Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

Migranti Intervista all'ordinaria di Diritto Ue presso l'università di Firenze. «La sentenza afferma un principio diametralmente opposto a quello sostenuto da esecutivo e avvocatura dello Stato: quella lista non è un atto politico, dunque è sindacabile dai giudici», afferma la docente

Favilli: «Sui paesi sicuri la Cassazione ha dato torto al governo Meloni» Chiara Favilli, ordinaria di Diritto Ue presso l'università di Firenze

Forse 40 pagine erano troppe o forse qualcuno preferisce fidarsi delle veline del governo. Fatto sta che ieri si è letta e sentita una singolare interpretazione della sentenza sui «paesi sicuri» resa pubblica giovedì dalla Cassazione: è favorevole all’esecutivo. «In realtà va in direzione opposta», dice Chiara Favilli, ordinaria di Diritto Ue all’università di Firenze e direttrice della rivista Diritto, immigrazione e cittadinanza.

La Cassazione ha dato ragione al governo?
No, ha affermato un principio diametralmente opposto a quello sostenuto dal governo nelle scorse settimane e dall’avvocatura dello Stato in questo ricorso. Loro dicevano che la qualificazione di un paese come sicuro è una prerogativa governativa ed è un atto politico. La Cassazione ha affermato che sì spetta al governo ma non è un atto politico, come ad esempio tessere relazioni diplomatiche o scegliere partner commerciali. L’elenco dei paesi di origine sicuri, invece, è un atto caratterizzato da discrezionalità tecnica: i requisiti sono previsti dalla direttiva 32/2013 e dalla legge italiana. Quindi sussiste il sindacato giurisdizionale, ovvero il potere del giudice di pronunciarsi sull’atto.

La sentenza dice che il giudice può solo disapplicare l’atto amministrativo, non annullarlo. Un punto a favore dell’esecutivo?
Un punto a favore della legalità costituzionale. È assolutamente pacifico, la dottrina e la giurisprudenza lo hanno ampiamente affermato nel secolo scorso, che un giudice deve disapplicare un atto amministrativo che ritiene non conforme alla legge ma questo rimane comunque in vigore. Il giudice di merito ordinario non ha il potere di annullarlo. Cosa che potrebbe fare un tribunale amministrativo, che però in questa vicenda giuridica non può essere chiamato in causa, oppure la Corte costituzionale, nel caso di una legge.

A proposito di questa distinzione. L’elenco dei «paesi sicuri» su cui si è pronunciata la Cassazione era un atto amministrativo, ora è stato inserito in una norma primaria. I principi affermati dalla sentenza già non valgono più?
No, perché i principi riguardano più fasi e aspetti del sindacato giurisdizionale. In primis la Corte afferma che la qualificazione del paese come sicuro è un atto politico, a prescindere dalla veste giuridica. Quindi il potere del giudice rimane comunque, anche con la legge. Certo qualcosa cambia. Non essendo più un decreto interministeriale non si può parlare di disapplicazione dell’atto amministrativo. Si può però ipotizzare la disapplicazione della legge se ritenuta in con la direttiva Ue. Dal punto di vista giuridico non esiste alcun ostacolo a che i giudici traslino i principi stabiliti e li applichino al nuovo ambiente normativo. Inoltre, trattandosi di una legge, il magistrato potrebbe anche sollevare una questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta. Questa è una nuova possibilità che si apre, con il decreto precedente non era possibile.

La Cassazione ha ribadito che spetta al governo stilare la lista paesi sicuri. I giudici chiedevano di scriverla loro?
Questo non è mai stato ventilato, in nessun provvedimento o commento giuridico. Neanche in quelli più critici verso l’esecutivo. La direttiva Ue attuale e il Regolamento che sarà in vigore dal 2026 sono chiarissimi: è il governo, o l’autorità da esso individuata, a stilare l’elenco. Il giudice deve invece verificare che quelle scelte rispettino i requisiti previsti dalla legge.

Resta il fatto che secondo la sentenza il giudice può valutare solo caso per caso. Si riferisce solo ai singoli richiedenti asilo, con le loro storie, o anche ai paesi ritenuti sicuri, quindi alla stessa presenza nell’elenco?
Questo punto è importante. Dobbiamo distinguere le diverse fasi. Prima di tutto la Cassazione afferma che il sindacato giurisdizionale c’è. Poi indica su cosa verte. I profili sono due. Il primo riguarda la qualificazione di un paese come sicuro in via generale. È possibile considerare tale l’Egitto? Il giudice deve stabilirlo ex nunc, nel momento in cui esamina il ricorso di una persona per capire se è stata pregiudicata la tutela effettiva dei suoi diritti. Se ritiene la classificazione illegittima deve disapplicare: così il richiedente seguirà la procedura d’asilo ordinaria. C’è poi il secondo profilo. Se il giudice ritiene che la qualificazione del paese come sicuro è corretta, ma la persona è minacciata per la sua situazione specifica, dispone comunque la procedura ordinaria. Senza bisogno di disapplicare. Ma la Cassazione si è espressa sulla prima ipotesi, la seconda è pacifica: è nella direttiva e nella legge, nessuno la contesta.

La sentenza avrà ripercussioni sul progetto Albania?
Questa decisione, che conferma la legittimità dell’operato dei giudici, nasce da un ricorso contro un diniego dell’asilo. Su quelli relativi ai trattenimenti la Cassazione non si è ancora espressa. Siamo in attesa del responso. Mi pare però difficile possa affermare principi completamente diversi. Comunque la cosa più probabile è che sospenda in attesa della sentenza della Corte europea attesa per la primavera.

Commenta (0 Commenti)

Politica e giustizia Resuscitare politicamente Matteo Salvini resta un’impresa difficile, ma il processo di Palermo dal quale ieri sera è emerso candido come un giglio darà il suo contributo. Ennesima prova che la […]

L’arma spuntata dei tribunali

Resuscitare politicamente Matteo Salvini resta un’impresa difficile, ma il processo di Palermo dal quale ieri sera è emerso candido come un giglio darà il suo contributo. Ennesima prova che la correzione dei torti politici per via giudiziaria non è solo inefficace ma anche controproducente. Il nostro paese dovrebbe conoscere a memoria questa storia, nella quale però puntualmente ricasca.

Certo, non è una buona notizia per nessun cittadino dotato di elementare spirito democratico apprendere all’ora di cena che per un tribunale della Repubblica tenere forzatamente a bordo 147 persone in stato di sofferenza per 19 giorni, impedendo loro di sbarcare a terra, non è contrario alla legge. Essendo evidentemente contrario a tante altre cose più immediate, dal raziocinio al senso di umanità. Ma è notizia assai peggiore che questo infame comportamento sia meritevole, per tanti, di quel consenso politico in forza del quale si governano il nostro paese e un bel po’ del civilizzato Occidente. E questo non ce lo doveva dire, ieri sera, il tribunale di Palermo.

La giustizia penale è un fatto tecnico, la verità processuale non è quella storico politica che talvolta è migliore e talvolta peggiore. In un’aula di tribunale si può, carte e mail dell’ex presidente del Consiglio Conte alla mano, sostenere che Salvini ha fatto tutto da solo quando – per due volte – ha tenuto i migranti, molte donne e molti bambini, legati alla banchina a impazzire sotto il sole per giorni. In qualsiasi altro consesso dotato di memoria non si può invece dimenticare quanto ci tenessero i 5 Stelle, alleati di governo della Lega, a rivendicare anche loro la linea durissima contro i migranti e quanto condividessero la vile retorica della difesa dei confini.

Adesso, almeno, Salvini non potrà fare il martire, lui che su questa presunta salita al patibolo stava politicamente campando da anni, un video e un tweet dopo l’altro. Gli mancherà un argomento, ma lo sostituirà con un altro più pericoloso ancora, e cioè che d’ora in avanti sarà lecito e più semplice negare lo sbarco alle navi che soccorrono i migranti, senza bisogno di tenerle in mare a navigare verso i porti più lontani. Naturalmente non è così, proprio perché questo processo penale ha giudicato un singolo episodio amministrativo e due specifiche accuse. Ma è vano sperare in un discorso razionale, soprattutto da parte di Salvini.

Anche perché, altrimenti, questo processo dimostrerebbe innanzitutto alla maggioranza di governo, impegnata in una guerra contro la magistratura e la sua indipendenza, che quella delle toghe rosse e politicizzate è una favola. E che non c’è quel totale appiattimento dei giudici sui pubblici ministeri, in forza del quale sarebbe necessaria la definitiva separazione delle carriere.
Nessun tribunale richiamerà mai l’incoerenza di un ministro che rivendica le sofferenze imposte con il suo blocco a 147 persone fragili e in fuga e il contemporaneo disegno di legge sicurezza che punisce con anni di galera chi con il suo semplice corpo prova a non farsi trascinare via da un agente. Nessun giudice condannerà La Russa per aver rubato la voce a quel vecchio busto che aveva in casa per rispondere al Consiglio d’Europa che non si intromettesse nelle nostre autarchiche violazioni dello stato di diritto. Per quello c’è solo la politica, o dovrebbe esserci.

 

 

Commenta (0 Commenti)

Congresso Fuori dai radar mediatici, si sta svolgendo in queste settimane il congresso di Rifondazione comunista. E meritano attenzione i termini del duro scontro in atto, non solo per le sorti del partito, ma anche per le implicazioni più generali che suggeriscono

Rifondazione e la trappola del maggioritario

 

Fuori dai radar mediatici, si sta svolgendo in queste settimane il congresso di Rifondazione comunista. E meritano attenzione i termini del duro scontro in atto, non solo per le sorti del partito, ma anche per le implicazioni più generali che suggeriscono.

«Il congresso più difficile della nostra storia, in cui è in gioco l’esistenza stessa di Rifondazione comunista», si legge in apertura del documento firmato dal segretario uscente, Maurizio Acerbo; altrettanto severi i toni del documento alternativo, firmato tra gli altri da Paolo Ferrero: «Per rilanciare il Partito è necessario fare i conti con la nostra debolezza», dovuta «innanzitutto all’attuale assenza di una prospettiva politica chiara, di un ruolo da svolgere nell’Italia di oggi».

Ora, lasciando da parte gli aspetti retrospettivi, su cui i documenti si soffermano con ricostruzioni divergenti del passato, si può individuare la linea discriminante della discussione: il rapporto tra identità e autonomia del partito, da un lato, e le possibili alleanze politiche, dall’altro.

Da una parte (tesi Acerbo) si denuncia come, nell’altro documento, il rilancio del Prc sia prospettato solo «in un ripiegamento settario, nel rifiuto pregiudiziale di ogni possibile alleanza» e «nell’isolamento identitario»; e si oppone a ciò, una «riscoperta del ruolo della politica, condizione indispensabile per superare, in ogni situazione, le condizioni dello stato presente e fare muovere le cose in avanti».

Nell’altro documento, si sostiene invece che, qualsiasi strategia di alleanze debba essere subordinata alla «modifica dei rapporti di forza dentro le opposizioni», e si assume come esempio il caso francese di Mélenchon che, «da oltre un decennio», ha lavorato a costruire una sinistra di alternativa, «rifiutando ad ogni livello accordi con il partito socialista», e che «solo dopo aver ribaltato i rapporti di forza elettorali con il partito socialista nelle elezioni presidenziali», ha poi proposto e costruito l’unità della sinistra.

Naturalmente, non spetta a chi scrive schierarsi per una o l’altra di queste tesi. Sono possibili però alcune considerazioni di ordine più generale, a partire da una domanda: è possibile uscire dalla gabbia concettuale secondo cui «le alleanze» sono la cartina di tornasole, il metro di misura, della propria identità? Per dirla, in termini più spicci, è proprio vero che, in politica, si possa applicare il detto «dimmi con chi vai e ti dirò chi sei?».

Quando si ha una propria identità politica, forte di una propria autonomia culturale, non si teme la contaminazione, la questione delle alleanze perde il suo carattere pregiudiziale, e si apre la via ad una prassi di possibili mediazioni sul piano programmatico. Nessuno, ovviamente, può sostenere alleanze apertamente contraddittorie con il proprio profilo, ma si può e si deve distinguere tra le finalità generali che una forza politica si propone e i passaggi a breve e medio termine che possono essere compiuti. Non regge una visione esclusivista delle proprie «verità»: nell’ambito delle forze democratiche e di sinistra vi è un pluralismo costitutivo di idee e nessuno può ergersi a portatore della linea «giusta».

Ma c’è anche un secondo elemento, specifico della situazione italiana: giustamente, nei documenti citati, si denuncia la logica perversa del maggioritario che domina da anni nella politica del nostro paese. Il paradosso, tuttavia, è che si rimane subalterni a questa logica quando il tema delle alleanze viene ad assumere un’indebita centralità, e soprattutto quando si ignora la necessaria distinzione tra il piano degli accordi elettorali e il piano delle alleanze politico-programmatiche e della proposta di governo. Specie in presenza di un sistema elettorale come quello oggi vigente in Italia, è possibile, – e credo sarà doveroso – sfruttarne i meccanismi e realizzare forme di coordinamento tra il più ampio possibile arco di forze democratiche. Accordi che puntino a neutralizzare proprio gli effetti distorsivi del maggioritario. Con un obiettivo politico, che molti tendono colpevolmente a sottovalutare: impedire quanto meno che, come nel 2022, la destra – capace sempre di compattarsi – ottenga una super-maggioranza in grado, come i fatti stanno dimostrando, di mettere ulteriormente a repentaglio i fondamenti costituzionali della nostra democrazia; e, perché no, provare anche a determinare nuovi rapporti di forza in parlamento. Vi pare poco?

Attorno a questo obiettivo possono convergere forze molto diverse: da quelle che si pongono un orizzonte rivoluzionario a quelle che vogliono difendere i principi del costituzionalismo liberal-democratico. E se si ritiene, come alcuni sostengono con buone ragioni, che sia necessario anche il «centro», perché mai le forze della sinistra radicale dovrebbe essere escluse, o auto-escludersi, o che non possano finalmente provare ad avere una propria rappresentanza parlamentare?
Ho l’impressione che tra gli elettori di sinistra ci sia una certa stanchezza e ritrosia ad intraprendere l’ennesima «traversata nel deserto»; nel deserto, si sa, si incontrano poche oasi e molti miraggi.

Commenta (0 Commenti)

L’inverno di Kiev Pesa l’effetto Trump. Il presidente ucraino di fatto accetta la divisione (forse per molti anni) del Paese che è esausto: son più di 100mila i soldati ucraini incriminati per diserzione

I militari ucraini in una trincea in prima linea, vicino a Bakhmut, regione di Donetsk foto Efrem Lukatsky/Ap I militari ucraini in una trincea in prima linea, vicino a Bakhmut, regione di Donetsk foto Efrem Lukatsky/Ap

Come c’erano una volta due Germanie, ci saranno due Ucraine. Zelenski riconosce ora quello che la gran parte dei governi occidentali, a cominciare da quello americano, pensa da tempo: l’esercito ucraino non ha i mezzi militari né gli uomini necessari per riconquistare la Crimea e il Donbass. E non li ha mai avuti già dal 2014.

Quando la Russia, con i ribelli filorussi – e anni di guerra civile -, occupò quei territori. Era solo la metà dell’ottobre scorso quando Zelenski presentava il suo «piano per la vittoria», adesso ha ammesso, in videoconferenza con i lettori del quotidiano Le Parisien, che l’Ucraina «non ha la forza di riconquistare la Crimea e il Donbass, de facto – ha dichiarato – questi territori sono controllati dai russi. Possiamo contare solo sulla pressione diplomatica della comunità internazionale per costringere Putin al tavolo dei negoziati».

GLI UCRAINI DEVONO dunque prepararsi a cedere almeno una parte di quel 20% conquistato con la forza dai russi, questo è il messaggio. Zelenski ne ha preso atto, anche se poi bisognerà capire che cosa si debba intendere per “Donbass”, se tutto il territorio occupato tra il 2022 e il 2024 o solo i distretti di Donetsk e Lugansk controllati da Mosca fin dal 2014. Ma di fatto il presidente ucraino accetta che il Paese sarà diviso in due parti per alcuni anni (forse per molti anni) con una formula transitoria, almeno finché al potere a Mosca ci sarà questo regime. Con l’elezione di Trump, Kiev ha capito che rischiava di essere abbandonata al suo destino, come dimostrava il tweet volgare con cui il figlio del presidente eletto statunitense paragonava gli aiuti a un paese aggredito a una «paghetta» per Zelensky.

ORMAI SONO cambiati i termini della questione ucraina. Dopo gli annunci roboanti, sotto l’effetto Trump siamo passati dalla questione dei territori a quella della sicurezza. L’Ucraina aveva posto il ripristino della sovranità piena come condizione imprescindibile per mettere fine alla guerra ma il rapporto di forze sul campo, diventato sempre più favorevole alla Russia che continua a bombardare a tutto spiano anche i civili, ha reso questa ipotesi di fatto impossibile, sicuramente molto lontana e costosa in termini di vite umane e di sostegno economico occidentale. Oggi l’Ucraina sa che dovrà sacrificare i territori conquistati dalla Russia in attesa di giorni migliori, in uno scenario che ricorda appunto le due Germanie (separate per decenni ma che alla fine si sono riunite).

L’UCRAINA, in cambio dei sacrifici territoriali, chiede reali garanzie di sicurezza, in modo da assicurarsi che il conflitto non riprenda non appena l’Occidente volterà le spalle. Quali potrebbero essere queste garanzie? L’adesione dell’Ucraina alla Nato sarebbe la garanzia suprema, grazie all’articolo 5 che prevede la solidarietà automatica in caso di aggressione. Ma Putin non lo accetterà mai e Trump è della stessa opinione. Si sta discutendo quindi un’altra opzione: lo schieramento in Ucraina di truppe dei paesi Nato che agiscano indipendentemente e offrano una garanzia concreta di difesa della sovranità del paese, oppure quella di truppe europee ma sotto l’egida delle Nazioni unite.Il fatto che i leader europei ne parlino è già un passo avanti ma non a tutti piacciono questi discorsi. Il segretario generale della Nato, Mark Rutte, ha affermato che «concentrarsi sui negoziati di pace aiuta la Russia».

A RUTTE, CHE DEVE essere uno stratega da divano, deve essere sfuggito qualche passaggio, dall’arrivo alla Casa bianca di un presidente che si è vantato di poter risolvere la guerra in Ucraina nell’arco di 24 ore, ma soprattutto che l’Ucraina è un Paese esausto. Nei primi 10 mesi di quest’anno hanno disertato più soldati ucraini che nei due anni precedenti di guerra, il che evidenzia la difficoltà di Kiev nel ricostituire la prima linea mentre la Russia conquista sempre più territorio nell’Ucraina orientale: più di 100mila soldati sono stati incriminati in base alle leggi sulla diserzione in Ucraina dall’invasione della Russia nel 2022, secondo i dati del procuratore generale di Kiev. Anche i russi sono stanchi di guerra e la crisi economica morde ma Putin conta sui mercenari e persino sulle truppe nordcoreane.

RUTTE, CHE IERI era a cena con Zelesnki a Bruxellex dove si svolgeva un vertice ristretto sull’Ucraina, continua a insistere che bisogna prepararsi alla guerra, all’aumento delle spese militari anche a costo di tagliare le spese per il welfare: ma forse dal presidente ucraino questa volta sentirà una musica un pò diversa. Perché lo stesso Zelesnki non appare più tanto saldo in sella. L’attentato che ha eliminato a Mosca il generale Kirillov rivendicato dall’Sbu, i servizi di sicurezza ucraini, significa che l’Ucraina vuole portare la guerra nel cuore della società russa, in modo che anche la popolazione russa ne subisca gli effetti in un momento in cui le città sono bombardate quotidianamente da Mosca. Ma mentre si attende la rappresaglia di Mosca – che ha arrestato per l’assassinio un giovane uzbeko – Zelenski ha già alzato la posta: ora dovrà far accettare l’esistenza di due Ucraine, un cambio di rotta vertiginoso che può costargli caro.

Commenta (0 Commenti)

L'analisi Assad si è portato via le casse dello Stato, mentre Israele sta disintegrando tutto l’apparato militare e si allarga nel Golan; a nord Erdogan occupa due cantoni e apre la caccia ai curdi

Il potere è una scatola vuota per Al Julani Damasco, un poster sfigurato dell’ex dittatore Assad – Hussein Malla/Ap

Il crollo del regime di Assad e i raid di Israele consegnano al nuovo padroncino di Damasco, il jihadista Al Julani, un scatola vuota sulla quale è scritto «Ex Siria».
Bashar al Assad che si è fatto vivo da Mosca dando la sua versione della storia – «sono i russi che mi hanno chiesto di andarmene» – si è portato via la cassa.

Le riserve della banca centrale, due tonnellate di banconote e 250 milioni di dollari erano già stati trasferiti in passato in Russia, la sua cerchia di potere aveva acquistato un quartiere della capitale russa dove trasferirsi con i proventi delle rapine a danno del popolo siriano, del contrabbando e del traffico di droga.
L’apparato bellico delle forze armate siriane non esiste più. In questi giorni con centinaia di bombardamenti israeliani è stato disintegrato all’80 per cento, dalla marina all’aviazione, alle fabbriche belliche.

La nuova Siria per decenni non potrà ricostruire una capacità militare difensiva significativa, il che vuol dire che è attaccabile in qualunque momento e farà fatica a controllare un territorio dove le milizie abbondano. Pure l’Isis, a Est nel mirino degli americani, i quali dovrebbero proteggere i loro alleati curdi, lasciati al solito, al loro destino. Con l’occupazione del Golan le truppe israeliane sono a qualche decina di chilometri da Damasco: in pratica Al Julani, che ha flebilmente protestato con Tel Aviv, è letteralmente sotto il tiro della tecnologia bellica israeliana, come ha dimostrato la guerra in Libano attuata anche con l’eliminazione della dirigenza Hezbollah. Non gli conviene neppure nascondersi, è quasi un ostaggio.

L’INCONTRO a Damasco tra Al Julani e l’inviato speciale delle Nazioni unite Geir Pedersen ha avuto risvolti quasi comici se di mezzo non ci fosse la tragedia di un popolo. Pedersen ha ribadito l’importanza di una transizione politica credibile e inclusiva, dichiarando: «La transizione deve essere guidata dai siriani e rispettare la sovranità e l’integrità del Paese». Ma certo, come no. Se Israele si è impadronita del Sud nel Golan e dei collegamenti con il Libano, a Nord Ankara, che occupa direttamente due cantoni siriani, ha scatenato le milizie filo-turche contro i curdi e il Pkk, che ora chiedono di trattare con Damasco.

DI QUALE «integrità» della Siria parla Pedersen? Il governo israeliano ha approvato un piano per raddoppiare la popolazione nella parte del Golan siriano occupata da Israele, ma afferma di non essere interessato a entrare in conflitto con la Siria, avendo preso ormai il controllo della zona cuscinetto monitorata dell’Onu. Israele ha conquistato parte delle alture del Golan durante la guerra arabo-israeliana del 1967, prima di annettere il territorio nel 1981. E gli Stati uniti, sotto l’amministrazione di Donald Trump, hanno riconosciuto questa annessione nel 2019, in violazione delle risoluzioni Onu. Tra un po’, con Trump alla Casa Bianca, Netanyahu e il suo governo di estremisti di destra sperano che gli Usa riconoscano l’annessione di tutto il Golan e delle colonie in Cisgiordania.

Si intravede già il solito giochetto coloniale israeliano del divide et impera. Nelle 34 località delle alture del Golan annesse da Israele vivono circa 30mila cittadini israeliani, oltre a 23mila drusi, una comunità che per la maggior parte si dichiara siriana ma ha lo status di residente in Israele. Ora qualche comunità drusa nella parte del Golan siriano appena occupato ha già chiesto di essere annessa a Israele. Tra pressioni esterne e forze centrifughe interne l’integrità territoriale della Siria appare grandemente sotto pressione.

Il terreno è già pronto. L’amministrazione Biden ha subito avallato la narrativa secondo la quale l’occupazione del Golan e i raid israeliani sono «misure preventive di legittima difesa» contro potenziali minacce provenienti dalla Siria. Insomma Israele può invadere tutto i territori che gli pare dei Paesi confinanti: la questione del doppio standard attuato sistematicamente dagli americani è diventata imbarazzante.

A meno che non rientri in una strategia più ampia, evocata tra sussurri e grida nei corridoi diplomatici, ovvero che se la Russia si è messa d’accordo per liberare la Siria da Assad – e ora tratta con Al Julani sulle basi russe – può anche negoziare sull’Ucraina. E anche questa volta la Russia, come spesso accade, non ha niente da dire. sull’occupazione israeliana del Golan. Forse non è un caso.

MAL DI LÀ delle questioni politiche e militari in Siria è in corso, certo non da oggi, una tragedia umanitaria. La metà del patrimonio abitativo è distrutto o inagibile, rendendo complicato anche il ritorno dei profughi, il 90% dei siriani vive sotto la soglia di povertà. Al Julani ha un bilancio statale stimato dal Financial Times in meno di 100 milioni di dollari: per fare un confronto Israele ha annunciato che nel raddoppio dei residenti nel Golan investirà circa 10 milioni di dollari, un decimo di quanto ha in mano il capo jihadista per gestire tutto il Paese. È evidente che i soldi della Turchia non basteranno e quindi si aprirà la corsa ai fondi delle monarchie del Golfo, in gran parte già aderenti al Patto di Abramo.

Il vuoto lasciato dalla caduta del regime di Assad pone interrogativi cruciali sulla sicurezza regionale e sulle dinamiche geopolitiche immediate e future. Ma è già chiaro che indebolita e stremata la Siria oggi lotta ancora per la sopravvivenza.

Commenta (0 Commenti)

Principi e convivenza Il disegno di legge Piantedosi, Nordio, Crosetto, meglio noto come «sicurezza», contro il quale oggi si scende in piazza a Roma, è un campionario degli orrori securitari che maturano nella destra italiana

Dove punta l’attacco della destra

 

Obbedire, dalle strade alle scuole alle galere. Non solidarizzare, con i migranti o con chi non ha un tetto e occupa una casa vuota. Non protestare, neanche con il proprio corpo perché è considerato un’arma se lo porta in giro chi dissente. Arma terribile, non come le pistole di ogni misura che le forze di polizia potranno d’ora in avanti raddoppiare per non restare mai senza, neanche quando litigano con il marito, la moglie o il vicino.

La redazione consiglia:
Tutte le leggi melonissime

Il disegno di legge Piantedosi, Nordio, Crosetto, meglio noto come «sicurezza», contro il quale oggi si scende in piazza a Roma, è un campionario degli orrori securitari che maturano nella destra italiana. Ed è un biglietto da visita per questa maggioranza di governo che nella continua rincorsa alle posizioni più reazionarie ha finito con il portare in parlamento un provvedimento da stato di guerra. Guerra ai poveri, ai migranti, alle minoranze.

Non c’era bisogno che il sottosegretario alla ferocia si dichiarasse un orgoglioso liberticida perché il disegno apparisse chiaro. Come chiaro è l’eterno tentativo di reagire ai bisogni sociali che non si riescono – non si vogliono – ascoltare, con la repressione e il codice penale. Reagendo anche alle proprie difficoltà. Da qualche tempo infatti, dai Tar ai tribunali ordinari, dalla Cassazione alla Corte costituzionale, il governo va incontro a ripetute e pesanti bocciature giudiziarie quando impone i suoi diktat.

Ognuna di queste bocciature – dalla pretesa di impedire gli scioperi all’abitudine di distribuire fogli di via agli attivisti, dai respingimenti e deportazioni dei migranti alla volontà di ignorare il diritto costituzionale e il diritto europeo, si tratti di concedere asilo o di spaccare il paese tra regioni ricche e regioni povere – dovrebbe provocare imbarazzo, autocritiche, marce indietro. Invece produce altri attacchi alle giurisdizioni e il rilancio imperterrito di ogni provvedimento contrario alla legge. E tutto questo disprezzo, tutta questa arroganza costituita non preoccupa affatto le stesse persone che appena uno studente alza la voce per una contestazione si indignano e sono pronte a battersi per le libertà, dei ministri o di qualche altra autorità.

Ci si chiede, anche con preoccupazione, come mai siano sempre più i giudici e le giudici a mettersi di traverso lungo il cammino del governo. Se questa non sia la coda di una lunga stagione di supplenza giudiziaria, se c’entri almeno un po’ la famosa «esondazione» delle toghe dai loro ambiti di cui parla Nordio.

Ogni prudenza è legittima visti i disastrosi esiti dell’opposizione giudiziaria in passato, non solo in Italia, e conoscendo i magistrati al di là della caricatura interessata che ne fa il governo. Ma probabilmente bisogna cercare una motivazione più profonda per capire perché i diversi provvedimenti del governo, diversi anche negli ambiti, finiscano regolarmente per impattare contro il muro delle sentenze. Bisogna cercarla nella portata della sfida in atto.

Il governo Meloni sta puntando al cuore dello stato di diritto, provando ad abbattere uno a uno i principi fondamentali che necessariamente trovano (ancora) una tutela nelle leggi e soprattutto nelle leggi superiori.
Tanto alta è la posta in gioco. Ed è quasi tutta riassunta in un solo disegno di legge, battezzato «sicurezza» senza troppo sbagliare, se la si vuole intendere come sicurezza del governo e delle polizie, non dei cittadini.

L’ampiezza della mobilitazione che abbiamo visto in campo in queste settimane e che aspettiamo oggi a Roma, la larghezza del fronte – politico e sociale, non giudiziario – che vuole fermare il disegno di legge, dice quantomeno che la minaccia è avvertita ben chiara. E che si può provare a resisterle.

Commenta (0 Commenti)