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Il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa scrive al presidente del Senato. O’Flaherty punta il dito contro le norme anti protesta e la «rivolta» in carcere. La Russa: «Inaccettabile interferenza»

Manifestazione e corteo contro il Ddl Sicurezza aroma foto foto Valentina Stefanelli/LaPresse Manifestazione e corteo contro il Ddl Sicurezza aroma foto foto Valentina Stefanelli/LaPresse – Valentina Stefanelli /

LaPresse

«Chiedo rispettosamente ai membri del Senato di astenersi dall’adottare il disegno di legge n. 1236, a meno che non venga sostanzialmente modificato per garantire che sia conforme agli standard pertinenti del Consiglio d’Europa sui diritti umani». A scriverlo è il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Michael O’Flaherty, che elenca uno per uno gli articoli del ddl Sicurezza fortemente indiziati di violare le convenzioni europee e internazionali in una lettera indirizzata al presidente del Senato Ignazio La Russa e, tramite lui, a tutti i senatori italiani impegnati nella seconda lettura del testo di legge. Non è certo la prima iniziativa di questo genere verso alcuni dei 46 Paesi membri da parte dell’organizzazione internazionale con sede a Strasburgo, e non è la prima volta per l’Italia, ma per la seconda carica dello Stato è lesa maestà e la lettera è «un’inaccettabile interferenza nelle decisioni autonome e sovrane di un’assemblea parlamentare».

FORSE IMMAGINANDO la reazione dell’«Honorable President», nella sua lettera il commissario O’Flaherty spiega fin da subito che «una parte importante del mio lavoro è impegnarmi nel dialogo con i governi e i parlamenti degli Stati membri e assisterli nell’affrontare possibili carenze nelle loro leggi e pratiche». Quello che probabilmente non poteva immaginare, il professore che da vent’anni lavora nel campo dei diritti fondamentali e ha ricoperto diverse importanti cariche a livello internazionale, è che potesse essere definito dal presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri un «ignoto e inutile figuro».

FATTO STA CHE, dopo la bocciatura dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) che a settembre aveva chiesto di rivedere le norme più liberticide del ddl Sicurezza, ora nella lettera datata 16 dicembre e resa pubblica ieri anche il Commissario europeo avverte il rischio di violazione degli articoli 10 (libertà di espressione) e 11 (libertà di riunione e di associazione) della Convenzione europea dei diritti umani.

Una parte importante del mio lavoro è impegnarmi nel dialogo con i governi e i parlamenti degli Stati membri e assisterli nell’affrontare possibili carenze nelle loro leggi e praticheMichael O’Flaherty

I FARI del Consiglio d’Europa si sono accesi in particolare sugli articoli 11, 13, 14, 24, 26 e 27 del ddl che «introducendo reati definiti in termini vaghi e che includono altre severe restrizioni», rischiano di «creare spazio per un’applicazione arbitraria e sproporzionata, colpendo attività che rappresentano un legittimo esercizio della libertà di riunione o espressione pacifica». Lo fa l’articolo 11 che prevede «un’aggravante generale per i reati commessi all’interno o in prossimità di stazioni ferroviarie e metropolitane e sui convogli»; l’articolo 13 che estende il Daspo urbano già introdotto dal Decreto Minniti; l’articolo 14 perché «introduce il reato penale (in sostituzione dell’attuale illecito amministrativo) di turbativa della circolazione con il proprio corpo, punito con la reclusione da sei mesi a due anni se commesso da almeno due persone»; l’articolo 24 che «impone pene detentive tra sei e 18 mesi per la deturpazione di edifici o beni utilizzati per funzioni pubbliche, quando l’obiettivo è quello di danneggiare l’onore, il prestigio o il decoro di un’istituzione». E infine gli articoli 26 e 27 che introducono il reato di rivolta nelle carceri e nei centri di detenzione e accoglienza per migranti e richiedenti asilo, con pene che vanno «da uno a 5 anni di reclusione (e da due a otto anni per coloro che promuovono, organizzano o dirigono la ribellione) non solo per atti di violenza o minacce, ma anche per resistenza, inclusa la resistenza passiva».

A QUESTO PROPOSITO O’Flaherty ricorda che «i detenuti continuano a godere di tutti i diritti e le libertà fondamentali garantiti dalla Convenzione», sottoscritta anche dall’Italia e che «non esclude i diritti di associazione dei detenuti» e il loro «diritto alla libertà di espressione», comprese «alcune forme di protesta pacifica che possono comportare una resistenza passiva». In sostanza il Commissario di Strasburgo ricorda che «la Corte ha anche ripetutamente affermato che una manifestazione pacifica non dovrebbe essere soggetta alla minaccia di una sanzione penale e in particolare alla privazione della libertà», e che «il legislatore ha la responsabilità di trovare il giusto equilibrio tra il rispetto della libertà di riunione pacifica e la protezione dei diritti altrui».

Gli articoli 11, 13, 14, 24, 26 e 27 del ddl,  «introducendo reati definiti in termini vaghi e che includono altre severe restrizioni», rischiano di «creare spazio per un’applicazione arbitraria e sproporzionata, colpendo attività che rappresentano un legittimo esercizio della libertà di riunione o espressione pacifica»Il Consiglio d'Europa

UNA RACCOMANDAZIONE che Ignazio La Russa ha trovato «non solo irrituale ma contrario a qualunque principio democratico» da parte del Commissario – «a me finora del tutto sconosciuto», ha detto il presidente del Senato – in quanto chiede «di non votare una legge per altro il cui testo è ancora in formazione e all’esame della commissioni». Eppure già nel giugno 2017 l’allora Commissario per i diritti umani Nils Muižnieks avvertì il parlamento italiano delle criticità riscontrate nella legge (in quel momento in discussione alla Camera) che intendeva introdurre nel codice penale italiano una configurazione del reato di tortura distante da quella adottata dalla Convenzione Onu ratificata dall’Italia. Più recentemente il Consiglio d’Europa ha richiamato il nostro Paese per i maltrattamenti dei migranti nei Cpr e per le profilazioni razziali da parte delle forze dell’ordine.

«IL DDL SICUREZZA va a questo punto ritirato immediatamente», è la richiesta che si leva da tutti i partiti di opposizione, dalla Cgil e dalle associazioni che lavorano sui diritti umani come Antigone. Preoccupa anche l’incredibile risposta di La Russa al Commissario O’Flaherty: «È inammissibile – protesta Piero De Luca, capogruppo Pd in commissione Politiche europee – che la destra continui a sentirsi al di sopra della legge, fuori dalle regole fondamentali della costituzione del diritto europeo e delle convenzioni internazionali. Il presidente La Russa, purtroppo, ci ha abituato ad uscite scomposte e a gamba tesa, ma questa volta si è superato il limite».

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Buco nell'acqua «Ho difeso i confini dall’invasione»: in aula a Palermo esplode la gioia del leader leghista

Matteo Salvini parla alla stampa mentre arriva all'aula Bunker del carcere Pagliarelli di Palermo foto Igor Petyx/Ansa Matteo Salvini parla alla stampa mentre arriva all'aula Bunker del carcere Pagliarelli di Palermo – foto Igor Petyx/Ansa

Assolto perché il fatto non sussiste. Si chiude con questo verdetto, emesso dai giudici della seconda sezione penale del tribunale di Palermo dopo 8 ore di camera di consiglio, il processo Open Arms a carico di Matteo Salvini. Un dibattimento durato tre anni, con il vicepremier imputato di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio per avere impedito, secondo la Procura di Palermo che aveva chiesto la condanna a sei anni di reclusione, lo sbarco di 142 migranti. Migranti costretti a rimanere a bordo della nave della ong spagnola per 19 giorni prima che l’allora procuratore capo di Agrigento, Luigi Patronaggio, ordinasse lo sgombero dello scafo per motivi igienico-sanitari.

ERA L’AGOSTO DI 5 ANNI FA, Salvini era a capo del Viminale nel governo giallo-verde di Giuseppe Conte. «Sono felice, dopo tre anni ha vinto il buon senso, ha vinto la Lega, ha vinto l’Italia. È un giorno meraviglioso», ha commentato Salvini. Poco dopo è stato l’intero governo, a cominciare dalla premier Meloni, a esulta per l’assoluzione. Silenzio da parte dei pm. Alla lettura del dispositivo Salvini viene subito attorniato dai dirigenti leghisti rimasti in aula l’intera giornata: il ministro dell’Istruzione Valditara, il sottosegretario Morelli, il vice capo della Lega Claudio Durigon. Lui si volta, cerca la fidanzata Francesca Verdini. Lei è in lacrime. L’avvocata Giulia Bongiorno esulta, è commossa. Parte un applauso in sala. I leghisti si abbracciano, la fidanzata si fa spazio tra la folla, raggiunge il vicepremier. I due si lasciano andare in un lungo abbraccio. Dalla parte opposta dell’aula bunker del carcere Paglierelli l’umore è opposto. «Il dispiacere è soprattutto per le persone, che come abbiamo detto dal primo minuto, sono state private della loro libertà – il commento di Oscar Camps, fondatore di Open Arms -. Aspettiamo le motivazioni dei giudici per valutare se appellare la sentenza come speriamo faccia la Procura. Con questo processo, che è unico nella storia italiana ed europea, abbiamo voluto restituire dignità alle 147 persone trattenute a bordo e private della loro libertà per 20 giorni». E aggiunge con amarezza: «In questi tre anni di processo abbiamo sempre detto di aver subito un danno legato all’impossibilità di proseguire la nostra missione: salvare vite è quello che Open Arms fa da 10 anni. Il nostro lavoro non si ferma».

LA LUNGA GIORNATA era cominciata intorno alle 9. Al suo arrivo al bunker del carcere Pagliarelli, Salvini aveva subito affrontato la folla di cronisti e

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Conferenza stampa di fine anno «Pronti a parlare con tutti», ma non con la leadership «illegale di Kiev»: E alle donne il presidente chiede di fare più figli

Il presidente russo Vladimir Putin durante la sua conferenza stampa annuale con una replica dello stendardo della 155a Brigata dei Marines della Flotta del Pacifico, impegnata in un'operazione militare speciale in Ucraina foto Alexander Zemlianichenko /Ap Putin durante la conferenza stampa annuale con una replica dello stendardo della 155a Brigata dei Marines della Flotta del Pacifico impegnata in Ucraina – ApAlexander Zemlianichenko /Ap

È un Putin concentrato più a rassicurare i propri cittadini che a galvanizzare un eventuale spirito patriottico quello che ieri si è prodigato in quattro ore e mezza di botta e risposta con giornalisti e pubblico nella consueta conferenza stampa di fine anno. “Incalzato” dai conduttori, il presidente russo parla con una certa ponderazione e anche qualche sprazzo di ironia di fronte a una gigantesca mappa del paese che mostra come già inglobate le quattro regioni ucraine annesse tramite referendum farsa due anni fa.

MA LA GUERRA, appunto, resta sullo sfondo. A trainare il discorso sono in particolare le questioni economiche, subito affrontate affermando che le condizioni rimangono «stabili e positive» nonostante l’inflazione in crescita. In questo senso, un’economia forte è anzi il segno di un «rinvigorimento della sovranità», presentata come vera e propria “pietra angolare” della concezione della Russia secondo Putin: «Difesa, tecnologia, educazione e cultura sono tutti elementi di fondamentale importanza per la nostra nazione, perché se perdiamo sovranità rischiamo di indebolire lo stato».

L’isolamento nei confronti dell’occidente causato dalle sanzioni, allora, non può che essere un bene: in questo modo, le aziende e i diversi settori dell’industria del paese sono stati spinti a migliorare e a innovarsi.

PER CERTI VERSI, è la rivendicazione della dinamica che molti analisti hanno chiamato «keynesismo militare» per descrivere la strategia socio-economica che è andata accoppiandosi all’invasione in Ucraina: il balzo in avanti della spesa per la difesa (che dovrebbe arrivare il prossimo anno a oltre il 6% del Pil) a trainare il resto, gonfiando i salari e favorendo l’occupazione (indici in cui la Russia ha effettivamente avuto ricadute positive grazie alla guerra).

Con un dettaglio non da poco: «Ci servono più ragazze, più donne», ha sottolineato Putin nel riconoscere che una delle priorità da affrontare è il calo demografico e la componente femminile del paese va incoraggiata ad avere più figli.

IL BINOMIO guerra e spinta economica coinvolge ovviamente anche i territori occupati. Si fa infatti vanto di piani di ricostruzione «che si estendono fino al 2030» e che sono già visibilmente in atto nelle diverse zone conquistate con l’invasione. A questo proposito, vengono compiute alcune delle affermazioni che potrebbero suonare più sorprendenti: la “vittoria” russa in Ucraina viene dichiarata più vicina che mai, grazie agli avanzamenti dell’esercito negli ultimi mesi (esercito che si appresta a riconquistare anche il territorio occupato delle truppe di Kiev nella regione russa di Kursk, sebbene non è ancora possibile sapere con certezza quando). Così, pure i negoziati sono sul piatto e la Russia, secondo Putin, è «aperta a parlare con chiunque».

ANCORA, PERÒ, ci sono diversi caveat: un cessate il fuoco ora sarebbe solo una pausa che permetterebbe all’avversario di riprendersi e di proseguire i combattimenti – dice il presidente russo ribaltando specularmente la retorica di Kiev – e quello che serve è anzi, e addirittura, una «pace giusta»; inoltre, l’attuale leadership ucraina è da considerarsi «illegittima» dal momento che non vengono indette elezioni.Impossibile dunque aprire un dialogo.

Insomma, come spesso accade, la Russia prova a mostrarsi tranquilla e sicura di sé, mischiando minacce più o meno velate (si parla dei missili Oreshnik, che non sarebbero intercettabili dalla Nato) a bonarie attestazioni di benevolenza e minimizzazioni (si nega che la caduta di Assad sia una sconfitta).

Le domande vengono calibrate per permettere a Putin di toccare diversi punti critici e di non negare che esistono difficoltà. Per quelle si opera altrove: in serata i media russi riportano delle dimissioni «volontarie» del capo del controspionaggio Nikolai Yurev, giusto a pochi giorni dall’attentato al generale Kirillov…

 

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Politica La premier promuove il modello Albania poi lascia il vertice causa febbre. L’esponente di Fdi Lucaselli straparla su Mattarella: «Il presidente usa la Costituzione per esprimere le sue posizioni»

Giorgia Meloni con il primo ministro olandese Dick Schoof al vertice Ue Giorgia Meloni con il primo ministro olandese Dick Schoof ieri al vertice Ue

A Bruxelles la premier è allettata ma soddisfatta. Prima che i colleghi stessi la invitassero a mettersi sotto le coltri col febbrone facendosi rappresentare in sede di Consiglio europeo dal premier greco Kyriakos Mitsotakis si era incontrata con i capi di governo di altri nove paesi, due dei quali socialisti, e con la presidente Ursula von der Leyen.

Tema all’ordine del giorno la lettera della presidente della Commissione Ue sull’immigrazione di due giorni fa: accordo generale e dato che potrebbe averla scritta Giorgia Meloni di suo pugno va da sé che la febbricitante è molto contenta. Nuovo quadro giuridico in tema di rimpatri entro i primi mesi del prossimo anno, definizione più precisa di cosa si intenda per Paesi sicuri, sia d’origine che terzi, ma anche ricerca delle «soluzioni innovative», formula con la quale si allude direttamente al protocollo italo-albanese che la premier non ha alcuna intenzione di considerare sepolto. Insomma, come al solito Giorgia Meloni procede a stento in patria ma si rifà con gli interessi in un’Unione europea che per lei se non ci fosse bisognerebbe inventarla.

TUTTO BENE DUNQUE? No, perché come al solito si mettono in mezzo i Fratelli, anzi in questo caso una Sorella d’Italia, Ylenja Lucaselli, non l’ultima arrivata, relatrice sulla manovra. In televisione prende di mira di brutta quel capo dello Stato col quale la premier cerca in tutti i modi di evitare frizioni: «Secondo me utilizza spesso il riferimento alla Costituzione per esprimere la propria posizione rispetto ai provvedimenti del governo».

Poi, se possibile, peggiora la situazione: «Sicuramente c’è molto interventismo che poi non si traduce in blocco dei provvedimenti, come sull’immigrazione o sul ddl Foti sulla revisione della Corte dei Conti perché sono misure imprescindibili e necessarie». Come se Sergio Mattarella non si fosse sgolato per spiegare che il presidente non firma solo le leggi che gli piacciono e se le firma non vuol dire che le condivida ma solo che l’approvazione è stata costituzionalmente in regola.

L’opposizione tutta si scatena, la richiesta rivolta alla premier di prendere le distanze dall’incauta “sorella” è corale. Un po’ tutti segnalano che la parlamentare in tutta evidenza non ha proprio idea di cosa sia la Costituzione. Ma i più costernati non sono gli oppositori: si trovano a palazzo Chigi e se la cavano con un eloquente «E che dobbiamo fare?». Lei, Lucaselli, alla fine non può far altro che tirare fuori un super classico: «Parole strumentalizzate», perché «ho sempre considerato e considero il presidente della Repubblica Sergio Mattarella un punto di riferimento per tutte le forze politiche e per gli italiani».

È UN COPIONE che si ripete. In Europa la premier galoppa. Ieri, nella riunione dei dieci Paesi, la presidente della commissione ha difeso per intero la linea dura e “innovativa” proposta dall’italiana. Se c’è una spina è rappresentata non dall’establishment di Bruxelles ma dai “cugini” Patrioti, o almeno dalla francese Marine Le Pen che boccia senza mezzi termini la trovata albanese: «Non credo che centri come quello in Albania siano la soluzione. Dobbiamo invece attuare una politica di dissuasione. I casi di asilo dovrebbero essere trattati nei consolati e nelle ambasciate straniere».

TRA LE DUE PRIME DONNE della destra europea la competizione sta prendendo piede ma la leader di Rassemblement National non è presidente e non partecipa al Consiglio europeo. Nella riunione di ieri, in compenso, c’era l’Ungheria, d’accordo con la linea Meloni-von der Leyen.

In Italia le cose vanno molto peggio e per vari motivi, alcuni dei quali oggettivi come la crisi europea che mette in ginocchio anche la produzione industriale italiana, che arretra costantemente da mesi. Ma agli strali, pochi, dell’opposizione, e a quelli, molti, della realtà, si aggiunge puntualmente uno stato maggiore tricolore che per l’opposizione è una mano santa. Come è successo anche ieri.

 

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Palestina Haaretz: centinaia di palestinesi uccisi nella «zona della morte», chi passa muore. I racconti dei soldati: «I cadaveri attirano branchi di cani che vengono a mangiarli. A Gaza la gente sa che dovunque veda dei cani è meglio non andare». Human Rights Watch: Israele priva deliberatamente dell’acqua

Bambini palestinesi trasportano taniche d’acqua verso la loro tenda a Khan Younis Bambini palestinesi trasportano taniche d’acqua verso la loro tenda a Khan Younis – Xinhua /Rizek Abdeljawad

I soldati israeliani la chiamano «kill zone» o «line of the dead bodies» e si estende fin dove l’occhio del cecchino può arrivare. Non ha confini precisi, la zona dei corpi morti ha frontiere immaginarie. Si trova all’altezza del corridoio Netzarim, una fascia di sette chilometri con cui Israele – da ben prima del 7 ottobre 2023 – spacca Gaza in due parti.

È QUI, in questo spazio dove non vige alcuna legge né politica né morale, che le unità dell’esercito israeliano giocano il loro tetro torneo della morte: vince chi ammazza più palestinesi possibile. La storia la racconta Haaretz, il quotidiano israeliano da poco sanzionato dal suo stesso governo, dopo aver raccolto le voci di soldati, riservisti e ufficiali di ritorno da Gaza: in quella kill zone sono autorizzati a sparare a chiunque, senza ulteriori via libera.

Così sono stati uccisi centinaia di palestinesi, compresi bambini, e i loro corpi abbandonati. «Dopo gli spari, i cadaveri non vengono recuperati e attirano branchi di cani che vengono a mangiarli. A Gaza la gente sa che dovunque veda dei cani è meglio non andare».

Alcuni corpi vengono seppelliti ed «etichettati» come terroristi. «Il comandante diceva: chiunque passa la linea è un terrorista, non ci sono civili». Nemmeno il ragazzino crivellato di colpi tra le risate dei militari: «Parlo di decine di pallottole. Per un minuto o due, abbiamo continuato a sparare al corpo. Intorno a me sparavano e ridevano. Ci siamo avvicinati al cadavere coperto di sangue e lo abbiamo fotografato. Era solo un ragazzo, forse 16 anni».

Un altro soldato racconta di quattro persone, camminavano disarmate. «Centinaia di colpi», dice, tre sono morti subito. Il sopravvissuto è stato messo in «una gabbia, spogliato e lasciato là. I soldati passavano a sputargli». I corpi degli altri tre sono stati lasciati a terra per qualche giorno, poi un bulldozer li ha ricoperti di sabbia: «Non so se qualcuno ricorda dove».

La sera, a «turno» finito si raccolgono i complimenti degli ufficiali. «Gli annunci del portavoce dell’esercito sui numeri degli uccisi – racconta un soldato – sono diventati una competizione tra unità. Se la Divisione 99 ne uccide 150, la prossima unità punta a 200».

I cadaveri attirano branchi di cani che vengono a mangiarli. A Gaza la gente sa che dovunque veda dei cani è meglio non andareUn testimone ad Haaretz

L’ESERCITO – le alte sfere – ha dato carta bianca agli ufficiali sul campo. Quella carta bianca è l’altra faccia della medaglia delle dichiarazioni di rappresentanti del governo israeliano e delle forze armate che, a poche ore dal 7 ottobre 2023, hanno espresso senza ambiguità l’intento genocidiario della campagna militare Spada di Ferro.

È tale intento ad aver permesso alla Corte internazionale di Giustizia lo scorso gennaio di accogliere il caso presentato dal Sudafrica contro Israele per violazione della Convenzione sul genocidio del 1948 e, un paio di settimane fa, ad Amnesty di presentare un ampio rapporto in merito.

A quella mole di lavoro si è aggiunto il rapporto di Human Rights Watch, quasi 200 pagine costruite intorno a interviste, immagini satellitari, video, foto, testimonianze di agenzie Onu ed esperti e raccolta delle dichiarazioni pubbliche israeliane: l’organizzazione per i diritti umani accusa Israele di genocidio e sterminio, focalizzandosi su un aspetto dell’offensiva militare in corso da 14 mesi, ovvero la deliberata privazione dei palestinesi dell’accesso all’acqua.

Attraverso la sete, scrive Hrw, Israele infligge condizioni di vita deliberatamente volte alla distruzione della popolazione. «Non è negligenza: è una politica calcolata che ha già provocato migliaia di morti per disidratazione e malattie, niente di meno del crimine di sterminio e un atto di genocidio».

PRIMA DI TUTTO i numeri. Lo standard minimo indicato dall’Organizzazione mondiale della Sanità è pari a 100 litri di acqua al giorno per persona; in Israele i cittadini hanno accesso a una media di 247 litri, a Gaza prima del 7 ottobre a 83. Oggi, a seconda delle zone e dei periodi, si va da un minimo di due a un massimo di nove litri d’acqua al giorno per persona.

Una tale deprivazione – politica annunciata nei primi giorni di offensiva dal ministro della difesa Gallant – è stata realizzata attraverso il taglio dell’acqua corrente, la distruzione sistematica di pozzi, reti idriche e impianti di desalinizzazione e attraverso il blocco all’ingresso di acqua potabile dai valichi. Hrw aggiunge un elemento fondamentale: le migliaia di morti si aggiungono ai 45mila palestinesi uccisi dall’esercito israeliano con mezzi «diretti», ovvero raid e bombardamenti.

Le diverse pratiche, se messe insieme, conducono in una direzione: ripulire pezzi di Gaza dalla sua popolazione e costringere l’enclave a impiegare anni, se non decenni, a ricostruire se stessa, le reti comunitarie e la vita, mettendo da parte la necessaria spinta all’autodeterminazione.

È una pulizia etnica di ampio spettro, fisica e politica, riassunta ieri da Medici senza Frontiere: «La gente di Gaza combatte per sopravvivere a condizioni apocalittiche, ma nessun luogo è sicuro, nessun essere umano è risparmiato e non c’è via d’uscita dall’enclave in frantumi». L’apocalisse è destinata a durare, anche quando le bombe non cadranno più.

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Agitare è bene Oggi a Roma a Testaccio (ore 11) e sit-in al ministero dell'università (ore 15): ricercatori precari, studenti, docenti, associazioni e sindacati Critiche alla ministra Bernini ("Nega l'evidenza dei tagli e delle riforme"). "Ci vogliono convergenza massima, azioni significative". L'appello contro i rischi del ridimensionamento della ricerca in Italia della Rete delle 122 società scientifiche

Torino, gli studenti e i ricercatori universitari bloccano l'entrata al Campus Universitario Einaudi per protesta contro la legge di bilancio Torino, gli studenti e i ricercatori universitari bloccano l'entrata al Campus Universitario Einaudi per protesta contro la legge di bilancio

Gli «stati di agitazione delle università» che si terranno stamattina al dipartimento di Architettura di Roma Tre al Mattatoio di Testaccio (dalle 11), e in un presidio alle 15 al ministero a Trastevere, sono il risvolto di quello che non è stato detto, o è stato detto tra le righe, ieri alla Camera dove oggi continuano gli «Stati generali dell’università» organizzati dai rettori della Crui. Nell’assemblea si parlerà infatti dei tagli aggiuntivi previsti dalla legge di bilancio in votazione stasera dalla Camera (702 milioni di euro in tre anni), del DdL Bernini che aumenterà il precariato nella ricerca, della paventata riforma peggiorativa degli attuali assetti che una commissione ministeriale sta preparando, del boom delle università telematiche.

L’«AGITAZIONE» di cui parla il bel titolo dell’iniziativa di oggi rispecchia la rapida fioritura di «assemblee precarie» sbocciate negli ultimi tempi in molti atenei: da Torino a Milano, da Roma a Napoli. Si sono formati coordinamenti interuniversitari a Palermo o a Padova. In una dinamica aperta e in evoluzione si tessono reti tra associazioni universitarie (Andu, Rete 29 aprile, Adi), dei precari della ricerca (Restrike, 90%, Arted), studenti (Udu, Link, primavera degli studenti) e sindacati (Flc Cgil, Clap).

VA EVIDENZIATA la novità, per molti versi significativa, della nuova mobilitazione. È impressionante leggere l’elenco delle 122 società scientifiche accademiche che hanno firmato un drammatico documento sui «rischi di ridimensionamento della ricerca» pubblicata a ottobre sul sito «Scienza in rete». Parliamo di una parte rappresentativa della ricerca italiana che, a partire dai suoi vertici, sta provando a varcare i confini di un mondo gerarchico. L’appello al governo contro i tagli è rimasto finora inascoltato.

NELLE ASSEMBLEE e nei sit-in che si continua a sentire una tensione anti-corporativa e una spinta verso la costruzione di «alleanze» e convergenze dentro e

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