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L'ATTENTATO A MOSCA. Il terrorismo fabbrica attentati ed eventi che si muovono al confine tra la realtà più sanguinosa e la manipolazione più destabilizzante. Per questo non è decifrabile come un conflitto aperto: […]

Un militare russo protegge un'area mentre un enorme incendio divampa al Crocus City Hall, a Mosca, a seguito di un attacco armato foto Ap

Il terrorismo fabbrica attentati ed eventi che si muovono al confine tra la realtà più sanguinosa e la manipolazione più destabilizzante. Per questo non è decifrabile come un conflitto aperto: il messaggio può apparire chiaro, gli autori noti, le motivazioni apparenti pure, ma le conseguenze e le vere ragioni si valutano con il tempo.

Chi poteva immaginare che dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979 gli Stati uniti e i loro alleati avrebbero utilizzato i jihadisti contro Mosca? Questi erano degli islamisti radicali, nemici della cultura occidentale. Eppure Osama bin Laden con Al Qaeda per anni è stato un alleato degli Usa, del Pakistan e dell’Arabia saudita prima diventare l’ispiratore dell’11 settembre, epoca in cui – con una giravolta della storia – gli interessi americani e quelli russi si erano saldati di fronte al comune nemico rappresentato dai jihadisti.

Le ambiguità nelle vicende terroristiche sono molteplici. Il fondatore dell’Isis Al Baghdadi è stato nelle carceri americane in Iraq da dove venne liberato dalle stesse autorità Usa passando dalla porta principale. Lo stesso Califfato, che poi colpì anche in Turchia, è stato un interlocutore dei servizi segreti di Ankara per contrastare i curdi siriani – nostri alleati contro il Califfato – ed Erdogan l’unico leader della Nato a trattare direttamente con i jihadisti. Forse ce lo siamo dimenticati.

Il terrorismo deve sorprendere, anche quando lascia spazio agli apprendisti stregoni che pensano di usarlo. L’allora generale Lloyd Austin, oggi capo del Pentagono, nel settembre 2015 ci informò del fallimento Usa nel reclutare in Siria e Giordania con 500 milioni di dollari dei «combattenti» arabi e di altre nazionalità da usare contro l’Isis anche contro l’autocrate Assad: di 5mila ne rimasero soltanto 5, gli altri erano scappati vendendo le armi a chissà chi. Di queste contraddizioni la guerra in Ucraina ne è già stata un esempio con l’attentato al ponte di Kersch e ancora di più con quello al gasdotto offshore North Stream: prima che le inchieste giornalistiche americane ci rivelassero come probabile autori del gesto la pista ucraina e occidentale, si sosteneva che a farlo erano stati i russi stessi.

Oggi la scena internazionale è ancora più complicata di prima perché il terrorismo – se questo è uno dei suoi obiettivi – si vuole inserire come un attore tra i conflitti locali e il più ampio e pericoloso scontro di potenze scatenato dall’invasione russa dell’Ucraina. Come ha dimostrato l’invasione sovietica dell’Afghanistan del ’79 si aprono nuovi e imprevedibili scenari.

Anzi con il conflitto ucraino, al quale si è aggiunto quello di Gaza – nel cuore di quel Medio Oriente dove l’Isis è nato – le organizzazioni jihadiste hanno largamente approfittato della situazione per tessere le loro trame dal Sahel all’Afghanistan fino all’Asia, come scriveva l’ultimo numero di Le Monde Diplomatique. Ci possiamo chiedere, soprattutto, quando i jihadisti interverranno in questa guerra di Gaza dove sono già stati uccisi 1200 israeliani e 32mila palestinesi. Quasi ci stupisce che dopo sei mesi non l’abbiano già fatto visto che gli spetterebbe «per competenza.

Eppure anche qui ci hanno in parte sorpresi. Quando si sono fatti vivi in Medio Oriente i terroristi dell’Isis Korassan (Isis-k) hanno colpito in Iran, ovvero uno dei maggiori sponsor proprio di Hamas e dei palestinesi della Striscia. L’Iran tra l’altro è uno dei più importanti alleati anche militari della Russia, oltre che il nemico più temuto da Israele. Il 3 gennaio scorso i terroristi dell’Isis-K hanno rivendicato un attentato con oltre 100 morti a Kerman nel sud-est dell’Iran durante un cerimonia in omaggio del generale Qassem Soleimani, ucciso a Baghdad nel 2020 da un drone americano. Soleimani aveva combattuto a fianco di Assad e delle milizie sciite per fermare l’avanzata dell’Isis in Iraq.

Sui canali Telegram, l’Isis-K aveva specificato che questa azione – la quarta in Iran dal 2017 – era stata portata termine in occasione «di un grande raduno di apostati – gli sciiti – a sostegno dei musulmani, in particolare in Palestina». L’Isis come Al Qaeda ha fatto sempre più vittime tra i musulmani, nel caso gli sciiti, che tra gli occidentali. Che l’Isis-K faccia fuori i seguaci del loro nemico Soleimani è logico, un po’ meno che colpisca l’Iran uno dei maggiori finanziatori di Hamas che loro vorrebbero vendicare dalla furia israeliana. Seguire le logiche del terrorismo come si vede non sempre porta a spiegazioni razionali, se non quella che all’Isis interessa di più colpire i suoi nemici «storici» come l’Iran e la Russia che fare un gesto clamoroso filo-palestinese che forse (speriamo di no) riserveranno all’ Europa o da qualche altra parte.

Ma la memoria è corta e le spiegazioni non sempre convincenti. Può sembrare infatti poco credibile che Putin accusi l’Ucraina per l’attentato al teatro di Mosca. In realtà il Cremlino non ha nessuna intenzione di acuire le tensioni con le popolazioni musulmane della Federazione dopo gli anni della guerra in Cecenia, delle stragi in Tagiskistan e della guerra in Siria. Ha bisogno di reclutare soldati e di un fronte interno compatto mentre l’azione dell’Isis mette fortemente in dubbio che abbia vinto la guerra contro gli islamisti radicali dell’Asia centrale del Caucaso mentre i suoi servizi di intelligence hanno mostrato un crepa clamorosa.

Il terrorismo non contempla, per lungo tempo, sentenze definitive e oggi quella bandiera nera dell’Isis, che ho visto sventolare tante volte tra Siria e Iraq, appare ancora più di prima come un oscuro e tenebroso sipario sul destino dei popoli e delle nazioni

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ISRAELE/EUROPA. Il clima da caccia alle streghe in Germania continua a peggiorare. Nel mirino anche uno dei più noti studiosi israeliani esperto di Olocausto, sotto accusa per le sue critiche a Israele

Moshe Zuckermann Moshe Zuckermann

Il livello di paranoia in Germania è surreale: qualsiasi critica nei confronti di Israele costituisce antisemitismo, la lotta contro l’antisemitismo è stata snaturata in sostegno acritico a Israele e alle politiche del suo governo.

DOPO YUVAL ABRAHAM alla Berlinale, ora tocca a Moshe Zuckermann, sociologo e professore emerito di storia e filosofia dell’università di Tel Aviv, firmatario della Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo nata in risposta alla definizione adottata nel 2016 dall’Ihra che include undici «esempi» di antisemitismo, sette dei quali incentrati sullo Stato di Israele, generando – secondo i firmatari della dichiarazione – confusione e controversie e indebolendo perciò la stessa lotta contro l’antisemitismo.

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Zuckermann era stato invitato dal Consiglio per la Pace di Heilbronn a un’iniziativa sulla situazione in Israele e Palestina organizzata con la locale Università Popolare (Vhs), presso la sede di quest’ultima. La Deutsch-Israelische Gesellschaft (Dig) ha condannato l’iniziativa affermando che l’oratore sarebbe un sostenitore del movimento Bds (Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni) e che quindi l’evento avrebbe violato la risoluzione del Bundestag del 2019 in cui si dispone che iniziative che invitano al boicottaggio di Israele o sostengono al Bds non possono ricevere sostegno finanziario di enti pubblici.

La critica della Dig ha portato a spostare l’evento in una sede più dimessa. Poi, la Vhs come «misura precauzionale» ha ritirato la compartecipazione e ritenuto addirittura necessario rivolgersi al ministero degli interni con la seguente richiesta di informazioni: «Voi o il vostro ufficio avete informazioni affidabili sul fatto che Z. sia un membro del movimento Bds o sostenga attivamente gli obiettivi perseguiti dal movimento Bds? Siete a conoscenza di dichiarazioni di Z. che abbiano dimostrato di essere uscite dall’area protetta della libertà di espressione e si siano trasformate in violazioni di interessi legali?».

A rispondere è il consigliere personale del Commissario del governo federale per la vita ebraica in Germania e la Lotta all’antisemitismo: «Zuckermann è effettivamente molto controverso a causa delle sue posizioni su Israele. (…) È stato invitato a parlare a un evento organizzato dal Bds nel 2022. Inoltre, sostiene che in Israele vige l’apartheid. Si tratta di una posizione che dovrebbe essere considerata antisemita secondo la definizione di antisemitismo approvata dal governo tedesco e definita dall’Ihra. Non c’è alcun divieto di invitare persone così controverse. Allo stesso tempo, però, lo scambio democratico implica anche che un tale invito debba essere accolto da critiche altrettanto intense».

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IN UNA PRESA di posizione pubblica in risposta all’accaduto, Zuckermann rileva: «Ora posso vantarmi di essere stato ufficialmente dichiarato antisemita dal governo tedesco». Ma, afferma, «sono le mie posizioni su Israele, non sugli ebrei o sull’ebraismo, a rendermi controverso tra gli amici di Israele. Sono un cittadino israeliano e, come ogni cittadino responsabile, ho non solo il diritto ma anche il dovere civico di prendere posizione contro lo Stato in cui vivo. Questo include, se necessario, posizioni critiche che potrebbero non essere accettabili per la Dig o per il commissario per l’antisemitismo. Il fatto che il governo tedesco si sia impegnato a rispettare la definizione dell’Ihra è un suo diritto. In nessun caso dovrebbe però usare questa precaria definizione come strumento per la lotta all’antisemitismo. Non solo non combatte l’antisemitismo reale nella società, ma produce anche l’oltraggiosa assurdità formulata contro di me».

Zuckermann conclude auspicando che la «critica intensa» si informi finalmente su quanto sta accadendo in Israele soprattutto nell’ultimo anno e prenda posizione sulla barbarie dell’occupazione che Israele pratica da oltre mezzo secolo in violazione del diritto internazionale. «Perché se questo è tutto ciò che la tanto decantata ‘elaborazione del passato’ tedesca ha raggiunto, allora è davvero in uno stato pietoso».
***
Per consultare il testo originale completo dell’intervento di Moshe Zuckermann:
https://overton-magazin.de/top-story/in-nicht-nur-eigener-sache/

 

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prof. Francesco Strazzari

Dove andava, dalla foresta di Bryansk dove è stata intercettata, la Renault con cui il presunto commando jihadista, con le mani ancora insanguinate, ha lasciato la scena della carneficina? Secondo Mosca, da Bryansk si va in Ucraina, dove erano attesi. Non è chiaro come, considerato che si tratta di un confine di guerra fortemente militarizzato. Secondo gli ucraini, siamo invece in prossimità della Bielorussia, allineata a Mosca: un confine assai più tranquillo per un’auto «con targa bielorussa».


Il copione è consolidato: da subito i media russi e social media filo-regime hanno gettato dubbi sull’autenticità della rivendicazione dell’Isis. Questo nonostante il comunicato seguisse modalità che in situazioni analoghe non hanno destato sospetti: la nota è apparsa con tempestività su Amaq, il canale usato sistematicamente da ISIS core.

Il quadro di plausibilità è rafforzato dall’impiego di modalità operative che ricalcano quelle messe degli inghimasi jihadisti in altri attacchi su vasta scala contro obiettivi civili. Contrariamente a una percezione diffusa, l’Isis ha più volte messo nel mirino la Russia, e non solo nelle repubbliche del nord Caucaso (Cecenia, Inguscetia e Dagestan), dove il jihadismo si è arroccato dopo la guerra che Vladimir Putin, per dotarsi di popolarità, scatenò conto l’autonomia cecena, insediando le milizie sanguinarie di Ramzan Kadirov, oggi presenti in Ucraina, mentre su fronte opposto filo-ucraino combattono anche, ma sparute, milizie dell’opposizione cecena.

L’ISIS ha rivendicato otto attacchi fra il 2016 e il 2019 sul resto del territorio della Federazione, mentre miliziani di nazionalità russa sono apparsi più volte nelle cellule di soldati del Califfato in altri paesi. Nell’estate del 2022 l’Isis ha colpito l’ambasciata russa di Kabul.

Alla deflagrazione della guerra russo-ucraina Daesh ha esultato per il carattere fratricida del conflitto, cristiani che si ammazzano fra loro. Anche in tempi recenti, con modalità più che discrete, l’antiterrorismo di Mosca è stato impegnato a sgominare cellule jihadiste. Allargando il campo, la Russia si è trovata e si trova ad affrontare Daesh in diversi quadranti in cui i jihadisti stanno riorganizzandosi, mentre la Provincia di Khorasan dello Stato Islamico ha recentemente colpito il suo alleato iraniano, con una strage fin sulla tomba del generale Suleimani. Teheran ha puntato il dito contro Israele, salvo poi correggere parzialmente il tiro.

È in atto un tentativo di gestire politicamente il pesante bilancio dell’attacco del Crocus City Hall, e lo smacco subito dall’apparato di sicurezza del regime (intervenuto in evidente ritardo senza che nessuno possa denunciarlo) trasferendolo sul conto del nemico preferito: ‘i nazisti ucraini’.

La destabilizzazione della verità è del resto un’attività su cui insistono le dottrine sovraniste della ‘democrazia gestita’, sin dalle prime formulazioni del grande burattinaio del primo Putin, poi profeta del Donbas separatista: quel Vladislav Sokurov che si distingueva fra gli oprichniki, il cerchio di cani da guardia dell’autocrate del Cremlino, ma che potremmo anche chiamare Aslambek Dudaev, secondo la verità alternativa di una sua nascita in Cecenia.

Fatto sta che la questione ‘estremisti jihadisti’ bolliva in pentola da un po’. Il 7 marzo scorso Washington aveva lanciato l’allarme pubblicamente, invitando i propri cittadini a non recarsi in luoghi affollati quali le sale da concerto della regione di Mosca.

Una condivisione pubblica che suona come un modo per mettere le mani avanti rispetto a qualcosa che è stato captato dall’intelligence ma su cui non si ha controllo. Per parte sua, rivolgendosi martedì ai vertici dei servizi di intelligence (Fsb), Putin aveva replicato sdegnosamente, rigettando il ‘ricatto’ e il ‘tentativo di intimidire e destabilizzare’. Significativamente si era riferito a come ‘il regime neo-nazista di Kiev’ con sostegno e istruzioni occidentali, avrebbe adottato ‘metodi terroristici’, colpendo le infrastrutture, inclusi gli ‘spazi pubblici’.

Aspettiamoci dunque una nuova ondata di commenti sulla falsariga di ‘l’Isis è un’operazione della Cia’: una campagna ormai più che decennale, nata quando, mentre i combattenti curdi, appoggiati dalla coalizione a guida statunitense, combattevano Daesh in Siria, la Russia offriva le proprie bombe ad Assad, il quale colpiva i civili ma risparmiava le basi dell’Isis, il nemico perfetto nel cinico calcolo di distruzione dell’insorgenza anti-regime.

E’ un dato di fatto che lo Daesh stia rilanciando la propria iniziativa, dal Sahel alle Filippine, passando per l’attacco portato venerdì al cuore dell’Emirato afghano (più di cinquanta vittime a Kandahar, dove i talebani si assiepavano per ritirare il salario). Segnali più o meno diretti del crescente attivismo si registrano anche in Iraq e Siria, dove le forze curde, che hanno il controllo su larga parte dei prigionieri fedeli al Califfato, sono sempre più sotto il fuoco della Turchia.

Questo tentativo di recuperare centralità e protagonismo globale, ingaggiando combattimento anche con la galassia qaidista, è in fase di dispiegamento, cerca di reclutare cavalcando le contraddizioni apertesi nel mondo islamico con l’azione sconsiderata di Israele a Gaza, e ha implicazioni difficili da prevedere. Riconoscere l’apertura di un fronte jihadista, per una Russia aggrappata al mito della forza dell’autocrate, ha un costo notevole, soprattutto rispetto all’imperativo strategico di produrre il massimo sforzo per oliare la macchina da guerra all’offensiva in Ucraina.

Consenso ed efficienza nei regimi autoritari sono spesso incognite. In un romanzo sull’amoralità del potere pubblicato sotto pseudonimo, il burattinaio Surkov descriveva la guerra non lineare del futuro, dove lo scopo non è vincere contro il nemico, ma gestire il processo bellico per destabilizzare la percezione pubblica, “confondendo le piste, oscurando la verità”.

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A 80 ANNI DALLE FOSSE ARDEATINE. Dall’anniversario dell’eccidio al 25 aprile una stagione di lotta nel segno della Storia. Perché ricordare abbia un impatto sul presente è necessario riconoscere il modo in cui il fascismo si mostra ora, nella sua elementare essenza: il nudo dominio di chi ha il potere su chi non ce l’ha. Come accade dall’era di Berlusconi in poi, al cuore di tali ricorrenze sta la domanda: da che parte stai?

 Scritte sui muri di Roma contro il rilascio di Herbert Kappler, comandante del SD e tra i responsabili del massacro delle Fosse Ardeatine Getty Images

Se l’Italia fosse davvero il paese immaginato nella sua lodata Costituzione, il monumento all’unità nazionale sarebbe a Roma, alle Fosse Ardeatine. In quelle cave di pozzolana c’è tutta l’Italia: furono uccisi italiani di tutte le regioni, da Trieste a Trapani, dal Piemonte alla Puglia, dalla Sardegna alle Marche. Furono uccisi uomini di tutte le classi sociali, dagli aristocratici piemontesi agli ambulanti del ghetto romano. Furono uccisi cristiani, ebrei, laici, atei. Furono uccisi comunisti, liberali, socialisti, ex fascisti, apolitici. Furono uccisi perché avevano resistito – con le armi o senza – all’occupazione nazista di Roma, o furono uccisi perché (come in tutte le stragi nazifasciste di quel tempo) la loro sola presenza sul territorio intralciava le operazioni militari. Uccisero tutti uomini (una donna, Celeste Rasa, la uccise una sentinella tedesca fuori delle grotte, forse perché aveva visto), e perciò a sopravvivere e ricordare sono rimaste soprattutto donne.

DICO UNITÀ D’ITALIA, ma di un’Italia che sta tutta dentro una storia europea. Una dozzina degli uccisi erano nati all’estero, e avevano creduto di trovare rifugio in Italia dai pogrom dell’Europa orientale. Ma secondo la Carta di Verona, il documento fondativo della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, alleata dei nazisti, non era italiano nessuno dei 72 ebrei uccisi alle Fosse Ardeatine: l’articolo 7 di quel documento, infatti, recitava: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». E come tali li hanno uccisi. In questo modo, come ha ricordato recentemente lo storico Lutz Klinkhammer, le Fosse Ardeatine (insieme alla Risiera di San Saba) segnano l’estensione della Shoah sul territorio italiano e fanno della nostra storia una parte della storia di tutti.

Tutto questo si riflette nella Costituzione nata dopo la Resistenza: un’idea di cittadinanza inclusiva e partecipata, di sovranità popolare basata sull’uguaglianza, di comunità internazionale fondata sul ripudio della guerra. Il problema è che fra quel generoso progetto democratico e la nostra realtà di oggi (ma anche negli ottant’anni trascorsi da allora) è venuto crescendo un divario che si avvicina ormai molto a un rovesciamento secco: chi governa l’Italia oggi sono gli eredi politici di quella repubblica mussoliniana il cui ministro degli Interni quel 24 marzo del 1944 consegnò ai nazisti una lista di 50 antifascisti da uccidere alle Fosse Ardeatine.

E allora il significato di quel monumento cambia: non è più un simbolo di unità ma di conflitto. Lo confermano, ancora di recente, i goffi tentativi di disinnescarlo da parte della destra «post»fascista al potere associandolo al vittimismo nazionalista («massacrati solo perché erano italiani»: Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio) o, per evitare di guardare in faccia la strage, spostando ancora una volta uno sguardo ignorante su via Rasella («hanno ucciso solo vecchi musicanti»: Ignazio La Russa, seconda carica dello Stato). Per questo, oggi più ancora che in passato, ricordare le Fosse Ardeatine non è questione di commemorazione cerimoniale. Come già il 25 aprile, dall’era di Berlusconi a oggi, al cuore di queste ricorrenze nazionali sta una domanda elementare: da che parte stai?

A QUESTO INFINE SERVE la memoria: non a farci sentire bene e in pace con noi stessi (quanto siamo stati eroici, quanto abbiamo sofferto) ma a disturbarci, a smuovere il rimosso, a ribadire il negato, a dire la verità al potere. Per questo, la stagione che va dal 24 marzo al 25 aprile, dalle Fosse Ardeatine alla Liberazione è una stagione di lotta, che rinnova sul piano democratico della memoria, della storia, della partecipazione la dolorosa e sanguinosa lotta antifascista di allora.

La domanda allora è: su che terreno si svolge oggi questa lotta? Non credo che basti ribadire la verità dei fatti (non erano anziani musicisti, avevano sui trent’anni ed erano armati di tutto punto) o ripetere chi aveva ragione, ottant’anni fa, fra i combattenti della libertà e i complici dei nazisti. Questa è una base di conoscenza e di scelta etica, ma, da sola, non basta a determinare le scelte e gli orientamenti della maggioranza. Oggi, quando informazione, memoria, oblio hanno tempi sempre più accelerati, ottant’anni – quattro quinti di secolo – rischiano di sembrare a molti un’altra epoca geologica.

SE VOGLIAMO che la memoria delle Fosse Ardeatine e della Resistenza abbia un significato e un impatto sul presente, perciò, è necessario riconoscere e smascherare le modalità in cui il fascismo si ripresenta adesso, nella vita di tutti, al di là della memoria e persino degli orientamenti politici: non nelle sue vesti e simboli del passato, ma nella sua elementare essenza, il nudo dominio di chi ha il potere su chi non ce l’ha. Oggi fascismo vuol dire la legittimazione del potere dei ricchi sui poveri, degli uomini sulle donne, dei bianchi sui neri, del capitale sul lavoro, dei capi sui subalterni, dei colonizzatori sui colonizzati, degli armati sui disarmati , dei proprietari sui profughi e sui senza casa, di chi possiede i media su chi è privo di ascolto, di chi inquina su chi respira (e persino, nella logica reazionaria del codice della strada rivisto da Salvini – dell’automobile sul pedone e sulla bicicletta!). Il 24 marzo, il 25 aprile, durano tutto l’anno perché tutto l’anno dobbiamo fare i conti con queste sopraffazioni quotidiane, ed è nella memoria di quei giorni che ritroviamo le origini e le ragioni, adesso e sempre, di questa resistenza

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TEATRO DI GUERRA. Dove andava, dalla foresta di Bryansk dove è stata intercettata, la Renault con cui il presunto commando jihadista, con le mani ancora insanguinate, ha lasciato la scena della carneficina? Secondo […]
Protagonismo dell’Isis e scelta del nemico

Dove andava, dalla foresta di Bryansk dove è stata intercettata, la Renault con cui il presunto commando jihadista, con le mani ancora insanguinate, ha lasciato la scena della carneficina? Secondo Mosca, da Bryansk si va in Ucraina, dove erano attesi. Non è chiaro come, considerato che si tratta di un confine di guerra fortemente militarizzato. Secondo gli ucraini, siamo invece in prossimità della Bielorussia, allineata a Mosca: un confine assai più tranquillo per un’auto «con targa bielorussa».

Il copione è consolidato: da subito i media russi e social media filo-regime hanno gettato dubbi sull’autenticità della rivendicazione dell’Isis. Questo nonostante il comunicato seguisse modalità che in situazioni analoghe non hanno destato sospetti: la nota è apparsa con tempestività su Amaq, il canale usato sistematicamente da ISIS core. Il quadro di plausibilità è rafforzato dall’impiego di modalità operative che ricalcano quelle messe degli inghimasi jihadisti in altri attacchi su vasta scala contro obiettivi civili. Contrariamente a una percezione diffusa, l’Isis ha più volte messo nel mirino la Russia, e non solo nelle repubbliche del nord Caucaso (Cecenia, Inguscetia e Dagestan), dove il jihadismo si è arroccato dopo la guerra che Vladimir Putin, per dotarsi di popolarità, scatenò conto l’autonomia cecena, insediando le milizie sanguinarie di Ramzan Kadirov, oggi presenti in Ucraina, mentre su fronte opposto filo-ucraino combattono anche, ma sparute, milizie dell’opposizione cecena. L’ISIS ha rivendicato otto attacchi fra il 2016 e il 2019 sul resto del territorio della Federazione, mentre miliziani di nazionalità russa sono apparsi più volte nelle cellule di soldati del Califfato in altri paesi. Nell’estate del 2022 l’Isis ha colpito l’ambasciata russa di Kabul. Alla deflagrazione della guerra russo-ucraina Daesh ha esultato per il carattere fratricida del conflitto, cristiani che si ammazzano fra loro. Anche in tempi recenti, con modalità più che discrete, l’antiterrorismo di Mosca è stato impegnato a sgominare cellule jihadiste. Allargando il campo, la Russia si è trovata e si trova ad affrontare Daesh in diversi quadranti in cui i jihadisti stanno riorganizzandosi, mentre la Provincia di Khorasan dello Stato Islamico ha recentemente colpito il suo alleato iraniano, con una strage fin sulla tomba del generale Suleimani. Teheran ha puntato il dito contro Israele, salvo poi correggere parzialmente il tiro.

È in atto un tentativo di gestire politicamente il pesante bilancio dell’attacco del Crocus City Hall, e lo smacco subito dall’apparato di sicurezza del regime (intervenuto in evidente ritardo senza che nessuno possa denunciarlo) trasferendolo sul conto del nemico preferito: ‘i nazisti ucraini’. La destabilizzazione della verità è del resto un’attività su cui insistono le dottrine sovraniste della ‘democrazia gestita’, sin dalle prime formulazioni del grande burattinaio del primo Putin, poi profeta del Donbas separatista: quel Vladislav Sokurov che si distingueva fra gli oprichniki, il cerchio di cani da guardia dell’autocrate del Cremlino, ma che potremmo anche chiamare Aslambek Dudaev, secondo la verità alternativa di una sua nascita in Cecenia.

Fatto sta che la questione ‘estremisti jihadisti’ bolliva in pentola da un po’. Il 7 marzo scorso Washington aveva lanciato l’allarme pubblicamente, invitando i propri cittadini a non recarsi in luoghi affollati quali le sale da concerto della regione di Mosca. Una condivisione pubblica che suona come un modo per mettere le mani avanti rispetto a qualcosa che è stato captato dall’intelligence ma su cui non si ha controllo. Per parte sua, rivolgendosi martedì ai vertici dei servizi di intelligence (Fsb), Putin aveva replicato sdegnosamente, rigettando il ‘ricatto’ e il ‘tentativo di intimidire e destabilizzare’. Significativamente si era riferito a come ‘il regime neo-nazista di Kiev’ con sostegno e istruzioni occidentali, avrebbe adottato ‘metodi terroristici’, colpendo le infrastrutture, inclusi gli ‘spazi pubblici’.

Aspettiamoci dunque una nuova ondata di commenti sulla falsariga di ‘l’Isis è un’operazione della Cia’: una campagna ormai più che decennale, nata quando, mentre i combattenti curdi, appoggiati dalla coalizione a guida statunitense, combattevano Daesh in Siria, la Russia offriva le proprie bombe ad Assad, il quale colpiva i civili ma risparmiava le basi dell’Isis, il nemico perfetto nel cinico calcolo di distruzione dell’insorgenza anti-regime.

E’ un dato di fatto che lo Daesh stia rilanciando la propria iniziativa, dal Sahel alle Filippine, passando per l’attacco portato venerdì al cuore dell’Emirato afghano (più di cinquanta vittime a Kandahar, dove i talebani si assiepavano per ritirare il salario). Segnali più o meno diretti del crescente attivismo si registrano anche in Iraq e Siria, dove le forze curde, che hanno il controllo su larga parte dei prigionieri fedeli al Califfato, sono sempre più sotto il fuoco della Turchia.

Questo tentativo di recuperare centralità e protagonismo globale, ingaggiando combattimento anche con la galassia qaidista, è in fase di dispiegamento, cerca di reclutare cavalcando le contraddizioni apertesi nel mondo islamico con l’azione sconsiderata di Israele a Gaza, e ha implicazioni difficili da prevedere. Riconoscere l’apertura di un fronte jihadista, per una Russia aggrappata al mito della forza dell’autocrate, ha un costo notevole, soprattutto rispetto all’imperativo strategico di produrre il massimo sforzo per oliare la macchina da guerra all’offensiva in Ucraina. Consenso ed efficienza nei regimi autoritari sono spesso incognite. In un romanzo sull’amoralità del potere pubblicato sotto pseudonimo, il burattinaio Surkov descriveva la guerra non lineare del futuro, dove lo scopo non è vincere contro il nemico, ma gestire il processo bellico per destabilizzare la percezione pubblica, “confondendo le piste, oscurando la verità”

 
 
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SAGGI. In «Daes. Viaggio nella banalità del male» (Meltemi), Sara Montinaro indaga la partecipazione femminile alla costruzione del progetto-califfato e ricostruisce la struttura interna dell’Isis, braccia militari, di intelligence, amministrative, di gestione dei foreign fighters

 

Che le donne e la loro libertà di scelta siano state tra le principali prede dell’ideologia del cosiddetto «califfato», tra Siria e Iraq, è tema ampiamente scandagliato dalla stampa mondiale. Vendute al mercato come merce inanimata e rese schiave dei miliziani (il destino di migliaia di yazide), obbligate nell’abbigliamento e dentro le mura domestiche (quello di centinaia di migliaia di siriane e irachene nelle zone occupate e amministrate dallo Stato Islamico), le donne non hanno avuto solo ruoli passivi.

A INDAGARE LA NATURA della partecipazione femminile alla costruzione del progetto-califfato, tra il 2014 e il 2019 in Medio Oriente, è Sara Montinaro in Daes. Viaggio nella banalità del male (Meltemi, pp. 164, euro 14). Attraverso interviste realizzate nella regione, a partire dal Rojava (il nord-est siriano teatro di un progetto sociale, politico e ideologico opposto a quello di Daes, il confederalismo democratico curdo che fa di uguaglianza di genere e lotta al patriarcato la prima pietra della liberazione dal colonialismo), l’autrice ricostruisce la struttura interna dell’Isis, braccia militari, di intelligence, amministrative, di gestione dei foreign fighters.

E descrive il ruolo delle donne, sia locali che straniere, le più feroci, le cosiddette «spose di Daes», infelice espressione coniata dalla stampa per definire le europee trasferitesi in Siria e Iraq per entrare a far parte di un «mondo nuovo». Infelice perché tradisce passività: le donne sono state anche soggetti attivi, prima con l’assunzione di una scelta di vita e poi con la concreta partecipazione alla costruzione di quel mondo. Sposano miliziani e mettono al mondo figli, i cuccioli del califfato, e lavorano alacremente al rispetto delle regole interne, terribili e soffocanti: una vera e propria polizia femminile che partecipa a torture e interrogatori, battaglioni militari che addestrano e avviano all’uso delle armi e altrettante unità virtuali dedite al reclutamento online.

Un attivismo che segue una sua gerarchia interna che Montinaro ritrova specchiata nei campi curdi dove donne (con i figli) appartenenti all’Isis sono detenute in attesa di processo o deportazione nei paesi di origine. È da lì, dai campi di Roj e al-Hol, che le prigioniere islamiste continuano a lavorare al mantenimento in vita dell’Isis, sia controllando (e nel caso punendo) la vita delle altre detenute che raccogliendo denaro da fuori, tramite cellulari clandestini, per pagare i trafficanti che le riporteranno a quella che ritengono la loro unica patria.

UN ASPETTO da non sottovalutare e che l’autrice ha il merito di raccontare: tra le capacità indiscutibili dell’Isis c’è l’aver reso attraente agli occhi di persone di ogni parte del mondo la certosina edificazione di una società che le opprimerà, imprigionando i suoi stessi membri in una lettura distorta dell’Islam. Dove le donne, come gli uomini, vestono panni doppi, vittime e carnefici, affascinati da un’idea auto-legittimata di mondo lugubre, ammantata di divieti, gerarchie di genere e schiavitù

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