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MIRAGGIO «UMANITARIO». Siccome il falso ha il sopravvento sul vero, ecco che arriva la versione «umanitaria» dell’Occidente, degli Usa e in coda dell’Ue. Siamo a cinque mesi di massacri, di tiro al […]

Spiaggia della cittã di gaza immagini e fotografie stock ad ...

Siccome il falso ha il sopravvento sul vero, ecco che arriva la versione «umanitaria» dell’Occidente, degli Usa e in coda dell’Ue. Siamo a cinque mesi di massacri, di tiro al piccione sui civili, con 31mila morti tra donne e bambini e più di 71 mila feriti e mutilati.

Con due milioni e 300mila esseri umani costretti a fuggire a sud e a nord su un fazzoletto di terra, per una «guerra» impari autorizzata come vendetta della strage di Hamas del 7 ottobre. Con un intero popolo ridotto alla fame mentre seppellisce i familiari nelle fosse comuni. Allora ecco che Joe Biden – per Trump i palestinesi nemmeno esistono – , alle prese con le primarie democratich, scopre il forte peso elettorale del dissenso verso la sua politica pro-Israele tra l’elettorato arabo-americano, tra i giovani del movimento ebrei anti-sionisti e tra gli studenti dei campus universitari; così si dichiara dedito al «soccorso umanitario». In realtà corre al soccorso di se stesso in vista delle presidenziali Usa.

I segnali di questa iniziativa a dir poco tardiva e propagandistica sono ambigui e vergognosi. In primo luogo è il segno di un fallimento, come dice l’Alto funzionario Usa Jeremy Konyndyk ripreso ieri da Michele Giorgio sul manifesto, per l’incapacità dimostrata da Biden a frenare Netanyahu, ma allo stesso tempo rende evidente il

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GUASTAFESTA. C'è ancora chi si stupisce come nei cortei di Non Una di Meno le bandiere palestinesi sventolino accanto ai cartelli per la sanità pubblica, le rivendicazioni economiche accanto a quelle per la libertà di scelta. C’è ancora chi non ha capito cosa significa transfemminismo: una visione complessiva della società che vede in guerre, massacri, colonialismo l’espressione più alta della violenza patriarcale

L'8 marzo di Milano (foto Ansa) L'8 marzo a Milano - Ansa

Una macchia fucsia si prende Roma e decine di città italiane e lo fa come lo ha fatto sempre: ma quale pane e lavoro, noi vogliamo gioia e rivoluzione. Le piazze transfemministe sono così, arrabbiate, allegre, sfidanti, ironiche, provocatrici. Si canta, si balla perché se non si balla che rivoluzione è.

Questo vede chi attraversa i cortei di Non Una di Meno. La rabbia come arma, l’allegria come sfida a chi ci vuole grigie, la presenza sfacciata di adolescenti e studenti medie, con i cartelli più urticanti e più veri. C’era anche la Palestina nelle bandiere, gli slogan, la kefiah al collo. Dopotutto stava nel manifesto di chiamata alla piazza.

Eppure ieri a leggere i commenti a caldo di molti giornalisti e politici pareva che Nudm fosse la filiale di un’organizzazione salafita. Nell’epoca di Giorgia Meloni, prima donna a capo di un governo, che restringe i diritti di donne, poveri, migranti, trans stupisce che qualcuno si stupisca ancora come nei cortei di Nudm le bandiere palestinesi sventolino accanto ai cartelli per la sanità pubblica, le rivendicazioni economiche accanto a quelle per la libertà di scelta, donne e persone trans o queer si incontrino invece di

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C'ERA UNA RIVOLTA . Intervista a Carlotta Cossutta, attivista di Non Una Di Meno e ricercatrice

 Sciopero transfemminista di Non Una Di Meno - LaPresse

Una coincidenza fortuita si annida tra le molteplici storie che ruotano attorno alle origini dell’8 marzo, Giornata internazionale della donna. Rovistando tra gli archivi di storia operaia si trova un fatto, poco noto e solo accidentalmente associato alla data. Siamo a New York ed è l’8 marzo del 1857. Alcune operaie del settore tessile decidono di scioperare e partono in corteo tra le strade della Grande Mela per denunciare le condizioni di lavoro inumane a cui sono sottoposte. A fine giornata si scontrano duramente con la polizia. Lo sciopero quindi, anche se sotto traccia, è nel Dna della ricorrenza.

Da diversi anni questa pratica di lotta è stata rimessa al centro dai movimenti transfemministi globali. Ne parliamo con Carlotta Cossutta, ricercatrice e attivista di Non Una Di Meno.

Perché lo sciopero dell’8 marzo si qualifica come femminista?
In primo luogo perché è uno sciopero politico, non è collegato a una vertenza, ha una dimensione molto più ampia, esistenziale. Si qualifica come femminista perché comprende tutte le categorie produttive ma anche il lavoro di cura che le donne e le persone lgbtq mettono in campo ogni giorno. Lo sciopero femminista si interroga su quelle forme di lavoro che non sono riconosciute come tali o che non hanno l’orizzonte dello sciopero come diritto. Pensiamo al lavoro domestico, non solo quello gratuito e volontario, ma anche quello di badanti, colf, baby sitter. Un lavoro intermittente o in nero o a chiamata, un settore in cui lo sciopero classicamente inteso non trova spazio.

In Italia negli anni Settanta abbiamo avuto lo sciopero dal lavoro domestico a cui in qualche modo ci rifacciamo. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una serie di scioperi politici femministi: lo sciopero delle donne islandesi per l’equità di salario, quello delle donne polacche e irlandesi per il diritto all’aborto. Ma penso anche ai grandi scioperi in Spagna che chiedevano una trasformazione sociale o gli scioperi in Argentina e in Cile, nel movimento per ripensare la Costituzione. C’è una genealogia di scioperi recenti che hanno toccato temi diversi ma a partire da questo spunto: attaccare la riproduzione della società come forma di protesta.

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È inusuale convocare uno sciopero a partire da una dimensione poco strutturata, come quella di un movimento.

Non è semplice. Lo sciopero per legge deve essere indetto da un sindacato. Per fortuna Non Una Di Meno ha sviluppato ottime relazioni coi sindacati di base che garantiscono la copertura della convocazione. Questo ha significato da una parte costruire alleanze e dall’altra aprire conflitti. È difficile per un sindacato accettare uno sciopero che travalica le sigle, le condizioni e i programmi delle singole compagini. I sindacati confederali sono ancora restii a convocare l’8 marzo. La Cgil non aderisce (lo fa Flc, il settore della conoscenza, ndr) pensando questo strumento in maniera riduttiva.

La seconda difficoltà sta nel fatto che, in particolare in Italia, il 50% circa delle donne è disoccupata. Per loro pensare di poter scioperare non è immediato, il lessico dello sciopero è ancora associato a un certo tipo di lavoro salariato. Anche le donne che lavorano spesso sono precarie e scioperare vuol dire mettere a repentaglio l’impiego. Lo sciopero dal lavoro di cura, poi, è ancora più complesso. Il lavoro riproduttivo non ha orari, non è possibile realmente sospenderlo perché non si può decidere di smettere di prestare le proprie cure a un bambino o a un anziano non autosufficiente. Ma proprio qui sta la sfida. Anche se non si riesce a scioperare, rendersi conto di questo enorme carico credo sia un momento di consapevolezza importante.

Carlotta Cossutta

Il contrasto alla violenza di genere, almeno formalmente, mette d’accordo tutti. Quando si parla di sciopero femminista c’è una tendenza a defilarsi.
Credo che lo sciopero sveli la dimensione quotidiana della violenza, quella che la nostra società non vuole vedere. Per fortuna è diventato patrimonio comune che la violenza di genere sia qualcosa di inaccettabile. Però chiamare violenza ad esempio il gender pay gap non è scontato. Il gender pay gap è un fattore sociale che contribuisce a rendere possibile la violenza. Come la disparità enorme nella suddivisione del lavoro di cura tra uomini e donne o le difficoltà di accesso al welfare per donne e persone lgbtq fuori da un nucleo familiare riconosciuto. Quando si parla di questi cambiamenti strutturali emerge la differenza tra un posizionamento transfemminista e uno schierarsi genericamente contro la violenza.

Perché scegliere proprio lo sciopero come strumento di lotta?
Per due ragioni. La prima è la dimensione del tempo interrotto che lo sciopero implica. In una società che ci vuole sempre produttive, sempre performanti, sempre online, la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita è saltata. Riconoscere la centralità del tempo e dire “mi prendo una giornata per vivere diversamente”. Interrompere il ritmo della performance continua e della «imprenditorialità di sé». L’altro motivo è la necessità di socializzare le condizioni lavorative che oggi sono vissute come un problema individuale. Anche quando si lavora con altre persone, si tende a personalizzare la propria condizione e sentirsi isolati. Lo sciopero diventa un’occasione per entrare in contatto con altre lavoratrici e altri lavoratori, costruire una coscienza collettiva.

Shendi Veli

Nata a Tirana, cresciuta a Roma. Ha girovagato in cerca di fortuna tra Londra, Parigi e Berlino. Lavora alla progettazione del manifesto digitale e ogni tanto scrive cose.

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8 MARZO. Il 37% delle donne italiane non ha un conto in banca. La dipendenza economica è come un macigno che, al pari della povertà, rimbalza da una generazione all’altra

Il conflitto non è un rito Manifestazione contro la violenza di genere a Roma - Alessandra Tarantino

La giornata della mimosa e del pranzo fuori, le ventiquattrore della galanteria prevista dal calendario non ci sono più. Perché non c’è nessuna festa. C’è uno sciopero transfemminista, un conflitto agito sul piano della «produzione e della riproduzione, dei consumi e dei generi».

L’irruzione di “Non una di meno” ha stravolto lo stanco rituale dell’otto marzo e ha rimesso al centro del discorso il conflitto. E il patriarcato. Cioè il principio gerarchico ordinatore dei rapporti che non andava nominato perché potesse agire in modo mimetico. Siamo tornate non solo a nominarlo ma anche a individuarlo per combatterlo.

Basta leggere la piattaforma di questo otto marzo: «Scioperare contro il patriarcato significa scioperare contro la guerra come espressione massima della violenza patriarcale. Lo abbiamo visto con la guerra in Ucraina, che ha intensificato un’ideologia nazionalista e militarista dell’ordine e della disciplina. Scioperare contro il patriarcato significa reclamare l’immediato cessate il fuoco su Gaza per fermare il genocidio, la fine dell’apartheid e dell’occupazione coloniale in Palestina».

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Scioperare significa dire basta alle politiche che organizzano e gerarchizzano la società: la scuola classista dei ricchi divisa da quella dei poveri con le «femmine» tenute a debita distanza dalle materie Stem perché «non sarebbero portate». Con la conseguenza di indirizzarle solo verso un certo tipo di professioni, con redditi più bassi e quindi pensioni più basse.

Quando lavorano e non devono, invece, stare a casa a occuparsi della famiglia perché il sistema politico italiano, nella corsa ai tagli, ha trovato possibile sacrificare il welfare. Un sacrificio, appunto, che ha avuto un impatto diretto sulle donne e molto meno sugli uomini. Il 37% delle donne italiane non ha un conto in banca. La dipendenza economica è come un macigno che, al pari della povertà, rimbalza da una generazione all’altra.

Una società gerarchizzata a partire dalle divisioni geografiche (addirittura acquisite e formalizzate dall’autonomia differenziata), che schiaccia le donne e tutte le soggettività che non si riconoscono in un mondo binario, che razzializza i propri cittadini e riduce le lotte a un problema di ordine pubblico da reprimere: sono tutte tensioni con cui facciamo i conti e pesano anche su chi crede di trovarsi dal lato vincente della società. La destra li ha assunti nel proprio programma e li ha resi espliciti.

E poi c’è la violenza. Dalle continue offese che sminuiscono alle percosse, alle molestie, al revenge porn, allo stupro su su fino al femminicidio: controllo, possesso, esibizione di potere, desiderio di annientamento. A tutto questo si può replicare solo con la ribellione. La risposta al femminicidio di Giulia Cecchettin ha reso lo scorso 25 novembre un atto di rivolta. Continuiamo la rivolta

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MEDIO ORIENTE. L’«inviato di pace» americano appena arrivato in Libano. In realtà è molto di più: ha elaborato e dato corpo alle strategie internazionali Usa

 

C’è un uomo che sa come si provocano le guerre e, forse, anche come si potrebbero chiudere o alimentare. Un americano tranquillo che ha già dato martedì la sua sentenza: «Una guerra lungo il confine Libano-Israele non sarebbe “contenibile”». Si chiama Amos Hochstein ed è l’«inviato di pace» americano appena arrivato in Libano. In realtà è molto di più: ha elaborato e dato corpo alle strategie Usa in Europa e Medio Oriente.

È stato lui che fece saltare il South Stream, il gasdotto tra Russia-Turchia-Italia che doveva aggirare l’Ucraina, a lui è ricorso Biden per chiudere il North Stream 2, la pipeline tra la Russia e la Germania. La vera causa del conflitto con Mosca. Washington si gioca ora in Medio Oriente la carta Hochstein – che nel 2022 ha mediato l’accordo tra Libano e Israele sui confini marittimi – per evitare un’altra guerra tra gli Hezbollah e gli israeliani in un mix esplosivo con il massacro in corso da mesi nella Striscia di Gaza.

Hochstein è un strana figura di mediatore che rivela le contraddizioni laceranti della politica estera americana, in bilico tra una diplomazia dai contorni ambigui e mosse destabilizzanti di portata devastante, oscillante tra la fedeltà agli interessi primari di Washington, quelli dello stato ebraico e soprattutto delle lobby affaristiche dove l’aspetto etnico passa ormai in secondo piano.

Hochstein un giorno è pompiere e un altro un piromane incendiario. Nasce in Israele il 4 gennaio 1973 da genitori con doppia cittadinanza israeliana e americana. Allevato nell’ebraismo ortodosso moderno, Hochstein trascorre infanzia e gioventù in Terra Santa, servendo persino nelle forze armate israeliane dal 1992 al 1995, per poi trasferirsi negli Stati Uniti.

Hochstein si forma nella pancia del Partito Democratico, per conto del quale viene assoldato come consigliere politico, poi si sposta nel privato, alla Cassidy & Associates dove Hochstein costruisce il suo curriculum: lobbismo per conto di grandi compagnie energetiche e intermediazione tra il governo degli Stati Uniti e le cancellerie straniere (è l’autore dell’accordo tra gli Usa con Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, dittatore della Guinea equatoriale e golpista di lungo corso).

Hochstein rientra in politica in coincidenza dell’entrata in scena di Barack Obama e dal 2011 si occupa dell’Ufficio risorse energetiche del dipartimento di stato diventando il consulente dell’allora vicepresidente Biden sullo spinoso dossier ucraino.
Hochstein così entra nel consiglio di supervisione del colosso energetico ucraino Naftogaz. E come tutti sanno il figlio di Biden, Hunter, è stato coinvolto in affari poco chiari nel settore del gas proprio in Ucraina.

Hochstein è lo stratega dell’attacco frontale ai progetti del Cremlino di trasportare il gas in Europa aggirando l’Ucraina. Per primo salta il South Stream, il gasdotto sviluppato congiuntamente da Eni (2 miliardi di commesse Saipem) con Gazprom, Edf e Wintershal. Il progetto è sostenuto dal governo Prodi (2007) e poi anche da Berlusconi che nel 2009 firma un accordo direttamente con Putin ma nel dicembre 2014 l’Eni, sotto la pressione americana per l’occupazione russa della Crimea, vende le sue quote a Gazprom e il gasdotto viene completato dopo un’intesa Putin-Erdogan.

Come “compensazione” Hochstein si è adopera in ogni modo per attivare il Tap, il gasdotto alternativo con l’Azerbaijan, maggiore fornitore di petrolio di Israele. Non è un caso che la Turchia e Israele, ma anche l’Italia, abbiamo sostenuto l’offensiva azera contro l’Armenia cristiana, alleata di Mosca, che nel settembre scorso pone fine all’entità autonoma nel Nagorno-Karabakh.

Nel 2021 Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, gli affida i negoziati con la Germania per congelare il gasdotto Nord Stream 2, ritenuto un’arma geopolitica del Cremlino da eliminare. Ma a differenza del South Stream, che anni prima era ancora a livello progettuale, il North Stream 2 era già stato completato. La fine è nota. Il cancelliere tedesco Scholz è convocato alla Casa Bianca l’8 febbraio 2022 e Biden proclama “Non ci sarà più un Nord Stream 2. Il 24 Putin invade l’Ucraina, dà il via al massacro e il gasdotto verrà poi fatto saltare, come ha riportato la stampa Usa, da un gruppo pro-Kiev.

E oggi Hochstein, un personaggio che sta a cavallo tra la diplomazia, il lobbysmo e l’agente provocatore, è colui che deve convincere Israele a non fare la guerra in Libano contro Hezbollah (almeno a parole). Come vedete siamo in buone mani

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Ultimi fuochi pre-elettorali in Abruzzo. Schlein con Bersani a Sulmona: «Qui si fa l’alternativa a Meloni». Il candidato D’Amico: «Non hanno fatto nulla e radicalizzano lo scontro». Il campo largo punta sull’effetto Todde, la destra lo teme: un’altra sconfitta dopo quella in Sardegna sarebbe un allarme rosso per il governo

ABRUZZO AL VOTO. Intervista a Luciano D’Amico, il candidato progressista alle elezioni regionali di domenica

 Luciano D’Amico

Luciano D’Amico, l’ormai celebre professore di economia che domenica potrebbe sconfiggere Giorgia Meloni nel feudo d’Abruzzo, arriva a Sulmona attorno alle sette di sera, dopo un’altra lunga giornata in giro per la sua regione. Ad aspettarlo una piazza affollata e calorosa, ma non è una novità: in queste ultime settimane, spiega «il clima è cambiato, l’elettorato progressista dopo la Sardegna ha capito che possiamo farcela anche qui». Prima di salire sul palco si ferma a parlare col manifesto.

Meloni martedì agli imprenditori di Teramo ha detto che se il governatore Marsilio non fosse riconfermato ci sarebbero «effetti devastanti» per l’Abruzzo.
A me pare una gigantesca minaccia. Marsilio insiste molto nel dire che lui è amico della premier, che loro sono una filiera e questo farà bene alla regione. A me pare una implicita accusa di scorrettezza a Meloni, come a dire che elargisce le risorse pubbliche in base al colore politico di chi governa i territori. Che per palazzo Chigi ci sono figli e figliastri, l’amichettismo elevato a regola di comportamento tra istituzioni. Mi rifiuto di credere che un premier si comporti così, al suo posto farei di tutto per scrollarmi di dosso questa immagine. Però non mi stupisce: in questi anni la destra si è mossa così in regione, nell’erogare i fondi ha privilegiato i comuni con governi politicamente omogenei.

Lei cosa direbbe al mondo delle imprese che teme che il rubinetto dei soldi si possa chiudere?
Che qui in Abruzzo c’è una classe imprenditoriale che ha dato vita nei decenni a un forte sviluppo, e dunque non hanno alcun bisogno delle benevolenza pelosa del governante di turno. E che non devono rinunciare alla loro libertà di pensiero: se i finanziamenti spettano all’Abruzzo arriveranno, non c’è spazio per ricatti

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