“Lo attesero sottocasa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro.
Mussolini fu immediatamente informato. Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania.
In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944.
Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati.
Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia?
Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via.
Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023).
Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra. Finché quella parola – antifascismo – non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana”
Antonio Scurati
Commenta (0 Commenti)SCENARI. Con il passare degli anni, sono stati sempre meno gli incentivi ad un’adesione motivata sul piano ideale e politico, e sempre più forti invece quelli legati ad una pratica di potere o comunque alle reti di relazioni personali, e al «controllo» dei circoli
«La moneta cattiva scaccia quella buona», così recita la cosiddetta legge di Gresham: vale anche per la politica. E da qui possiamo partire per cercare di capire cosa mai possa voler dire «riformare il Pd», dopo i recenti episodi di malaffare che hanno coinvolto alcuni suoi esponenti locali.
È possibile parlarne concretamente e seriamente, senza le consuete chiacchiere a vuoto, fatte di luoghi comuni? Se la questione si riducesse solo ai fenomeni di rilevanza penale, la nomina di qualche commissario o alcune espulsioni potrebbero risolvere la faccenda. Ma la teoria delle mele marce non funziona: l’interrogativo di fondo riguarda le radici strutturali di una «cattiva» politica, il modo di essere ordinario del partito, le ragioni che lo rendono permeabile alle scorrerie di un ceto politico poco raccomandabile. Non basta nemmeno invocare la «piazza pulita» che la segreteria dovrebbe fare, per cacciare i cacicchi e i loro manutengoli. Discorsi che lasciano il tempo che trovano, va detto: se anche questi fossero cacciati, ne nascerebbero altri, come la gramigna. È il terreno che deve essere dissodato e risanato, per impedire che ricresca.
Il vero tema è capire come mai il Pd, in gran parte, con le dovute eccezioni, nelle sue espressioni locali e regionali, è organizzato come un reticolo di potentati e di notabilati, che vivono di una rendita di posizione legata all’occupazione delle cariche elettive (anche laddove il partito è all’opposizione). Il cosiddetto pluralismo interno non è legato ad una dialettica di posizioni politiche, ma alla ricerca di un equilibrio tra gruppi di potere spesso ferocemente concorrenti (con tutto ciò che ne può derivare).
La corsa al riarmo dell’Europa prepara l’austerità
Da dove nasce tutto questo? Dalle origini: dall’idea di costruire un partito in cui si combinava un modello plebiscitario (il segretario eletto dal «popolo delle primarie»: espressione tipicamente populista) e un modello di balcanizzazione delle strutture periferiche. Non è vero che gli iscritti non contino nel Pd: non contano nella scelta del segretario e soprattutto nella definizione della linea politica; contano moltissimo invece quando si tratta di eleggere gli organismi dirigenti locali (dove si decidono le candidature). E qui entra in gioco la legge di Gresham: i «cattivi» iscritti tendono a scacciare quelli «buoni».
Fuor di metafora: con il passare degli anni, sono stati sempre meno gli incentivi ad un’adesione motivata sul piano ideale e politico, e sempre più forti invece quelli legati ad una pratica di potere o comunque alle reti di relazioni personali, e al «controllo» dei circoli, in molti casi trasformati nel quartier generale di un capocorrente (come accertò, già dieci anni fa, l’indagine di Fabrizio Barca sul Pd romano). Da qui germinano i cosiddetti signori delle tessere: ma questi signori hanno avuto la vita facile, in tutti questi anni, per il modo stesso con cui è stata concepita la pratica del tesseramento.
Nulla impedisce oggi, in termini statutari, che chiunque possa iscriversi senza alcun controllo e soprattutto, nulla ha impedito che, in molti casi, si sviluppasse il fenomeno dei pacchetti delle tessere: un collettore che ne «compra» in blocco un certo numero, in bianco, e poi le distribuisce ai suoi amici. Il tutto ancor più facilitato dall’idea, persino teorizzata a suo tempo, che il costo delle tessere debba essere «fisso e basso» (come nella pubblicità di una nota catena di supermercati), con conseguenti ricadute negative anche sulle casse del partito. A catena, da tutto ciò, nasce l’ipertrofia del partito degli eletti: altro che apparato di funzionari e burocrati (magari ce ne fossero, verrebbe da dire), a lavorare sono gli staff pagati dalle istituzioni.
Che fare, dunque? Tantissime cose, ovviamente, che dovrebbero trovare la sanzione in un nuovo statuto. Qui se ne possono indicare solo alcune. Intanto, bisogna partire dall’alto, tornando a fare dei veri congressi ed eleggendo organismi (non pletorici, come sono quelli attuali) che siano rappresentativi degli orientamenti politici del partito (costruire delle vere e sane correnti). Congressi fatti sulla base di documenti politici e programmatici, discussi, emendati e votati. E poi, altre misure concrete: ad esempio, è davvero così vintage immaginare che la tessera debba essere consegnata solo individualmente, concordando una quota variabile; o che delle commissioni di circolo vaglino preventivamente le domande di iscrizione? Solo se un partito ha una propria vita collettiva, i fenomeni degenerativi possono essere fermati in tempo.
Tutto ciò non si fa dall’oggi al domani: ma occorre avviare subito la discussione (puntando ad una vera conferenza di organizzazione). È un processo complesso di riconversione, che però deve partire oggi. Più passa il tempo, più appare evidente, per dirla con il Manzoni, che questo partito «non s’aveva proprio da fare»: mal concepito, e peggio vissuto (anzi, deperito). Ma ora c’è, e pensare di disfarsene è difficile, oltre che ingiusto, per le molte energie positive che ancora ci sono al suo interno. Per provare a salvarlo, però, i tempi stringono
Commenta (0 Commenti)LA UE CONTRO IL WELFARE. Si usa dire che stiamo precipitando verso una guerra mondiale “a pezzi”. Possiamo anche aggiungere che stiamo scivolando verso una “economia di guerra”? Alcuni prodromi, in effetti, si intravedono. Due […]
Si usa dire che stiamo precipitando verso una guerra mondiale “a pezzi”. Possiamo anche aggiungere che stiamo scivolando verso una “economia di guerra”? Alcuni prodromi, in effetti, si intravedono.
Due caratteristiche sono tipiche di un’economia che tende verso la guerra: l’aumento del deficit pubblico per finanziare il riarmo e la spinta inflazionistica a danno dei salari.
La mobilitazione delle finanze pubbliche per il rilancio della spesa militare è già in corso. I dati World Bank indicano che nell’ultimo decennio l’Unione europea ha accresciuto la spesa per armamenti di quasi un quarto. L’Italia è andata oltre, con aumenti superiori al 25 percento. Se accettiamo la tesi di un recente manifesto pubblicato dall’istituto Bruegel e dagli altri think-tank europei, siamo ormai nel mezzo di una “nuova guerra fredda”. Considerato che negli anni della “vecchia guerra fredda” l’Italia e il resto d’Europa spendevano per armi oltre il doppio di oggi, c’è da temere che l’incremento della spesa militare sia solo iniziato.
Ma come finanziare una tale corsa al riarmo? Ancora più tagli e privatizzazioni nei servizi pubblici, dalla sanità alla scuola, sarebbe la risposta ideale degli economisti ortodossi. Sarebbe tale anche per i capi di governo che vanno oggi di moda, i quali però sanno pure che la guerra richiede un minimo di consenso popolare. Bisogna allora drenare risorse dalla classe lavoratrice a favore dell’industria delle armi in modo meno plateale, più surrettizio. Il deficit pubblico è la soluzione ottimale. La banca centrale deve favorire questa opzione, abbassando i tassi d’interesse e contrastando i tentativi di liquidazione dei titoli pubblici da parte della finanza privata. In tal modo il disavanzo aumenta senza rischi di crisi finanziaria né di spread ai massimi. Così i banchieri centrali hanno agito fino a qualche tempo fa, ed è il motivo per cui negli ultimi anni abbiamo sentito parlar poco dei cosiddetti “mercati che puniscono gli spendaccioni”. Finché c’è guerra c’è speranza di fare debito.
C’è poi la tendenza inflazionistica. I nessi con l’economia di guerra sono molti, a partire dall’aumento del costo delle materie prime. Ma c’è un legame più insidioso, che si riferisce alle peculiari caratteristiche dell’attuale fase bellica. Abbiamo più volte spiegato che gli attuali venti di guerra sono alimentati dalla svolta degli Stati Uniti – con l’Unione europea al traino – verso una politica protezionista aggressiva, di divisione dell’economia mondiale in due blocchi: gli “amici” occidentali e i loro sodali con cui proseguire gli affari e i “nemici” cinesi, russi e orientali da tenere alla larga. Ebbene, una conseguenza di questo nuovo ordine protezionista è la riduzione dell’efficienza produttiva e l’aumento dei costi e dei prezzi. Naturalmente a scapito della classe lavoratrice: l’Ocse stima che negli ultimi due anni i salari reali orari sono caduti in quasi tutti i paesi occidentali, con un crollo superiore ai sette punti e mezzo in Italia. Il protezionismo bellico spiega una parte rilevante di questo impoverimento di massa.
È importante notare che questi caratteri tipici di un’economia di guerra entrano in contraddizione con il nuovo patto di stabilità e in generale con le regole europee. In base a queste, con la scusa della lotta all’inflazione la Bce è tornata a rialzare i tassi d’interesse, per la felicità dei creditori privati e l’ansia dei debitori. Inoltre, il patto in vigore impone controllo della spesa pubblica e contenimento del deficit. Certo, esiste una clausola richiesta proprio dal governo italiano, che fino al 2027 crea un po’ di tolleranza sull’aumento delle spese militari nell’aggiustamento del disavanzo. Ma è evidente che l’assetto generale delle norme europee è incompatibile con la tendenza verso un’economia di conflitti. Bisogna scegliere: o austerity recessiva o guerra inflazionista.
A Bruxelles c’è chi ritiene che il nuovo patto sia nato già vecchio, poiché non tiene conto della necessità di adeguare il sistema produttivo alle montanti esigenze belliche. Un inasprimento dei fronti di guerra potrebbe rendere inevitabili clausole più generose per favorire il deficit e l’inflazione. Meloni e Giorgetti un po’ ci sperano
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Per rimanere al potere la strategia «iraniana» del premier israeliano è una pistola puntata contro il mondo, Biden compreso. Cancellando la Palestina e il massacro in corso a Gaza
Benjamin Netanyahu durante un sopraluogo nel nord di Gaza - Ap
La trappola è scattata. Netanyahu continuerà a tenere il dito sul grilletto con il mirino puntato contro nemici e alleati, riluttanti o meno. Con l’attacco all’ambasciata iraniana a Damasco il primo aprile (in cui è morto anche un generale dei pasdaran) e la conseguente rappresaglia iraniana, in gran parte fermata nei cieli israeliani, ha ottenuto quello che voleva: allargare la guerra e oscurare Gaza dai titoli di prima pagina dei media. La questione palestinese va in secondo piano se deciderà di colpire duramente la repubblica islamica con un conflitto che si potrebbe espandere al Libano, alla Siria, all’Iraq e alla penisola arabica.
Nessuno potrà tenersi fuori, questo è l’obiettivo del premier che vuole coinvolgere tutti per tenersi in sella al potere _ questi sono i suoi calcoli – almeno fino alle elezioni americane di novembre. Ha ottenuto immediatamente con il suo spericolato cinismo la solidarietà militare degli Stati Uniti e di quei governi europei che hanno partecipato all’operazione contro droni e missili iraniani. E ora si parla insistentemente di una coalizione internazionale anti-Iran.
E’ vero che gli Usa e il G-7 hanno detto che non parteciperanno a un’eventuale attacco israeliano diretto contro Teheran. Ma si tratta di una posizione che potrebbe repentinamente cambiare: basta immaginare cosa potrebbe accadere se l’eventuale contro-rappresaglia verso l’Iran fosse seguita da un altro attacco di Teheran contro Israele. Netanyahu e il suo gabinetto di guerra infatti non hanno per niente rinunciato ad attaccare di nuovo gli ayatollah. E dopo avere detto che gli Usa sono al fianco di Tel Aviv in maniera “ferrea” diventerebbe assai sottile la differenza tra una guerra di attacco e una di difesa.
I capi delle potenze occidentali si sono già ampiamente sbilanciati a favore del premier e delle sue iniziative militari dissennate. Nessuno, tranne il segretario dell’Onu Guterres, ha condannato l’attacco israeliano del primo aprile all’ambasciata dell’Iran a Damasco che ha violato il diritto internazionale, la sovranità iraniana e anche quella siriana. In poche parole hanno applicato il solito doppio standard che è il vero e radicato motivo delle guerre in Medio Oriente. Del resto c’era da aspettarselo in una regione dove gli occidentali hanno invaso l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003, attaccato la Libia di Gheddafi nel 2011 e fatto di tutto pur di sbalzare dal potere il siriano Assad. Ogni occasione è buona per eliminare qualche potenza mediorientale e fare di Israele l’unico guardiano (e potenza atomica) della regione. Con l’Iran la via diplomatica è stata abbandonata presto: nel 2015 Obama firmò l’accordo sul nucleare con Teheran – al quale per altro non si diede quasi seguito – mentre Trump ebbe gioco facile a uscire dall’intesa nel 2018 e a riconoscere Gerusalemme occupata capitale dello Stato ebraico contro tutte le risoluzioni Onu.
Indovinate un po’ chi è il candidato preferito da Netanyahu alla presidenza Usa? La verità è che qui ci facciamo beffe del diritto internazionale e Trump può essere l’uomo giusto per il premier ebraico. Il tycoon è disponibile ad arrivare a un accordo con Putin, che ha invaso un altro Paese, riconoscendone la sfera di influenza, ma non con l’Iran degli ayatollah e vuole mettere sotto il tappeto con il Patto di Abramo la questione di uno Stato palestinese, cosa che per altro ha fatto anche Biden. Ecco perché Netanyahu tiene la pistola puntata anche contro l’attuale presidente Usa e allo stesso tempo si prepara a fare pressioni sul Congresso Usa per ottenere oltre 17 miliardi di dollari di aiuti militari. Forse solo questo potrebbe trattenerlo da uno “strike” contro Teheran, che per altro troverebbe il modo di giustificare in qualche maniera. Il ricatto alla Casa Bianca è evidente.
La realtà è che quando ci si mette nelle mani di un governo estremista d’estrema destra come quello attuale di Israele può accadere qualunque cosa. Ma soprattutto possono verificarsi gli eventi più prevedibili. In primo luogo non finiranno i raid israeliani in Siria dove si è combattuto un conflitto con l’Iran definito in questi anni la guerra “invisibile”: ora può diventare un conflitto sempre più aperto in un territorio dove Israele occupa dal 1967 il Golan e dove di trovano le basi russe, quelle americane, della Turchia, oltre alle milizie di pasdaran, Hezbollah e alle formazioni jihadiste, Isis compreso. Una polveriera. Ma soprattutto gli israeliani vogliono punire il Libano degli Hezbollah, alleato cardine di Teheran. Qui il casus belli, come avvenne già nel 2006, non serve neppure crearlo, c’è già.
E cosa faranno gli iraniani? Il lancio di centinaia di droni e missili – colpiti dai sistemi di difesa anti-missilistica – era diretto al “pubblico” vero degli ayatollah, non tanto l’opinione interna, ignorata o manovrata dalla propaganda, quanto agli alleati di Teheran nella regione (Hezbollah, Houthi yemeniti, milizie sciite irachene) e agli avversari arabi dell’Iran nella regione, soprattutto verso quel Golfo che Teheran vuole assolutamente “Persico” dove è di stanza la sesta flotta Usa. Ma gli iraniani, al contrario dell’iracheno Saddam, non hanno nessuna intenzione di combattere contro Israele e i suoi alleati la “madre di tutte le battaglie”. Il loro obiettivo è la sopravvivenza al potere, come del resto Netanyahu, che non ha nessuna intenzione di togliere il dito dal grilletto. Con lui lo scontro finale continuerà ad aleggiare come un incubo sul Medio Oriente. L’unica alternativa sarebbe la diplomazia ma passa inevitabilmente da una soluzione al dramma palestinese e alla guerra in corso a Gaza. Netanyahu non la vuole e noi siamo sicuri di volerlo?
Commenta (0 Commenti)ISRAELE/PALESTINA. L’attuale quadro di scontri sinora a bassa intensità con Teheran si collega al «grande gioco» globale per l’egemonia regionale in Medio Oriente
La nave sequestrata nello Stretto di Hormuz
«Chiediamo all’Iran di non attaccare Israele», questo il mantra distopico che l’amministrazione Biden continua a recitare nella ben mediatizzata, spasmodica attesa d’una qualche risposta armata del governo dittatoriale degli ayatollah all’attacco israeliano contro il consolato iraniano a Damasco del primo aprile 2024.
L’ultimo e il più grave della serie di attacchi militari che negli ultimi mesi Israele ha compiuto contro la presenza militare dell’Iran (e dei suoi alleati dell’«Asse della resistenza») nei territori teoricamente sovrani di Siria, Libano, Iraq e Yemen. Dopo il massiccio e brutale attacco di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele, l’Iran e Hezbollah, il suo principale alleato regionale, si sono presto preoccupati di dichiararsi ignari ed estranei all’attacco, per evitare di essere coinvolti in un scontro diretto e generalizzato con le forze armate israeliani e i presidi militari nella regione del loro alleato americano.
DA ALLORA IN POI e nei sei mesi seguenti si è sviluppato un conflitto a bassa intensità, in cui l’Iran e i movimenti sciiti suoi alleati in Iraq, Libano, Siria e Yemen hanno condotto attacchi contro Israele, gli Usa e i loro interessi in Medio Oriente. (Ricordiamo en passant che gli Houthi, che non sono dei “ribelli”, bensì un movimento politico sciita d’opposizione alla dittatura sorto negli anni ’90, che dal 2014 controlla la capitale e due terzi del territorio dello Yemen, nonostante una feroce campagna militare condotta contro di loro da una coalizione internazionale a guida saudita, tesa a restaurare gli interessi minati dalle rivolte della Primavera araba).
Questo attuale quadro di scontri sinora a bassa intensità con l’Iran si collega al «grande gioco» globale per l’egemonia regionale in Medio Oriente, che dallo scoppio della guerra civile in Siria nel 2011 ha visto il ritorno della presenza militare russa, il progressivo spostamento dell’asse degli interessi economici e strategici del paesi petroliferi del Golfo – Iran incluso – verso la Cina. Specie dopo il disimpegno della politica Usa dal Medio Oriente iniziato già con Obama. E non a caso è stata proprio la Cina a portare Iran e sauditi a firmare un accordo nel marzo 2023 che ha (per il momento) frenato la loro sfida per l’egemonia regionale (e non dimentichiamo che entrambi i paesi si stanno dotando di armi nucleari…).
DUNQUE, UNO DEGLI OBIETTIVI attuali della strategia Usa nella regione (sempre che ne esista davvero una) è quello di riconquistare i paesi del Golfo, riportandoli sotto il proprio «ombrello di sicurezza», di cui Israele è un pilastro nella regione e altrove.
Alla luce di tutto questo sembra chiaro quale sia l’intento dell’Israele genocidaria di Netanyahu: alzare il livello dello scontro con l’Iran per provocare una risposta militare iraniana che giustifichi gli Usa a non abbandonarne la difesa ad oltranza, nonostante la (relativa) disobbedienza nella condotta della sua guerra contro i palestinesi a Gaza e in tutti i Territori palestinesi occupati
Commenta (0 Commenti)AUTONOMIA DIFFERENZIATA. Mentre va avanti lo scellerato progetto del governo sull’autonomia differenziata, interessa sapere che la sicurezza del lavoro è regionalizzabile
In Italia ogni giorno si muore sul lavoro. I tragici eventi di Suviana sono l’ultimo caso di tanti. Forse, mentre va avanti lo scellerato progetto del governo sull’autonomia differenziata, interessa sapere che la sicurezza del lavoro è regionalizzabile. Possiamo essere certi che non sia domani sacrificata sull’altare della competitività del territorio?
Anche l’energia è regionalizzabile, e sull’idroelettrico c’è stato già l’intervento di alcune regioni. Eppure l’energia è cruciale per la transizione ecologica ed è inserita in un contesto con ogni evidenza europeo e internazionale.
Infiniti i dubbi sulle riforme. Ma Lega e Fratelli d’Italia in parlamento forzano il passo, per avere la propria bandierina prima del voto europeo. Per l’autonomia approvazione in via definitiva, per il premierato prima deliberazione delle due richieste. Dopo le urne, però, i tempi si divaricano. Il premierato potrebbe vedere la luce nel 2025, giungendo al referendum (auspicabile) nel 2026. Invece, intese tra stato e regioni potrebbero essere stipulate e approvate con legge già ora, a partire dalla pubblicazione della legge Calderoli.
Il presidente Zaia ci dice che presenterà le richieste di autonomia del Veneto «il giorno dopo» il voto finale sul disegno di legge. Calderoli potrà gestire la formazione delle intese fino a portarle in Consiglio dei ministri. Se il suo progetto fosse approvato in tempi brevi, potrebbe riuscire a portare in Consiglio prima del voto europeo bozze di intesa con una o più regioni. Forse in poche settimane da oggi avremo occasione di vedere l’alba di un’Italia disarticolata in assemblaggio di staterelli, e magari avviata verso una riorganizzazione in macroregioni in base all’articolo 117.8 della Costituzione.
Nel labirinto del premierato si perde anche l’opposizione
Non si può rimanere inerti. Vanno evidenziati nel tempo parlamentare ancora disponibile, anche con il ricorso al question time, i punti potenzialmente rilevanti in specie per i ricorsi in Corte costituzionale da parte di una o più regioni entro i 60 giorni successivi alla pubblicazione. È la sola risposta che regga il passo di Zaia, perché un referendum abrogativo potrebbe essere inammissibile per il collegamento al bilancio, e sarebbe comunque assai più lento. Con ogni probabilità, infatti, giungerebbe al voto nel 2026.
Va anzitutto ribadito che il disegno di legge Calderoli è una legge sul procedimento per concedere la maggiore autonomia. Che viene invece attribuita con la legge approvata a maggioranza assoluta sulla base di intesa con la singola regione. La domanda è: può la legge Calderoli vincolare la successiva legge che approva l’intesa? No, in quanto legge ordinaria non sovraordinata alla legge successiva. La legge che approva l’intesa può modificare, derogare o comunque disattendere la legge Calderoli. A nulla vale il richiamo ai «principi generali» nell’art. 1.1, perché l’auto-qualificazione non cambia la natura della legge.
Ma allora a che serve? A poco. Sostanzialmente, può solo vincolare l’attività del governo nel negoziato con la regione. Sempre però considerando che laddove venisse disattesa ne verrebbe eventualmente solo una responsabilità politica del governo. Questo è il caso per l’articolo 2.2, che attribuisce al presidente del Consiglio il potere di limitare il negoziato con la regione per la tutela dell’unità giuridica ed economica e delle politiche prioritarie. Domandare a Giorgia Meloni se intende porre limiti e quali, a tutela di quali politiche, sarebbe peraltro opportuno. Soprattutto per capire se include tra le politiche da tutelare quelle nazionali e strategiche utili alla riduzione dei divari territoriali e delle diseguaglianze.
Segue dalla premessa che la classificazione delle materie-Lep e non Lep, il procedimento per la determinazione dei Lep, la condizione apposta della previa determinazione dei Lep ai fini del trasferimento sono scritti sulla sabbia. Del resto, anche a voler seguire il dettato legislativo, nelle materie non Lep immediatamente trasferibili troviamo ben 184 funzioni statali in materie di peso, cui si aggiungono le funzioni non-Lep nell’ambito di materie-Lep. Abbastanza per calare subito l’Italia nel vestito di Arlecchino.
Con la norma transitoria (articolo 11.1) che prefigura un percorso in qualche misura privilegiato per le regioni già in pista si conferma come pubblicità ingannevole la prospettazione di un’Italia più giusta e più uguale per l’autonomia. Anche su questo bisogna chiamare il governo a manifestare il suo indirizzo. Spesso a domanda il governo non risponde. Nel caso, bisogna insistere. In politica un assordante silenzio può dirci di più di molte parole
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