LA SCIENZA E GAZA. Intervista al fisico: «La tattica di accusare di antisemitismo chi critica il governo di Israele sta alimentando il razzismo, perché trasforma una questione politica in una questione razziale»
Lo striscione al rettorato della Federico II di Napoli - Ansa/ Ciro Fusco
Il fisico Carlo Rovelli ha preso posizione a favore degli studenti e dei ricercatori che hanno chiesto alle università e al Cnr di sospendere le collaborazioni con Israele nelle ricerche a uso duale, con ricadute sia in campo civile che militare.
Il dibattito sul valore sociale della ricerca scientifica è antico quanto la ricerca stessa. Scienza e potere si sono spesso aiutati a vicenda, almeno da quando Archimede costruiva armi per difendere Siracusa dai Romani e da allora il dibattito non si è esaurito, come mostrano le polemiche intorno alle scelte dell’università di Torino e Pisa nei confronti delle collaborazioni con il governo israeliano. Rovelli è attualmente nel New Mexico, e da lì risponde al manifesto.
Professore, è possibile una scienza separata dal potere, che non imponga quesiti etici agli scienziati?
Spero proprio di no. Penso che qualunque attività porti a domande etiche e politiche. La scienza non è diversa dal resto.
Però la ministra Bernini ha descritto la ricerca scientifica come un dialogo tra diversi, persino tra democrazie e dittature, che non contempla sanzioni internazionali. Lei lo conosce bene: è davvero un mondo così separato dall’attualità da non poter prendere posizione?
La ministra è favorevole a condividere la ricerca militare Italiana con l’Iran? Il mondo scientifico che frequento non riconosce confini: fra i miei collaboratori e amici ci sono cinesi, russi, iraniani e israeliani. Ma questo non impedisce scelte politiche e etiche. Fra chi è favorevole a un boicottaggio ci sono anche israeliani. Essere aperti al mondo non implica si debba collaborare a ogni massacro.
Oltre i nostri confini, c’è una discussione tra accademici sull’opportunità di collaborare con il governo israeliano nella condizione odierna, o è una peculiarità italiana?
C’è la stessa discussione in molti paesi. Penso che ogni amico di Israele, e chi, come me, ama profondamente il mondo ebraico, debba fare il possibile per fermare il massacro in corso che, ahimé, sta facendo rivoltare di indignazione e rabbia contro Israele il mondo intero.
Anche all’estero questo comporta accuse di antisemitismo?
Mi permetta di dire una cosa che credo importante, e vorrei fosse più riconosciuta. La clava dell’accusa di antisemitismo viene brandita a ogni piè sospinto dal governo israeliano contro chiunque lo critichi. Questo è profondamente controproducente per il mondo ebraico, perché trasforma una questione politica e etica in una questione di presunta razza e religione. Leggere il mondo e i suoi inevitabili conflitti, le sue inevitabili gravi divergenze di idee, come conflitti fra razze e religioni: questo è esattamente il razzismo. È esattamente di questo che si alimenta l’antisemitismo. Catalogare le persone per razza, invece che per quello che fanno. La tattica di accusare di antisemitismo chi critica il governo di Israele sta alimentando il razzismo, perché trasforma una questione politica in una questione razziale. Fra i miliardi di persone che oggi chiedono al governo israeliano di fermarsi, c’è una parte molto importante del mondo ebraico.
Fanno discutere le collaborazioni tra scienziati e militari per le ricadute geopolitiche internazionali. Ma quella tra università e enti di ricerca con l’industria militare italiana viene raramente messa in discussione. È una contraddizione?
Esiste una vivace protesta di molti studenti contro la collaborazione, purtroppo crescente, tra università, enti di ricerca e l’industria militare italiana. Ma sono due questioni diverse. Il peso dell’industria militare nello spingere l’attuale forsennata corsa agli armamenti nel mondo intero è un problema serio: per aumentare i suoi profitti, l’industria militare ci sta spingendo verso il baratro di un conflitto globale. Ma il massacro in corso a Gaza è una questione di urgenza immediata, che chiede impegno rapido.
Un’inchiesta giornalistica israeliana e ripubblicata dal manifesto ha svelato l’uso dell’intelligenza artificiale da parte dell’esercito israeliano nel conflitto. La colpisce?
No, sarebbe strano non la utilizzasse. L’intelligenza artificiale è usata anche nelle lavatrici.
20 secondi per uccidere: lo decide la macchina
Ma nel dibattito sul significato di ricerca «dual use» questa rivelazione apre un nuovo problema etico?
La questione urgente, secondo me, non è cavillare su sottili disquisizioni etiche. Sono stati massacrati israeliani e 30mila palestinesi, e il massacro di palestinesi sta continuando. Ogni piccola pressione politica è utile. Alle Nazioni Unite il Belgio, che non è proprio estremista, ha votato una mozione che accusa il governo israeliano di possibili crimini contro l’umanità. Disquisire su dettagli sul “dual use” significa allontanare la discussione dall’urgenza grave.
Il manifesto ha lanciato una grande manifestazione per il 25 aprile a Milano, affinché non sia solo una commemorazione ma anche una mobilitazione contro la destra sovranista ed estremista che sta conquistando spazio in Europa. C’è un legame tra la lotta contro le destre e la mobilitazione per la pace?
Vorrei che ci fosse. Purtroppo non c’è. La maggioranza della sinistra dei paesi occidentali, compreso il nostro, è più bellicosa della destra. Penso che questa bellicosità sia più pericolosa per il pianeta che non questioni di appartenenze politiche.
Si potrebbe tornare a Milano il 25 aprile
Però negli Usa la base del partito democratico chiede a Biden, in cambio del voto, un diverso indirizzo sul Medio Oriente e la destra italiana (o europea) fa dell’allineamento internazionale occidentale un pilastro della sua legittimazione. Davvero non conterà l’esito delle elezioni europee o di quelle statunitensi?
C’è la stessa viva discussione fra chi fomenta la guerra e chi chiede pace tanto all’interno della destra che all’interno della sinistra. Non raccontiamoci la frottola che oggi la destra sia bellicosa e la sinistra pacifista. Non è vero. Piuttosto impegniamoci perché diventi vero. Spingere la sinistra a farsi portatrice del valore della pace: che non significa prima sterminare i nemici e vincere tutte le guerre
FRAMMENTI. Si chiama "Lo sviluppo e il divenire. Nota sull’autopropulsione sociale", il libro fuori commercio di 75 pagine di Giuseppe De Rita, fondatore e animatore del Censis. Sociologia economia filosofia insieme, in una combinazione a tratti provocatoria, per parlare di noi, dell’Italia e del mondo, in un’epoca di continue e immani trasformazioni
Mario Sironi - Paesaggio urbano con camion - 1920-23
È un piccolo libro fuori commercio di 75 pagine quello che Giuseppe De Rita, fondatore e animatore del Censis – cui forse si può richiederlo: è il centro di studi che ha illustrato, cantato o criticato per più di cinquant’anni le trasformazioni della nostra società, le più appariscenti come le più profonde – ha dato alle stampe, fuori commercio. Si chiama Lo sviluppo e il divenire. Nota sull’autopropulsione sociale. Sociologia economia filosofia insieme, in una combinazione a tratti provocatoria, per parlare di noi, dell’Italia e del mondo, in un’epoca di continue e immani trasformazioni.
«Pensare è faticoso», dice l’autore nella premessa, perché «è andare oltre le evidenze dell’attualità, combinare la memoria del passato con l’incertezza del futuro, sondare il non immediatamente apparente», ma De Rita è tra i pochi che ci sembrano autorizzati a farlo, per la costanza della sua ricerca, anno dopo anno, nel grande e nel piccolo delle trasformazioni, e per la solidità delle sue affermazione, per la rara virtù della sua «immaginazione sociologica», basata su dati e su fatti, su una reale conoscenza delle cose e del loro movimento. Oso dire che questo testo è tra i pochi eredi dei grandi sociologi e filosofi che in tempi diversi hanno saputo «leggere la società» e mettere in guardia sulle sue trasformazioni. È in grado di tener testa a quasi tutta la produzione intellettuale corrente, con poche eccezioni al suo livello, che so? i Cacciari, gli Agamben… ma avendo su di loro il privilegio di una conoscenza dei meccanismi di sviluppo e cambiamento della nostra società che nessuno sembra avere chiari come lui, grazie al lavoro del Censis.
Nei confronti del Censis ho avuto in passato (e lo scrissi) delle perplessità, quando i suoi rapporti esaltavano lo sviluppo economico e, possiamo dire, autogestito di certe parti d’Italia, il Veneto, le Marche, l’Emilia… – non vedendone il controcanto, gli effetti negativi di uno sviluppo «egoistico» sul piano culturale, sul piano dei comportamenti sociali. Ci volle un grande pensatore e sociologo anarchico, l’inglese Colin Ward, in un suo viaggio in Italia, a tirarmi le orecchie: le fabbrichette e le piccole imprese che fiorivano in quelle regioni erano un segno di creatività e autonomia e vitalità popolari – e non era un caso se la grande industria le osteggiava con i suoi giornali, e non era un caso che in parte lo facessero anche i sindacati e il Pci, che non erano più in grado di controllarle. (Ricordo che ad avermi messo qualche dubbio fu anche sapere che Rossanda era sua amica, o così si diceva).
Col tempo ho apprezzato sempre di più il lavoro del Censis, che ci offre ogni anno un quadro veritiero del nostro paese non solo sul piano dell’economia, della produzione, ma mettendo in luce le componenti migliori dello sviluppo, i nuovi rapporti sociali che potevano conseguirne… Il fondo religioso del pensiero di De Rita – cattolico praticante – non mi sembra possa più sconcertare nessuno, oggi che il fallimento di uno «sviluppo senza progresso» è diventato evidente, di uno sviluppo senza basi etiche e concretamente comunitarie: il tipo di sviluppo che criticò assieme a De Rita anche Pasolini e con loro criticarono molti altri, ovviamente non solo in Italia.
«Pensare certo è faticoso», ci ricorda De Rita, «perché occorre andare oltre le evidenze dell’attualità, combinare la memoria del passato con l’incertezza del futuro, sondare il non immediatamente apparente». Ma De Rita sa farlo ed è oggi uno dei pochi che prova a dipanare seriamente la matassa delle novità economiche, sociologiche, tecnologiche, culturali ricordandoci che «se vivere nel divenire sociale è il nostro compito e destino, dobbiamo farlo camminando con vigore e passo lungo», e cioè con qualcosa che la cultura dominante trascura più che mai, annaspando al seguito delle mode, delle trasformazioni volute e proposte dal capitale per meglio usarci e controllarci. Si può discuterne, ma si tratta di un confronto fondamentale
Commenta (0 Commenti)FLOTTA CIVILE. La sera del prossimo 25 aprile termineranno i venti giorni di fermo amministrativo inflitti, insieme a una multa fino a 10mila euro, alla nostra nave Mare Jonio da parte del […]
La sera del prossimo 25 aprile termineranno i venti giorni di fermo amministrativo inflitti, insieme a una multa fino a 10mila euro, alla nostra nave Mare Jonio da parte del governo Meloni in applicazione del famigerato decreto legge Piantedosi, come rappresaglia per la missione di soccorso compiuta lo scorso 4 Aprile nel Mediterraneo centrale. Sulla base delle norme inventate quindici mesi fa per colpire, ostacolare, impedire l’attività in mare delle navi di soccorso della flotta civile, il governo vuole infatti far pagare a Mediterranea il fatto di aver strappato dalle mani della cosiddetta guardia costiera libica, con un coraggioso intervento del nostro equipaggio, 56 persone il cui destino doveva essere la cattura e la deportazione, di nuovo, verso i campi di prigionia in Libia, l’orrore da cui stavano fuggendo.
Ma vogliono anche farci pagare la scelta di essere in mare, insieme alle altre Ong, a documentare, testimoniare, denunciare le quotidiane e sistematiche violazioni dei diritti umani di cui le milizie libiche (e ormai anche i militari tunisini) si rendono responsabili in nome e per conto dei loro padrini e finanziatori italiani ed europei.
Perché sono proprio le politiche di gestione delle frontiere esterne, da parte dei governi italiani e delle istituzioni europee, ad aver trasformato in questi anni le rotte del Mediterraneo centrale in una zona di guerra, di una guerra a più «bassa intensità», ma comunque guerra contro gli esseri umani, frammento di una globale e asimmetrica guerra civile. Civile in quanto le popolazioni civili ne sono il primo bersaglio e le principali vittime.
Una guerra, civile e globale, che negli ultimi tempi ha assunto una nuova e terribile, pervasiva dimensione, in cui ogni linea rossa di rispetto del diritto internazionale ad bellum e in bello è stata valicata, in cui ogni soglia del terrore e dell’orrore è stata oltrepassata, in cui sembra non esservi fine al perverso gioco del domino dell’estensione e dell’escalation. In Siria come in Afghanistan, in Sudan come in Chad, in Ucraina come a Gaza. Nel Mediterraneo centrale (e prima ancora nel deserto del Sahara e nelle città libiche e tunisine) la sua «bassa intensità» significa comunque migliaia di morti ogni anno e decine di migliaia di donne, uomini e bambini, respinti ai confini europei, e vittime di violenze e abusi, torture e stupri.
Ed è là, in questo mare che si esercita, dal 2018, la nostra piccola e parziale, ma tenace resistenza, nella pratica del soccorso in mare come sostegno alla disperata e coraggiosa, quotidiana lotta delle persone migranti per affermare nei fatti il fondamentale diritto alla libertà di movimento e alla speranza, alla ricerca di un futuro diverso e migliore della condizione nella propria terra d’origine, là dove è stato negato loro il diritto a restare.
Resistenza che significa diserzione. In questo caso diserzione alla guerra contro l’umanità condotta dalla politica migratoria dei nostri governi. Ed è per questa scelta di diserzione che, sui diversi teatri della guerra civile globale, la guerra all’umanità diventa sempre più spesso, anche, guerra all’ «umanitario», là dove chi opera per e con le popolazioni civili diventa esso stesso un target, un obiettivo da colpire con i missili dei droni. O con le raffiche di mitra dei miliziani libici in mare, in un crescendo di violente aggressioni che, negli ultimi sei mesi, hanno messo nel mirino, sempre più spesso, diverse navi della flotta civile.
Ma la diserzione dalla guerra civile globale, sia essa a «bassa» o «alta intensità», è forse oggi l’unica concreta possibilità per provare a disegnare un orizzonte di liberazione: in questo caso liberazione di donne, uomini e bambini dall’assurda violenza esercitata, prima, durante e dopo, dai confini, in mare come in terra.
Ed è per questo che il 25 aprile saremo in piazza a Milano accogliendo l’appello del manifesto, fisicamente e con un collegamento dalla nave Mare Jonio, in attesa di essere liberata e pronta a tornare là dove deve stare.
*Presidente di Mediterranea Saving Humans
Commenta (0 Commenti)PARTITO DEMOCRATICO. Il Pd è rinnovabile? Il M5S è compatibile? Un cacicco è per sempre? Precipitata nel labirinto degli specchi pugliese dove nulla è come appare, Elly Schelin deve uscirne trovando il […]
Il Pd è rinnovabile? Il M5S è compatibile? Un cacicco è per sempre? Precipitata nel labirinto degli specchi pugliese dove nulla è come appare, Elly Schelin deve uscirne trovando il modo di riportare a casa non solo la sua leadership fino alle prossime, lontanissime elezioni politiche.
Ma anche affrontando i nodi che con la sua ascesa alla guida del Pd si era prefissa – e con una buona dose di caparbietà, di fronte al tiro incrociato immediatamente scattato nel partito – di sciogliere o tagliare di netto. Le ultime settimane Schlein le ha passate sulle montagne russe: la vittoria in Sardegna aveva aperto prospettive inedite al campo “largo”, “progressista”, “giusto” o che quel che sarà (e già questa indefinitezza imposta da un Giuseppe Conte apparentemente pronto a cementare l’alleanza era più che sospetta).
La sconfitta in Abruzzo aveva frenato gli entusiasmi e rianimato i nemici interni della segretaria e dell’asse giallo-rosso, ma non troppo. L’Helzapoppin’ della Basilicata aveva gettato nello sconforto, ma in fondo poco male, il candidato unitario in extremis è stato trovato e l’incredibile vicenda è stata sepolta tra i brutti ricordi al punto che i leader sembrano anche essersi dimenticati che in quella regione si voterà tra due settimane. E poi, ecco Bari, la città del sindaco più amato, la Puglia della “primavera” (e, coincidenza, la Puglia di Giuseppe Conte), dove dopo vent’anni di governo del centrosinistra tutto precipita e l’idea del rinnovamento del Pd torna a essere una chimera e l’alleanza con i 5 Stelle un simulacro.
La Puglia come metafora di un partito irrisolto e senza linea non perché ha troppe linee che confliggono tra loro, ma perché nato per essere un partito di governo è subito diventato partito di potere. E di potentati: in Puglia ma anche in Campania, in Toscana, nel Lazio… Sono sempre lì i cacicchi e i capibastone che la segretaria diceva di non voler più vedere, i collettori di voti pronti a indirizzare i loro pacchetti in base alle convenienze o a usarli come armi di deterrenza, il trasformismo che cresce di pari passo con l’accresciuto potere dei moltiplicatori di pani e di pesci. La segretaria per questo motivo si è opposta con nettezza alla cancellazione del tetto dei due mandati e sta cercando di costruire – con fortissime resistenze – liste per le europee che con alcune candidature civiche e la sua stessa presenza dovrebbero rianimare lo spirito dei gazebo che la hanno portata alla guida del Pd.
Ma il rinnovamento non si fa con una manciata di nomi, per quanto di prestigio. Si fa nei famosi territori, che vanno battuti e disossati palmo a palmo. E costruendo anche alleanze virtuose prima di tutto dentro al partito, aprendo porte e finestre. Con gli “inner circle” non si va lontano.
Quanto alla possibilità, passata la buriana e scavallate le europee, di costruire una alleanza con il movimento 5 Stelle, al momento sembra quasi lunare. Il leader dei 5S ha sferrato un colpo basso proprio alla segretaria del Pd, con l’azzeramento delle primarie come dato di fatto (poco importa quando e con una conversazione quanto lunga Conte lo abbia «comunicato» a Schlein). E l’argomento di averlo fatto in nome della legalità è chiaramente capzioso, visto che sul motivo per cui i 5Stelle non abbiano contestualmente deciso di uscire dalla giunta e dalla maggioranza della regione Puglia, Conte si rifiuta di rispondere.
Il leader just in time ha deciso di riconvertirsi in fretta per capitalizzare i guai del Pd alle europee, sognando il sorpasso. Comunque andrà quel voto, dopo sarà comunque più difficile ricucire lo strappo, ammesso che l’ex premier lo voglia. E la Sardegna potrebbe restare a lungo un caso isolato, un’isola felice dove è stato costruito un sodalizio politico senza sgambetti, avendo chiaro in testa qual era l’obiettivo comune: battere la pessima destra al governo della regione. A farlo sono state soprattutto due donne, Elly Schlein e Alessandra Todde. Sarà un caso?
Commenta (0 Commenti)Stop alla vendita di armi a Israele, ripristino dei fondi all’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, impegno a votare in ogni sede (che sia l’Onu o l’Ue) a favore del cessate il fuoco a Gaza: sono le richieste contenute nella denuncia presentata dall’avvocato palestinese Salah Abdel Ati contro l’Italia, per complicità nei crimini commessi da Israele a Gaza.
Sfollato più volte dal nord al sud dell’enclave palestinese e infine costretto a rifugiarsi in Egitto, ha perso sei membri della sua famiglia in un raid israeliano sulla casa della sorella a Nuseirat. E ha perso la sua casa, a Beit Lahiya, distrutta in un altro bombardamento.
Ne abbiamo parlato con Stefano Bertone, membro del team legale che rappresenta Abdel Ati nella causa mossa alla presidenza del Consiglio e ai ministeri di difesa ed esteri.
Avete presentato ricorso d’urgenza al Tribunale di Roma.
Il ricorso d’urgenza si utilizza nei casi in cui è necessario un intervento immediato. Non c’è causa nel merito ma un’anticipazione della causa. Le uccisioni di membri della famiglia di Abdel Ati sono purtroppo già compiute, non rappresentano un’urgenza. Ma Salah ha altri familiari a Gaza che sono a rischio: il giudice può evitare che le conseguenze dell’illecito raggiungano livelli ancora peggiori. Inoltre Salah è stato costretto a lasciare le sue terre e intende tornarci, deve poterlo fare in sicurezza. Immaginiamo di trovarci al suo posto, senza più casa, famiglia, lavoro. Ai palestinesi è stato tolto tutto e non deve più succedere.
Il Tribunale è tenuto a rispondere subito?
È tenuto a rispondere in pochi giorni e può non sentire le parti citate in giudizio. Il presidente del tribunale ha assegnato il fascicolo alla sezione Immigrazione e Diritti della personalità che venerdì scorso lo ha rimandato indietro dicendosi non competente in materia e suggerendo la sezione Risarcimenti danni, competente in questo caso per le misure cautelari.
Che effetti potrebbe avere l’eventuale accoglimento?
Influirebbe nell’immediato, almeno in modo parziale, perché esiste una responsabilità solidale nella commissione del crimine: c’è chi lo compie sul campo, in questo caso Israele, e chi fornisce sostegno logistico, militare e politico, come l’Italia. Il Tribunale ha in mano un pezzo del futuro di Salah.
Non è una questione simbolica, dunque, ma concreta.
Guardate cosa è successo in Olanda: un tribunale ha bloccato la vendita di pezzi di ricambio degli F35 destinati a Israele. Ora non ne arrivano più e il governo è stato costretto a fare ricorso. Se accadesse lo stesso in Italia, se il tribunale ordinasse di interrompere la vendita di armi e di ripristinare i fondi all’Unrwa, il governo dovrà attenersi a tale ordine. La decisione è vincolante. Il governo potrebbe ricorrere in appello ma nel frattempo la sentenza sarebbe esecutiva. Una simile decisione avrebbe un valore ancora maggiore se si pensa che l’Italia è il terzo fornitore di armi a Israele. Sebbene si tratti di quantità inferiori a quelle in arrivo dagli Stati uniti, una sentenza potrebbe attivare tribunali in altri paesi. Avrebbe degli effetti anche il ripristino dei fondi all’Unrwa: l’Italia è uno dei pochi paesi a non averli ancora reintegrati e non farlo ha delle conseguenze, è come staccare la spina a una macchina salva-vita. E chi la stacca ne paga le conseguenze legali.
Quanto incide sulle sentenze di tribunali nazionali la decisione della Corte internazionale di Giustizia del 26 gennaio scorso che ha parlato di genocidio plausibile a Gaza?
La prima decisione della Cig del 26 gennaio e la seconda del 28 marzo hanno segnato un punto di svolta: i ricorrenti non devono più dimostrare che esiste un genocidio plausibile a Gaza. Lo ha fatto il Sudafrica e la Corte ha accettato il caso, un precedente vincolante anche per il giudice italiano perché emesso dal più alto tribunale del mondo. Le due ordinanze, aprendo ad azioni di tribunali in tutto il mondo, hanno già avuto effetti in Olanda, in Australia, ora forse in Italia. Accade perché le corti nazionali sono attori del diritto internazionale: il Tribunale di Roma è responsabile di rappresentare l’Italia e di garantire che si conformi alle Convenzioni di Ginevra e alla Convenzione sul genocidio, di darne corretta interpretazione e applicazione. Oltre alla difesa del popolo palestinese, il Sudafrica ha agito anche per pretendere che ci sia una rigida applicazione del diritto internazionale. È lo stesso motivo per cui stiamo agendo anche noi
BARI. Intervista a Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana
Attuale leader di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni è stato segretario di Rifondazione in Puglia ormai vent’anni fa e dal 2010 assessore nelle giunte di Nichi Vendola. Dunque, conosce il territorio in cui arresti e indagini stanno colpendo la politica regionale. «Le inchieste si osservano e si rispettano – ci dice – Queste inchieste sono diverse tra loro, ma segnalano un problema: la vivacità di un mondo criminale che punta ai infiltrare la politica. Non è una novità, e la politica ha il dovere di combattere questi tentativi, di essere argine e parte attiva nella lotta alla criminalità, come ha come ha fatto in questi anni l’amministrazione De Caro».
Sembrava che le mafie avessero fatto un passo indietro da questo punto di vista…
Il fatto che ci sia stato anche attivismo della politica contro le infiltrazioni mafiose non autorizza ad abbassare la guardia. Anzi, deve spingere a un presidio più attento e a una pratica politica che ricacci indietro ciò che rende permeabili alla criminalità: il trasformismo e il cambio di casacca. Di questo occorre discutere. Ora se ne parla in Puglia, ma è un problema generale di cui occuparsi sempre.
Cosa ne pensa del modo in cui Giuseppe Conte giovedì scorso ha annunciato il ritiro dalle primarie?
Quando si assumono decisioni ognuno è libero di farlo, ma nell’ambito di una coalizione. In un contesto come questo bisognerebbe discuterne con gli alleati e le altre forze protagoniste della vicenda. Magari schierarsi per la sospensione delle primarie era anche una scelta opportuna, che in quanto tale toccava a Laforgia. Ma in questi passaggi un elemento comune di decisione sarebbe stato necessario.
Come se ne esce?
Nell’unico modo possibile, che peraltro sta nella storia di questi anni di riscatto della città. Se ne esce testardamente ricercando una soluzione unitaria. E mi rivolgo in particolare ai candidati, Vito Leccese e Michele Laforgia, perché si incontrino e trovino loro una soluzione. Loro sono sostenuti dalle forze politiche ma nessuno di loro è proprietà della forze politiche che li hanno sostenuti. Sono loro che si candidano, con le loro facce e le loro storie per svolgere questo lavoro complesso. Dunque è da loro che deve venire una risposta. Nulla c’è di peggio di una rottura che favorisca la destra. Io sono pronto in qualunque momento a sottoscrivere una proposta di soluzione. I due candidati devono farlo, per loro stessi e per i cittadini di Bari.
Alleanza Verdi Sinistra potrebbe svolgere un ruolo di cerniera, visto che Europa Verde sta con Leccese e Sinistra italiana con Laforgia.
Non sarebbe la prima volta che esercitiamo questo ruolo, io e Angelo Bonelli. Da mesi nella sua autonomia Avs si è distinta per il fatto di richiamare alla necessità non di un vago generico senso di responsabilità ma nell’invitare a farci tutte e tutti parti responsabili nella costruzione dell’alternativa alle destre. L’impressione più generale è che questo campo largo si incrini a ogni refolo di vento. C’è debolezza e immaturità. C’è assenza di codici di comportamento e di regole comuni. Ma dall’altra parte possiamo costruire elementi di riscatto come è avvenuto in Sardegna o di convergenza come avvenuto sul salario minimo e come spero accadrà sarà sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Ci sono tutte le possibilità di indicare una svolta. Si tratta di definire fino in fondo la necessità di farlo. È inevitabile sennò che ci si incarti.
Con la candidatura a capolista di Ignazio Marino alle europee provate ad allargare il perimetro?
È una candidatura di grande profilo. Prima ne avevamo annunciate due altrettanto importanti, quelle di Mimmo Lucano e Massimiliano Smeriglio. Marino sta nel profilo della nostra proposta politica: radicalmente pacifista, ambientalista, attento ai temi sociali e ai diritti civili. La sua candidatura che risponde alla vocazione di Avs: non siamo la riproposizione di qualcosa che c’è stato o una sommatoria di forze. Rappresentiamo un punto di vista autorevole, radicale nei contenuti e ambizioso sul merito. Perché è radicale la crisi che attraversiamo, ma non abbiamo paura di confrontarci con storie e linguaggi che non corrispondono all’album di famiglia delle nostre culture politiche. Da questo punto di vista puntiamo a crescere, sul piano dell’autorevolezza e della pluralità delle figure che abitano Avs