello che Trump si prepara a fare a Gaza è difficile che Conte possa stare su quella linea».
LA GIORNATA DI IERI, forse paradossalmente, si è conclusa con Conte che chiedeva le dimissioni di Meloni e Provenzano che la attaccava in contemporanea: «Giorni di insulti di Trump contro l’Europa e volontà di umiliare l’aggredita Ucraina. C’è chi prova a reagire, Meloni continua a tacere». La sintonia tra i progressisti resta per ora confinata alla critica a palazzo Chigi.
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"ANCHE IO CI HO LAVORATO, MA PANDEMIA MI HA APERTO GLI OCCHI" (DIRE) Bologna, 19 feb. -
In Assemblea legislativa ("e' un impegno che avevamo preso") il nuovo governatore dell'Emilia-Romagna Michele de Pascale ufficializza il ritiro della richiesta di autonomia differenziata avanzato a suo tempo dall'amministrazione Bonaccini.
"Spappolarci in tante autonomie regionali non credo sia la strada da seguire", dice oggi de Pascale in aula ribadendo le proprie critiche nei confronti della riforma Calderoli. Una riforma, dice il presidente Pd nella sua informativa, che "con questo muro contro muro rischia di non fare molta strada, anzi viaggia su un binario morto.
Così si rischia di non praticare nemmeno l'autonomia 'buona'", quella a livello amministrativo. De Pascale non evita una autocritica anche personale. Ai tempi dell'elaborazione della proposta emiliano-romagnola "ero presidente dell'Anci regionale, quindi sono stato parte di quella discussione, non sto schivando. Ma ho aperto gli occhi durante la pandemia".
"Credo che quella dell'Emilia-Romagna- precisa poi il presidente regionale- fosse la proposta migliore, ma in questo lungo iter ho maturato l'idea che ci sia un problema strutturale di strumento. Mi ritengo un convinto autonomista ma non penso serva maggiore autonomia legislativa in questo paese, mentre dal punto di vista amministrativo ci sono ampi margini.
Per questo, l'ho detto anche al ministro Calderoli, ritengo che sarebbe molto più sensato riprendere in mano il titolo V della Costituzione". (SEGUE) (Bil/ Dire) 10:29 19-02-25 NNNN
AUTONOMIA. EMILIA-R. RITIRA RICHIESTA, DE PASCALE: BINARIO MORTO -2-
(DIRE) Bologna, 19 feb. - Il ritiro della proposta dell'Emilia-Romagna, dunque "richiama ad un ripensamento più profondo", nelle intenzioni del governatore. Nel suo intervento in aula, de Pascale riserva anche un cenno ironico alla parabola della Lega, paladina di quella riforma: "Si partiva dalla secessione, l'autonomia differenziata e' un passo straordinario verso l'unità nazionale".
La maggioranza di centrosinistra che sostiene de Pascale ha portato in aula una risoluzione per chiedere al Governo Meloni di interrompere definitivamente l'iter della riforma. (Bil/ Dire) 10:29 19-02-25 NNNN
Commenta (0 Commenti)«Zelensky è un dittatore, un comico mediocre a caccia di soldi, si muova in fretta o non avrà più un paese…». Nel più clamoroso capovolgimento di fronte dal dopoguerra, Trump scarica il leader dell’Ucraina e la sua guerra. E insieme a lui, ottant’anni di politiche atlantiche
Usa e getta «Un dittatore, un comico mediocre, cerca soldi facili...»: poche ore dopo il vertice russo-americano di Riad, la Casa Bianca apre il fuoco. In un messaggio zeppo di falsità sul suo social Truth, il leader Usa getta via l’ex alleato
Volano gli stracci, tra gli Stati uniti di Donald Trump e l’Ucraina di Volodymyr Zelensky. In un completo capovolgimento di posizioni quale non si era mai visto nella politica estera americana dalla fine della seconda guerra mondiale, e certamente mai a questa velocità, l’alleato di ieri già diventato ingombrante è oggi trasformato decisamente in un nemico. Un conflitto che sobbolliva da molto tempo, reso esplicito durante la campagna elettorale americana, ma che ieri è esploso in tutta la sua magnitudine solo un pugno di ore dopo il clamoroso vertice russo-americano di Riad, in cui Stati uniti e Russia hanno avuto il primo ed esclusivo contatto dopo l’invasione russa dell’Ucraina.
LA SEQUENZA è stata devastante. Poco dopo la fine del vertice a Riad, in cui Washington e Mosca hanno tagliato fuori l’Ucraina e l’Europa dall’avvio di un negoziato costruito per i rispettivi mercati molto più che per la fine dei combattimenti, Trump ha parlato con la stampa americana dalla sua reggia di Mar-a-Lago, lamentandosi che la leadership ucraina avesse permesso una guerra e quindi non meritasse di sedere al tavolo del negoziato appena aperto con il presidente russo Putin. «Non avreste mai dovuto cominciarla, avreste dovuto fare un accordo», ha detto Trump dalla sua Versailles in Florida, aggiungendo che Zelensky ha un tasso di approvazione del 4% e suggerendo che ormai è politicamente finito. Il dettaglio che in effetti non sia stata l’Ucraina a invadere la Russia ma il contrario non è sfuggito alla “leadership ucraina”, e ieri mattina Volodymyr Zelensky ha immediatamente convocato un po’ di giornalisti nel palazzo presidenziale di Kiev (ancora con i sacchi di sabbia alle finestre) e accusato Trump di «essere intrappolato in una bolla di disinformazione» russa, chiedendo ai team di Washington di «essere più sincero». E le cateratte si sono aperte: al mattino americano, Trump ha imbracciato la sua arma preferita – il suo social media Truth – e ha aperto il fuoco come non era immaginabile.
ZELENSKY «è un dittatore, niente elezioni» ha scritto Trump, «è meglio che si muova in fretta o non gli resterà più un paese». E la tirata era appena cominciata. «È un attore comico di modesto successo», continua il presidente americano, «che ha convinto a chiacchiere gli Stati uniti d’America a spendere 350 miliardi di dollari in una guerra che non può essere vinta e che non avrebbe dovuto mai essere cominciata». «Ha fatto un lavoro terribile – prosegue l’invettiva trumpiana – e la sola cosa in cui è stato bravo è suonare Biden come un violino. Ora stiamo negoziando la fine della guerra con la Russia, qualcosa che tutti ammettono solo TRUMP e l’amministrazione Trump possono fare» (il tutto maiuscolo è originale).
Dittatore e niente elezioni? Dopo che mezza Europa si è impiccata al
Leggi tutto: Trump scarica Zelensky - di Roberto Zanini
Commenta (0 Commenti)Bilancio Palazzo Chigi festeggia il recupero dall’evasione, gli alleati litigano su Irpef e rottamazione. La leader resta il collante tra Fi e Lega. I malumori azzurri li ha espressi Marina B.
Un frame del video diffuso sui social di Giorgia Meloni
Giorgia Meloni, si sa, la si sente, rigorosamente senza contraddittorio o fastidiose domande, solo quando ha qualche successo da rivendicare. Ieri la «buona notizia da condividere» era il record nel recupero dell’evasione fiscale, 33,4 miliardi e niente da eccepire, è una cifra di tutto rispetto. Segue comizio di prammatica: «Ci accusano di aiutare gli evasori: tutte bugie. La nostra visione è chiara: niente spazio per chi fa il furbo ma chi è onesto e non ce la fa deve essere aiutato dallo Stato».
PER LA VERITÀ IL TASTO tasse nella destra è in questo momento di quelli da maneggiare con massima cura sennò esplode. Salvini vuole la sua pace fiscale di proporzioni colossali e non può arretrare o al congresso finisce che lo spennano. Tajani punta i piedi sulla riforma dell’Irpef. Meloni, come al solito sta nel mezzo. Non solo è l’unica che alla fine decide ma anche la sola che può tenere insieme due partiti, la Lega e Forza Italia, che senza di lei sarebbero già finiti ai materassi e agli agguati reciproci.
Cosa hanno in comune il partito che, con lettera autografa di Tajani, esorta la comunità in italiana in Germania a bloccare col voto i populisti neonazi di AfD e quello il cui leader si augura che i tedeschi «scelgano il cambiamento», cioè quei neonazi che l’alleato azzurro aborre? Cosa tiene insieme Fi, la cui azionista di maggioranza Marina B. Sospetta Trump di voler rottamare l’Occidente e Salvini che il tycoon lo vede sull’orlo del Nobel per la pace? Hanno in comune Giorgia ed è opportuno segnalare che le cose non stavano così quando la destra due anni fa vinse le elezioni. Da allora tutte le mappe sono cambiate, inclusa quella del centrodestra italiano.
Fingere che alla premier le cose stiano andando male vuol dire prendersi in giro da soli e abboccare al proprio wishful thinking. Per ora lo schema che ha adottato, sempre uguale che si tratti dell’Italia, dell’Europa o del mondo sta pagando. Stare nel mezzo. Imporsi come la sola figura in grado di tenere insieme visioni politiche e leader in carne e ossa che altrimenti sarebbero da divieto d’incontro: Salvini e Tajani, la destra europea e l’establishment di palazzo Berlaymont, le due sponde dell’Atlantico.
È UN GIOCO PERICOLOSO. Camminare su una fune implica per definizione il rischio di precipitare. È anche un gioco nel quale dare a ciascuno il suo, tenersi cioè in perfetta equidistanza, non è possibile. Forse prima o poi Meloni sarà costretta a una scelta aperta fra le realtà contrapposte tra le quali oscilla ma almeno in parte, senza dirlo, quella scelta già l’ha fatta e probabilmente proprio questo spiega l’intervento a gamba tesa, per lei molto inusuale, di Marina Berlusconi. La figlia del Cavaliere ha detto ad alta voce quel che Antonio Tajani, vicepremier e ministro, non poteva dire. Ha suonato la sirena d’allarme di fronte al progressivo spostamento del baricentro della destra italiana dalla parte della nuova destra che ha espugnato la Casa Bianca.
Alla vigilia del vertice di Parigi Meloni e Tajani avevano concordato il punto d’equilibrio: con l’Europa ma senza rompere con Trump. La premier la ha interpretata a modo suo, piegandola cioè molto più del previsto a favore di Washington. Ha fatto filtrare il suo scetticismo sulla formula voluta da Macron, con piena insoddisfazione del ministro degli Esteri. Ha parlato di Trump come di un presidente impegnato nella ricerca della pace, a fianco del quale l’Europa deve saper fare la propria parte. Si è schierata con Vance molto più di quanto non avesse già fatto pubblicamente, perché i valori che vale la pena di difendere sono quelli da lui illustrati, tra uno schiaffone affibbiato alla vecchia Europa e l’altro.
VA DA SÉ CHE A FI e alla potente famiglia che la mantiene questa torsione non piaccia affatto, come a Tajani piacerà poco la scelta probabile di puntare sulla rottamazione delle cartelle esattoriali. Ma gli azzurri hanno margine di gioco limitato. È anche chiaro che se l’Europa fosse in grado di procedere sulla strada indicata ieri da un Draghi ormai palesemente esasperato il gioco di prestigio della premier diventerebbe impraticabile. Ma così non è e nel vuoto prodotto da controparti inesistenti il gioco di Giorgia continua a pagare.
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