Nel corso delle audizioni sul Documento di finanza pubblica, tra altri, sono intervenuti ieri l’Ufficio parlamentare di Bilancio e la Banca d’Italia. Le loro stime hanno smontato le ipotesi sui supposti benefici dell’economia di guerra. Il ministro dell’Economia Giorgetti ha sostenuto che l’Italia già paga il 2% del Pil in spese militari, ma per l’Osservatorio Mil€x è un «trucco» per pagare meno. Il ministro della difesa Crosetto, innervosito dall’umorismo di Giorgetti, sostiene che «le armi non sono regali di Natale» ai generali
Gian Mauro Dell’Olio M5S, vice presidente Bilancio Camera, Il Ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, Nicola Calandrini FdI, presidente Bilancio Senato, in occasione delle audizioni sul documento di finanza pubblica 2025 davanti alle Commissioni bilancio di Camera e Senato – LaPresse
Aumentare le tasse o tagliare il Welfare. Oppure fare entrambe le cose al fine di aumentare la spesa militare per ora al 2% del Pil come richiesto da Trump, dalla Nato e dalla Commissione Europea. Ben sapendo che l’aumento della spesa militare non produrrà la crescita economica promessa, aumenterà il deficit e imporrà al governo Meloni di non rispettare le regole del patto di stabilità esponendosi alle ritorsioni della Commissione Europea e dei «mercati».
LA BOCCIATURA della propaganda sul riarmo europeo è arrivata ieri, davanti alle commissioni bilancio di Camera e Senato, durante le audizioni della Banca d’Italia e dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb) sul Documento di finanza pubblica, primo passo verso la legge di bilancio di quest’anno. Per Bankitalia lo sforzo per il riarmo nazionale senza un coordinamento europeo comporta una spesa inefficiente e inefficace e che ne beneficiano solo i paesi con minori vincoli di bilancio come la Germania, non l’Italia. Per Via Nazionale le spese per la difesa avrebbero «la natura di bene pubblico» e ci sarebbe bisogno di «risorse comuni», s’intende europee. Prospettiva rifiutata da mezza Unione Europea.
Questo significa che saranno i governi a pagare il dazio ai militari. Dunque i cittadini. Per l’Upb l’aumento delle spese militari, anche attivando il famoso scorporo dal calcolo del deficit e del debito nel patto di stabilità Ue, causerebbe l’aumento del debito e avrebbe un effetto regressivo sulla finanza pubblica. Il debito aumenterebbe di più del Pil perché il moltiplicatore economico è dello 0,2 o dello 0,3 e non del 2, come sostiene il ministro della difesa Guido Crosetto.
È UNA PROSPETTIVA da brividi, ma nascosta. Ieri però è emersa plasticamente ed è stata commentata dal ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, intervenuto in audizione. Il governo oggi deve trovare 90 miliardi di euro per coprire la spesa degli interessi sul maxi-debito pubblico e non ha risorse per finanziare l’economia di guerra. . Alla fine dovrà cedere . Forse la decisione arriverà a giugno quando ci sarà un vertice Nato che quantificherà l’obbligo della spesa militare (al 3 o 3,5% del Pil) e il piano di riarmo europeo voluto da Bruxelles potrà prendere una forma diversa da quella rifiutata dai governi Ue. Le conseguenze politiche potrebbero essere pesanti per Meloni.
GIORGETTI HA PROVATO a truccare le carte sul famoso «2% alla difesa». «Lo raggiungeremo già nel 2025» ha detto Giorgetti che ha evocato una «metodologia Nato» secondo la quale l’Italia avrebbe già pagato, senza saperlo, gli 11 miliardi in più che mancano al budget già cresciuto negli ultimi anni. Nel 2025 siamo a 32 miliardi all’anno. L’osservatorio Milex ha spiegato qual è «il trucco» del governo: simulare che la spesa militare è al 2% contabilizzando le spese per i carabinieri, la guardia costiera e la guardia di finanza per un totale di 11 miliardi. Quasi tutti quelli che mancherebbero per raggiungere quota 2%, cioè 45 miliardi circa all’anno. In realtà, ha spiegato l’Osservatorio Milex, è una proposta che è stata già rigettata dalla Nato. Ora il governo Meloni ci riprova. A dimostrazione che i soldi non ci sono e teme la prospettiva di fare infuriare la sua «base», quella che applaude i condoni. E tutti gli altri, cioè la maggioranza del paese che fa i conti con una sanità a pezzi, non ha tutele sociali e vive di bassi salari.
IL PROBLEMA è che il 2% del Pil in spesa militare non è stato deciso dal parlamento ma in una riunione dei ministri della difesa nel lontano 2006 e da un vertice dei capi di stato e di governo del 2014 in Galles. L’obiettivo del 2% non è mai stato giustificato in termini militari e collega una previsione di spesa pubblica a un parametro che non si può definire preventivamente. Nessuno sa ancora quale sarà il Pil del 2025, ad esempio. È un artificio per aumentare la spesa militare e basta. E non va dimenticato che già oggi, il totale delle spese europee in armi è superiore a quello della Russia.
IL GOVERNO non chiederà uno scostamento di bilancio per le spese per la difesa. Tutto resterà all’interno del percorso già tracciato che sembra avere dato molta soddisfazione a Giorgetti. Il ministro però ha ricordato un fatto decisivo: l’Italia non ha la capacità produttiva per produrre le armi volute da Bruxelles e dalla Nato. E per ora non si sa nemmeno cosa si vuole finanziare. «Lo scostamento non deve essere la soluzione facile – ha detto – Prima di prevedere spese supplementari, anche per difesa o dazi, voglio sapere dove vanno a finire e per quale motivo le devo fare. Questo – ha aggiunto – è un criterio non di prudenza o di rigore, ma del buon padre di famiglia». Giorgetti ha fatto sapere che una lista dei sogni per i generali è arrivata da Crosetto.
«È come Natale» ha detto, scherzando ma non troppo. Crosetto ha risposto piccato su X: «Non c’è nulla da festeggiare, non ci sono liste della spesa. Ci abbiamo messo un mese per preparar un piano che contemplasse le proprietà e poggiasse su risorse vere». C’è tensione tra una Difesa che ha il problema di trovare le armi da acquistare e l’Economia che non sa dove trovare i soldi.
GIORGETTI, IL «BUON PADRE di famiglia» ha criticato la «frenesia» che si è impadronita dei governi Ue, compreso il suo. Comunque si prepara ad aprire i cordoni della borsa. Per questo ha presentato un Dfp in attesa degli eventi. L’impasse è stata rilevata dall’Upb e la Corte dei conti le informazioni sono «incomplete». Per Istat l’economia tiene ma volge al peggioramento. Giorgetti ha prospettato il differimento del pagamento e non degli obiettivi. E mancano certezze sul Pnrr. Per l’Upb il differimento di 10 miliardi di spesa del Pnrr implicherebbe una perdita dello 0,3% del Pil. Una catena di errori iniziata prima di Meloni & Co.
IL GOVERNO HA PROSPETTATO il taglio della crescita per il 2025 dall’1,2% allo 0,6% Giorgetti lo ha presentato come l’effetto della sua «prudenza». «È il frutto di 25 mesi di calo della produzione industriale – ha osservato Christian Ferrari (Cgil) – Grava sulle spalle
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Fronte orientale Incontro tra l’Europa dei "volenterosi" e gli emissari dell’amministrazione americana per ridurre le distanze sulla guerra in Ucraina
Emmanuel Macron riceve all’Eliseo Steve Witkoff e Marco Rubio – AP
Mentre Meloni è impegnata a Washington per discutere di dazi con la benedizione di von der Leyen, a Parigi sono in corso colloqui tra paesi europei (Francia e Germania per primi, ma anche Regno Unito), Usa e inviati di Kiev in vista di una possibile tregua nel conflitto ucraino. L’Europa si sdoppia così in iniziative incrociate, una alla corte di Trump guidata dal governo italiano, l’altra organizzata dal presidente Emmanuel Macron all’Eliseo.
Ma il problema principale dei colloqui di Parigi è capire se uno spazio per la leadership europea nelle condizioni di pace esiste, come indica Macron facendosi portavoce delle richieste di Zelensky. O se invece le affinità elettive tra Casa Bianca e Cremlino finiranno per ridurre Bruxelles e Kiev a semplici comprimari.
DI SICURO AL VERTICE dell’Eliseo hanno partecipato interlocutori di primo piano, segno che l’iniziativa del presidente francese è seria. Macron, che ha avuto un colloquio telefonico con il leader ucraino sia prima che dopo il summit, ha ricevuto il segretario di Stato Usa Marco Rubio (che a fine incontro informerà telefonicamente il suo omologo russo Lavrov) insieme a Steve Witkoff, già imprenditore immobiliare e ora consigliere diplomatico di Trump. La delegazione americana, che comprendeva anche l’inviato per l’Ucraina Keith Kellogg, ha poi incontrato nel pomeriggio quella di Kiev, composta dal ministro degli Esteri Andryi Sybiha, da quello della Difesa Rustem Umerov e guidata dal braccio destro di Zelensky Andrji Yermak.
Gli inviati Usa hanno discusso con i loro omologhi europei come «portare avanti l’obiettivo di Trump di porre fine alla guerra e fermare lo spargimento di sangue», ha riferito il dipartimento di Stato Usa. Però in un giorno in cui non si fermano gli attacchi russi e la controffensiva di Kiev sul campo, non mancano neppure gli attacchi verbali di Mosca all’iniziativa francese.
È stata un’occasione importante per avere una convergenza. Penso che tutti vogliano la pace, certamente, una pace robusta e duraturaEmmanuel Macron
«A QUANTO PARE il vertice della cricca fascista dell’Ucraina è arrivato a Parigi per colloqui con Regno Unito, Germania e Francia su quante bare saranno pronti ad accettare dopo lo schieramento di truppe della coalizione dei volenterosi», commenta sprezzante Dmitry Medvedev, già presidente russo e vicepresidente del Consiglio nazionale di sicurezza.
A definire il perimetro di chi dovrebbe decidere del destino di Kiev ci pensa invece Kirill Dmitriev, dall’alto del suo ruolo di capo negoziatore del Cremlino con gli Usa. «Ci sono molte persone, strutture e paesi che provano a interrompere il nostro dialogo con Washington», osserva l’uomo di Putin. Il riferimento evidente è all’Europa, intesa sia come Ue che nel suo formato allargato. Londra, presente all’Eliseo con il ministro degli Esteri David Lammy, è da tempo nel mirino di Mosca a causa il suo attivismo in favore di Zelensky. E Bruxelles viene spesso apostrofata con violenza dall’entourage putiniano.
Per dare conto del livello dello scontro verbale basterebbe ricordare che solo due giorni fa il presidente della Duma Vyacheslav Volodin ha chiesto la rimozione e il processo in un tribunale Onu per l’Alta rappresentante per la politica estera dell’Unione Kaja Kallas.
Witkoff ha adottato la strategia della parte russa, è molto pericoloso perché diffonde, coscientemente o no, le narrative russeVolodymyr Zelensky
AL TERMINE DEL VERTICE, l’Eliseo parla di «opportunità di convergenza» con gli Usa. Ma da Parigi, quella pace «solida e duratura che tutti desiderano» appare ancora molto lontana, nonostante l’ottimismo di circostanza diffuso dal padrone di casa. A colloqui ancora in corso, il leader ucraino boccia l’inviato di Trump Wiktoff, accusandolo di essere tutt’altro che neutrale e di «diffondere la narrazione russa». E alla fine del summit Zelensky ha scritto sui social: «Oggi ho parlato per la seconda volta con il presidente francese Emmanuel Macron. Gli sono grato per la sua leadership e per il lavoro svolto oggi a Parigi dai nostri rappresentanti: Ucraina, Francia, Regno Unito, Germania e Stati Uniti. È importante ascoltarci a vicenda, affinare e chiarire le nostre posizioni e lavorare per la vera sicurezza dell’Ucraina e di tutta la nostra Europa. Abbiamo coordinato ulteriori contatti e incontri», ha scritto il leader ucraino, prima di chiosare: «La durata della pace dipenderà direttamente dalla correttezza delle posizioni diplomatiche e dall’efficacia dell’architettura di sicurezza. Grazie a tutti coloro che ci sostengono».
IN SERATA LA SCENA si sposta da Parigi a Washington. Torna ad aprirsi uno spiraglio di accordo, anche se sul versante più commerciale, ovvero quello delle terre rare. Zelensky lo dà come imminente e Trump annuncia addirittura la firma per giovedì prossimo. Dalla conferenza stampa con Giorgia Meloni, Trump fa anche sapere che «una missione di pace Ue in Ucraina» per gli Usa va bene.
Peccato che manca l’elemento principale: la fine della guerra, appunto.
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Media americani La difesa, lo spazio, le misure contro i migranti... Il caos dazi diluito nella trama degli accordi
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, è atterrata negli Stati Uniti, alla Joint Base Andrews, nei pressi di Washington, 16 aprile 2025
«C’è chi mi ha definito una nazionalista occidentale. Non so se sia il termine giusto ma sono convinta che dobbiamo parlarci francamente, esprimere chiaramente le nostre esigenze e trovare la maniera miglior per rafforzarci entrambi». Attorno al tavolo delle trattative assiepato di telecamere, Giorgia Meloni è ripetutamente tornata su quello che è sembrato essere il concetto preventivamente focalizzato nel “prep” che ha preceduto il vertice, anche con input da consiglieri della Casa bianca.
Obiettivo, minimizzare i contrasti e spingere la narrativa degli alleati che dirimono un malinteso passeggero, destinato a non intralciare una convergenza inscalfibile di interessi. L’effetto è stato appunto quello di battute preparate per una rappresentazione pubblica con scarsa attinenza al caos globale innescato dalle montagne russe dei dazi su cui Donald Trump ha caricato a forza i mercati internazionali.
La premier che i giornali americani hanno battezzato «la donna che sussurrava a Trump» ha fatto del suo meglio per aderire al copione e incarnare il personaggio assegnatogli dalla stampa di casa, ovvero rappresentante sì dell’Italia, ma inviata speciale in realtà dell’Europa intera che l’ha selezionata come arma segreta per deflettere il ricatto di Trump.
«LA PREMIER ha preparato il viaggio in stretto coordinamento con la Commissione di Ursula von der Leyen», ha scritto la Pbs, mentre la Cbs ha decritto il viaggio di Meloni come «prima mossa di una controffensiva europea» nella guerra dei dazi, affidata alla premier italiana in virtù della naturale affinità che vede i due leader «parlare la stessa lingua».
«Credo che sia una grande premier e che stia facendo un gran lavoro in Italia. La conosco dai suoi esordi, credo che abbia grande talento da leader e sono contento di essere con lei», ha aggiunto Trump attenendosi anche lui evidentemente ai convenevoli convenuti. Senza però resistere ad un caratteristico commento “fuori copione”: «Mica male, no? Meglio di così non potrei dire, giusto..?»
IL POSCRITTO improvvisato ha sottolineato come alla fine dei conti ogni sviluppo, per quanto cauto e confezionato, dipenda in definitiva dagli imprevedibili impulsi del presidente, come ha dimostrato un successivo scambio di battute. A Meloni un giornalista ha chiesto se l’Italia avesse un obiettivo sulla spesa militare. «Tutti dobbiamo fare di più», ha risposto la premier citando come esempio il 2% del pil. «Saliranno, saliranno…» ha interrotto il presidente. «Non sarà mai abbastanza», ha aggiunto Trump fra le risatine complici del suo staff e quella impacciata di Meloni che si è affrettata a dire che «siamo convinti che tutti gli stati membri possano fare di più».
«Se non credessi che gli Usa fossero un partner affidabile non sarei qui», ha risposto Meloni ad una successiva domanda, riprendendo la linea ufficiale della “duplice” inviata. «Sono certa che potremo trovare un accordo ed inviterei il presidente ad una visita ufficiale in Italia nell’ambito della quale si potrebbe contemplare anche in vertice con l’Unione europea. Credo fermamente alla via di un mutuo rafforzamento».
«Lei crede nel presidente», non si è trattenuto Trump con un’altra risata, per poi aggiungere: «Lo troveremo l’accordo, non vi preoccupate, abbiamo qualcosa che tutti vogliono. Ci siamo capiti». Un commento sibillino riferito possibilmente ai rispettivi mercati.
IL RESTO dei commenti sono poi virati sulla nota china della «pacchia finita» e delle rivalsa americana dopo decenni di abuso da «praticamente tutti i paesi» del mondo. Poi un piccolo ripasso delle puntate precedenti secondo Trump. «Per ora abbiamo dazi del 25% su alluminio, acciaio e auto, oltre a quelli generali del 10%. Stiamo incassando una montagna di soldi. Con Biden invece perdevamo una fortuna, gli Usa non guadagnavano nulla fin quando non sono arrivato io. Poi c’è stata un’elezione fraudolenta e Biden è tornato a farsi fregare».
«Faremo buoni accordi con tutti», ha assicurato il presidente, «compresa la Cina, vedrete. Nessuno può competere con noi». La pratica cinese, in particolare, è però ancora tutta da verificare. La versione della Casa bianca è che i mega dazi avranno l’effetto di isolare Pechino. Non mancano però gli economisti che credono che potrebbero essere piuttosto gli Stati uniti a tagliarsi fuori da un’economia globale in cui la Cina potrebbe subentrare come partner privilegiato.
Commenta (0 Commenti)«È una premier eccezionale, una leader, mi piace molto». Meloni alla Casa bianca raccoglie sterminati elogi e la promessa di Trump di ricambiare la visita, prima o poi. Ma non riesce a strappare alcun impegno sui dazi
Italia-Usa Elogi alla premier e il sì all’invito in Italia con l’ipotesi di «incontrare anche l’Europa»
Finché si tratta di complimenti Donald Trump è largo di manica. Quando si arriva al sodo, anzi al soldo, la disponibilità scende di parecchi gradi. Di concreto Giorgia Meloni porta a casa solo la promessa del padrone di casa di visitare in data incerta l’Italia. Negli auspici dovrebbe essere l’occasione per un vertice con l’Europa, indispensabile per «fare l’occidente grande di nuovo» ma utile anche per provare a sciogliere il nodo dei dazi. Ma su questo Mr. President non concede neppure un minimo segno di assenso. Per ora è un auspicio forse non infondato, il futuro dirà se è invece una pia illusione. Alla lettera: «Il presidente considererà se incontrare anche l’Europa» nel corso della visita a Roma. Parola di Giorgia.
IN COMPENSO TRUMP ha letteralmente ricoperto di lodi l’ospite, dalla «persona eccezionale» elargito al momento di accoglierla alla Casa Bianca sino al crescendo finale con cui ha chiuso la conferenza stampa nello studio ovale: «L’Italia resterà il principale alleato degli Usa sino a quando il primo ministro resterà primo ministro». Tanto si allarga il presidente che a un certo punto, nel briefing prima dell’incontro, ironizza: «Cosa potevo dire di più? Quasi converrebbe chiuderla qui».
Il capitolo dazi non va oltre l’invito a Roma e del resto sin dal primo mattino le “fonti” della Casa Bianca si erano premurate di far sapere che si sarebbe parlato soprattutto d’altro. Non di Starlink, perché nella delegazione a stelle e strisce mancava proprio Musk. C’era in compenso il vice JD Vance, con le valige già pronte per sbarcare oggi a Roma e rivedere la premier in quella che palazzo Chigi considera ormai nulla più di una visita di cortesia. Di Marte invece se ne è parlato, assicura la premier italiana: le missioni per lanciarsi alla conquista dello spazio saranno frutto di cooperazione e dati i toni adoperati in materia d’immigrazione e diritti civili è difficile non sbottare in un tondo pur se un po’ esagerato: “Oddio, Fascisti su Marte”. E molto si è parlato di Difesa. L’italiana porta in dote la promessa di annunciare al prossimo vertice Nato l’innalzamento della spesa militare per l’Alleanza al 2% del Pil. A Donald non basta: «Non è mai troppo», esclama. Però non s’impunta per reclamare impegni precisi per futuri incrementi e Meloni resta sul vago che più vago non si può. Promette invece l’acquisto di gas liquido americano, capitolo per il mercante della Casa Bianca tutt’altro che secondario, e 10 miliardi di investimenti italiani negli Usa. Trump si accontenta. La premier è alle stelle. Considera l’incontro un successone pieno e se la valutazione è esagerata in termini di risultati effettivi non lo è affatto dal punto di vista politico.
IL PRESIDENTE E LA PREMIER filano davvero l’amore perfetto. I giornalisti americani, pochissimo interessati all’ospite che considerano
Leggi tutto: Trump-Meloni, intesa senza impegno: arrivederci a Roma - di Andrea Colombo
Commenta (0 Commenti)Centrosinistra Uno studio sui dati delle europee 2024 dimostra che i giallorossi possono riconquistare almeno 31 collegi alla Camera, lasciando le destre sotto la maggioranza di 200 seggi
Elly Schlein, Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni – Ansa
In questo inizio di primavera, dalla piazza pacifista del M5S fino alle iniziative comuni sulla Rai e sulla mozione pro Gaza, si sta registrando una ripresa dell’asse giallorosso tra Pd, M5S e Avs. Il “campo stretto” che potrebbe essere la base per la coalizione destinata a sfidare le destre alle prossime politiche. Ma qual è la forza competitiva di questo schieramento nel caso in cui decida di rompere gli indugi e diventare un’alleanza?
SECONDO UNA ELABORAZIONE di Antonio Floridia sui 147 sui collegi uninominali della Camera sulla base dei voti delle europee 2024 (in cui il centrodestra è andato un po’ meglio rispetto alle politiche 2022, e ha preso il 47% rispetto al 43,8%) le prospettive dei giallorossi non sono affatto negative: se nel 2022 la somma dei collegi conquistati dal centrosinistra più i 5S era di 22 contro i 122 delle destre, votando oggi il distacco si ridurrebbe di molto: 78 a Meloni, 53 ai giallorossi e 14 collegi incerti.
Aggiungendo i seggi del sistema proporzionale sulla base dei risultati del 2022, il totale mostra uno scenario interessante: il centrodestra totalizzerebbe 192 seggi alla Camera (di poco sotto la maggioranza assoluta) e il campo progressista 162, 30 seggi più di quelli attuali. Questo recupero del centrosinistra è dovuto ai risultati dei collegi uninominali, dove nel 2022 il Pd si era presentato con Avs (e +Europa) e i 5S erano andati da soli.
In particolare, le sinistre recuperano seggi in Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Liguria, Puglia, Campania e Sardegna. Non nel lombardo veneto, dopo la superiorità delle destre resta schiacciante. E non sarebbe intaccata neppure in presenza di un campo largo con Azione e Italia Viva.
NEL DETTAGLIO LE FORZE progressiste dilagherebbero al sud: se in Puglia nel 2022 era finita 9 a 1 oggi il risultato sarebbe 7-0 per le opposizioni, con 3 collegi incerti. Così in Campania: i giallorossi rivincerebbero i 7 collegi vinti dai 5s da soli tre anni fa, e recuperebbero 3 di quelli vinti dalle destre. In Sardegna si passerebbe dal 4-0 per Meloni al 4-0 a zero per Schlein e alleati: un vero ribaltone.
In Emilia Romagna il risultato passerebbe dal 7-4 per le destre al 7-2 per le sinistre, in Toscana dal vecchio 7-2 per Meloni al 6-2 (con un collegio in bilico). Nel Lazio la destra si ridurrebbe dal 12 a 2 del 2022 al 7-6 del nuovo voto politico. E in Calabria l’assegnazione dei seggi si ribalterebbe: dal 4-1 per Meloni e soci al 4-1 per il centrosinistra. In sintesi le destre perderebbero 44 seggi che attualmente hanno: 30 con ragionevole certezza e 14 in bilico.
NUMERI CHE NON NASCONO da una clamorosa crescita delle forze di opposizione, ma dalla loro (eventuale) capacità di presentarsi in coalizione: dal 2022 al 2024, infatti, Pd, M5S e Avs sono passati insieme dal 37,8% al 40,9%. (le destre dal 43,8 al 47%) Una crescita che riguarda soprattutto i dem e i rossoverdi, mentre il partito di Conte ha perso 5 punti percentuali. Ma nella somma che serve nei collegi questo calo dei 5S a favore degli alleati non rappresenta un danno.
LA DIFFERENZA RISPETTO al 2022 è che gli elettorati dei tre partiti hanno già dimostrato di potersi sommare: è successo nel caso delle vittorie alle regionali di Sardegna, Emilia-Romagna e Umbria, e anche dove ci sono state sconfitte come in Liguria, Abruzzo e Basilicata. E potrebbe accadere alle prossime regionali in Puglia, Campania, Toscana, Marche e Veneto. E alle comunali del 2024 c’erano state alleanze vincenti a Bari, Perugia, Cagliari, Potenza, Campobasso e in molti capoluoghi dell’Emilia Romagna. Se è vero dunque che gli elettorati di Pd e Avs sono più coalizionali rispetto a quello dei 5S, i supporter di Conte hanno dimostrati di non essere totalmente allergici all’alleanza.
DEL RESTO, GIÀ NEL 2022 se i tre partiti fossero stati uniti, come si è scritto molte volte, Meloni non sarebbe arrivata a palazzo Chigi. I numeri dicono che alla Camera le destre avrebbero avuto 187 seggi contro i 179 dei giallorossi, mentre al Senato le destre si sarebbero fermate a 83 seggi (ben al di sotto della maggioranza) e i giallorossi l’avrebbero sfiorata con 96 seggi, cui aggiungere i 3 conquistati dal Pd all’estero. Questo calcolo è stato effettuato tenendo conto solo dei collegi uninominali in cui la somma di centrosinistra e 5S supera le destre di almeno 5 punti.
Il calcolo di Floridia, fatto sui numeri delle europee, è più realistico perché tiene conto del calo registrato dai 5S dal 2022 al 2024: in Campania il partito di Conte è passato dal 34 al 20%, in Puglia dal 28 al 14%, in Calabria dal 29 al 16%. Un calo solo in parte compensato da Pd e Avs che sono passati rispettivamente dal 15 al 22% e dal 3 al 7% in Campania e dal 17 al 33% in Puglia (Avs stabile intorno al 4%).
QUESTI NUMERI nel complesso dicono una cosa: che nel 2022 era possibile impedire la vittoria delle destre e che questo è vero anche oggi, anche con una coalizione ristretta a Pd, 5S e Avs. I numeri per un maggioranza progressista (ancora?) non ci sono. Ma va segnalato che nello studio di Floridia una coalizione allargata anche ai centristi di Renzi e Calenda soffierebbe altri 15 seggi alle destre: alla Camera il campo largo avrebbe 198 seggi contro i 177 delle destre.
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L’Europa allarga la guerra ai migranti: anche Bangladesh, Egitto e Tunisia devono essere considerati «paesi sicuri». E i respingimenti alla frontiera vanno anticipati. Von der Leyen fa felice Meloni. La Commissione Ue sempre più sovranista e il diritto di asilo svanisce
Commistione europea Il giorno prima che la premier italiana incontri Trump, la Commissione propone di anticipare le norme utili a riempire i centri in Albania. Così l’istituzione comunitaria entra a gamba tesa nella causa discussa dalla Corte di giustizia Ue. La leader Fdi esulta: cambiamo l’approccio europeo sul governo dei flussi migratori
Il centro migranti di Gjader in Albania – Ansa/Domenico Palesse
Il giorno dopo la telefonata con Ursula von der Leyen e il giorno prima dell’incontro con Donald Trump la presidente del Consiglio Giorgia Meloni incassa un assist dalla Commissione Ue sul progetto più controverso della legislatura: i centri in Albania. Ieri l’istituzione comunitaria ha proposto l’anticipazione di due punti del Patto su immigrazione e asilo per permettere al governo italiano di riempire le strutture di Gjader.
IL PACCHETTO DI NORME doveva entrare in vigore a giugno 2026, ma ora la Commissione chiede di far prima nell’ampliamento delle procedure accelerate o di frontiera, quelle che comprimono il diritto di difesa, abbattono le possibilità di ottenere la protezione e prevedono il trattenimento. Nello specifico chiede di anticiparne l’applicazione alle nazionalità con tassi europei di asilo inferiori al 20% e a paesi considerati come «sicuri» anche in presenza di eccezioni per parti di territorio o categorie di persone. Su questo punto l’istituzione ha anche ufficializzato la proposta di lista comune, che affianca quelle nazionali. Comprende Kosovo, Colombia, India, Marocco, gli Stati candidati ad aderire all’Ue e i tre che interessano all’Italia per i centri d’oltre Adriatico: Bangladesh, Egitto e Tunisia.
Erano loro il target iniziale del protocollo con Tirana, esteso ai migranti “irregolari” solo dopo che i giudici di Roma hanno contestato l’inserimento di Bangladesh ed Egitto nella lista nazionale. Nei mesi scorsi la Commissione aveva annunciato l’intenzione di anticipare l’elenco comune, poi lunedì sono trapelate le prime indiscrezioni favorevoli a Meloni. L’ufficializzazione di ieri, però, segna un’improvvisa accelerazione. Soprattutto è un grande favore alla premier sul piano interno, in vista della complessa trasferta Usa, e un’entrata a gamba tesa sulla Corte di giustizia Ue.
UNA SETTIMANA FA l’avvocato generale Richard de la Tour ha pubblicato il suo parere indipendente nella causa sui paesi sicuri sollevata dai tribunali nazionali. Quella in cui la Commissione ha dimostrato di essere più sensibile alle richieste politiche italiane che alle considerazioni di diritto e giurisprudenza europee: nel mese trascorso tra il deposito delle osservazioni scritte e l’udienza orale del 25 febbraio scorso ha cambiato completamente posizione accogliendo in toto la linea di Roma.
Pur dando ragione all’Italia sulla possibilità di inserire l’elenco paesi sicuri in una legge, e aprendo a un inedito bilanciamento tra rapidità delle procedure e garanzia dei diritti fondamentali, l’avvocato generale ha contraddetto le tesi principali del governo Meloni. Quelle che contestavano il potere di controllo dei giudici, la pubblicità delle informazioni e la possibilità di eccezioni per categorie di persone. Secondo de la Tour queste sono legittime solo a patto che siano inserite in un contesto di Stato di diritto, facilmente identificabili e numericamente ridotte. Paletti che se adottati dalla sentenza attesa entro giugno, il parere conta molto ma non è vincolante, renderebbero quasi impossibile la designazione di Bangladesh, Egitto e Tunisia. I centri in Albania rimarrebbero vuoti, a parte qualche “irregolare” nel Cpr di Gjader, fino all’entrata in vigore del Patto.
PERCIÒ ORA LA COMMISSIONE punta ad anticiparla, dimostrando di aver imparato bene la lezione del governo italiano: scavalcare le sentenze sui diritti fondamentali attraverso
Leggi tutto: Von der Leyen paga dazio a Meloni: ok ai «paesi sicuri» - di Giansandro Merli
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