A DUE VOCI . Suleiman e Elie, dalle armi a «Combatants for peace»
Abbiamo incontrato Suleiman Khatib e Elie Avidor, attivisti di “Combatants for Peace” che dal 7 al 10 marzo saranno in Italia, ospiti di “Circonomia” per partecipare al Festival della transizione ecologica che si terrà a Fano dal 7 al 10 marzo prossimi.
Raccontateci brevemente chi siete e come introdurre il lavoro di “Combatants for Peace” (CfP).
Suleiman Khatib: Sono nato e cresciuto nell’area di Gerusalemme, mi sono avvicinato alla politica quando avevo 15 anni prendendo parte all’Intifada. Ho passato più di 10 anni in carcere, ho studiato la storia e imparato a conoscere Ghandi e Mandela, a ragionare in modo diverso sul mondo e sui conflitti e a conoscere la forza della non violenza che da allora ho deciso di seguire come strategia per la liberazione dei nostri popoli. CfP è un movimento binazionale in cui palestinesi e israeliani collaborano per mettere fine all’occupazione e per pace e libertà per tutti. Il nostro lavoro si incentra anche sulle nostre storie personali. CfP è stato fondato da persone che hanno combattuto, vivendo sui loro corpi queste esperienze, che sanno che la guerra e la violenza non sono né la risposta né la soluzione.
Elie Avidor: Sono cresciuto a Haifa nei primi anni dalla fondazione di Israele, quando tutto ruotava intorno al “noi contro tutti”. Entrare nell’esercito era un fatto scontato. Nella guerra dello Yom Kippur ho combattuto sulle alture del Golan. Sono stato a lungo all’estero. Una volta tornato, ho saputo della cerimonia in cui famiglie israeliane e palestinesi nel giorno della commemorazione dei soldati caduti condividono il lutto per i caduti di entrambe le parti. Lì ho ascoltato storie di dolore, capendo che tutti soffriamo e che siamo parte di questo gioco. Ora passo la maggior parte del mio tempo aiutando i pastori palestinesi a difendersi dalle vessazioni dei coloni e dell’esercito. Stando insieme a loro, ascolto la loro narrazione e gli racconto della mia, parliamo invece di combattere.
Come siete riusciti ad affrontare il 7 ottobre e quello che è successo dopo?
S.K.: Ci aspettavamo una crisi. Abbiamo fatto del nostro meglio per tenere insieme la comunità mostrando empatia per la sofferenza delle persone da entrambe le parti. In periodi come questi, le persone in risposta al trauma ritornano alle loro rispettive tribù. Non siamo d’accordo su tutto, ma concordiamo sul fatto di continuare a parlarci. Non facciamo a gara tra chi soffre di più. Non vogliamo essere parte della macchina di disumanizzazione, ma di una soluzione che restituisca una dimensione umana alla sofferenza. La narrazione corrente è “noi o loro”. CfP è riuscito a mantenere la sua nuova narrazione “noi e loro insieme”. Non nascondiamo i nostri sentimenti né alle nostre comunità né tra noi. Io sono palestinese, c’è anche un palestinese di Gaza, questo non chiude il nostro cuore all’empatia per le vittime israeliane. Per noi l’occupazione non legittima nuocere a civili come è successo il 7 ottobre. E le atrocità commesse da Hamas non legittimano la reazione di Israele, gli attacchi aerei e quello che sta succedendo ora.
E.A.: In questi 17 anni le relazioni sono diventate così personali, forti e intime, da renderci resilienti. Abbiamo già vissuto guerre in passato. Questa volta è molto peggio di quanto sia mai stato. C’è anche chi trae vantaggio dalla guerra. Quello che vogliono i coloni è l’Armageddon, il giorno in riusciranno a scacciare tutti i palestinesi. Aspettavano solo il momento e ora pensano che sia arrivato. Nella settimana del 7 ottobre ho pensato che fosse ancora più importante essere presente nei territori occupati. La gente mi diceva che ero pazzo. 16 comunità hanno subito gravi violenze e, dove siamo presenti, riusciamo a evitare che siano cacciate dal loro territorio.
Cosa pensate delle proteste in corso in Israele? Cosa succede nei territori occupati?
E.A.: Prima della guerra c’erano manifestazioni contro le riforme che il governo tentava di fare, ma senza un nesso con l’occupazione. Noi insistevamo che era necessario perché l’occupazione è la causa di tutto il male: le pratiche che il governo porta avanti in Cisgiordania, di fatto sono state trasferite in Israele. Volevano trasformaci in una dittatura. All’inizio di questa guerra nessuno manifestava. Ora le manifestazioni sono riprese, molte sono per gli ostaggi. Noi continuiamo a scendere in piazza contro l’occupazione. Ultimamente la polizia è stata estremamente violenta. Non sappiamo dove andremo a finire, ma la gente è così arrabbiata che dovrà esserci un cambiamento. Facciamo manifestazioni in Israele e anche in Cisgiordania con i nostri amici palestinesi. Per loro i rischi sono enormi. Se li riprendono, per loro è finita. Non possono più avere permessi per andare a lavorare in Israele, ne verranno colpite le loro famiglie e chissà cos’altro li aspetta. Per quanto possiamo manifestare, abbiamo bisogno di aiuto dall’esterno.
S.K.: C’è un sistema che controlla la terra, dal fiume al mare governa la stessa mentalità, lo stesso sistema razzista e di apartheid. Viviamo nello stesso Paese con diversi diritti. A breve termine servono ovviamente gli aiuti umanitari, ma in prospettiva dobbiamo trovare un modo di vivere gli uni con gli altri. Dobbiamo continuare a portare speranza proponendo un modello alternativo alla radicalizzazione. Le persone che sono nate e che vivono all’interno di un conflitto non riescono a uscire da quella logica. Ora da entrambe le parti la leadership non è interessata alla pace, nella loro agenda politica c’è la guerra. Ma la mia speranza è che le persone escano fuori insieme e chiedano una soluzione politica. Guarda il Sudafrica o l’Irlanda. Anche lì la gente combatteva e ora sono al governo. Senza cambiamento politico, le cose possono andare fuori controllo come vediamo ora, il pericolo di una guerra regionale è alle porte e la dobbiamo prevenire perché le generazioni a venire abbiano un futuro
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La comunicazione di massa è un tema di conflitto: in gioco c’è la tenuta democratica del Paese. Ne parliamo con Vincenzo Vita, Articolo 21
Mercoledì 6 marzo, al Centro Congressi Frentani di Roma si terrà un incontro, organizzato da Cgil, Slc e Articolo 21, dal titolo “No signal. Al lavoro per una nuova società dell’informazione”. A partire dalle 9.30 sarà trasmesso in diretta su Collettiva. Lo scopo dell’iniziativa è netto e chiaro: dare un preciso messaggio, il tema dell'informazione è tema di conflitto, in gioco c’è la tenuta democratica dl Paese. Ne parliamo con Vincenzo Vita, un passato e un presente nel mondo dell’informazione e della comunicazione – è stato anche sottosegretario alle comunicazioni nel primo governo Prodi – oggi garante di Articolo 21.
Lo dicevi, stanno succedendo cose inaudite. Tra le cose inaudite, l'ultima in ordine di tempo è la messa sotto inchiesta dei tre colleghi del quotidiano Domani che hanno fatto semplicemente il proprio lavoro: hanno avuto delle informazioni, le hanno verificate, hanno controllato che fossero vere e le hanno pubblicate.
Il caso del Domani è un caso, purtroppo, di scuola. Nel senso che si incriminano dei giornalisti che fanno fino in fondo il proprio mestiere, anche sotto il profilo proprio deontologico. È questo il lavoro di un giornalista: quando viene a conoscenza di una notizia ha l'obbligo di parlarne, di scriverla, di dirla, tanto più quando una notizia ha un valore sociale va resa nota. Le eventuali implicazioni, ad esempio, tra un ministro e aziende non sono un segreto di Stato, sono una vicenda che riguarda l'opinione pubblica che deve sapere. Quei giornalisti del Domani, a cui va assolutamente la massima solidarietà, hanno fatto quello che è proprio dell'essenza del giornalismo.
C'è un altro giornalista che ha fatto fino in fondo al proprio mestiere e proprio per questa ragione rischia di rimanere in carcere per tutta la vita. Ovviamente mi riferisco ad Assange: rischia la vita ma in realtà dovrebbe essere considerato un maestro dei giornalisti e delle giornaliste del mondo.
Negli anni ‘60 e ‘70 Assange avrebbe avuto il premio Pulitzer: ha fatto né più né meno di quello che fece il Washington Post pubblicando i Pentagon Paper sulla guerra in Vietnam. L'ha fatto con tecnologie più evolute, certo, usando la crittografia e con tanti computer in giro per il mondo, invece del Pulitzer rischia la condanna a morte perché ha messo il naso nelle cose segrete delle guerre e chi mette il naso lì si scotta. Ma in gioco c’è, anche e forse soprattutto, il diritto dei cittadini e delle cittadine del mondo a sapere se le guerre che si sono combattute sono state dichiarate, tra l’altro, sulla base di una menzogna.
Così come è interesse dei cittadini e delle cittadine italiane sapere se il proprio ministro difende i cittadini e le cittadine italiane come da giuramento sulla Costituzione, o ha anche degli interessi, diciamo così, più privati.
Questo è il punto chiave: quando diciamo che la libertà di informazione, che l'articolo 21 della Costituzione è sotto botta, è attaccato, si sta ledendo pesantementel'autonomia dell'informazione. L’informazione, come la magistratura, sono contropoteri e in un momento in cui si tende addirittura al premierato. Vista la proposta Casellati in onore della Meloni, si potrebbe arrivare all'ipotetico referendum sulla riforma costituzionale a reti unificate. E forse questo è proprio uno degli obiettivi che si intendono raggiungere.
Da qui l'attacco ai giornalisti e alle giornaliste, più in generale al mondo dell'informazione, che non si esplica solo con l'incriminazione dei colleghi di Domani. Sono sul tappeto una serie di norme volute dal governo che limitano il diritto all'informazione.
Sì, proprio recentemente è stata pubblicata in Gazzetta ufficiale la legge di delegazione europea con il cosiddetto emendamento Costa che vieta di pubblicare integralmente le ordinanze di custodia cautelare. Anche in qui siamo di fronte a un caso di scuola: le ordinanze cautelari sono per loro natura un atto pubblico perché la persona interessata, ma anche cittadini e cittadini, hanno il diritto di conoscere perché si procede a un fermo. E il sunto non sta in piedi: chi e con quale punto di vista fa il sunto di decine di pagine di ordinanza? Per vietarne la pubblicazione si usa a sproposito il diritto alla privacy dei comuni cittadini, ma è proprio la pubblicazione integrale che assicura trasparenza e quindi tutela i più fragili. In realtà il diritto alla privacy che si vuole tutelare è quello dei potenti. Ma la volontà di limitare l’informazione non finisce qui, c’è – ad esempio - il ricorso crescente alle querele temerarie. Solo Report ne ha ricevuto una montagna, in realtà si tratta di una vera e propria forma di censura. L'utilizzo della querela è utile non tanto sul piano penale visto che quasi mai si arriva a condanna, ma perché evocano il risarcimento in sede civile. Si rischia di preferire – comprensibilmente, viste le condizione di precarietà assai diffusa nel mondo dell’informazione - di non rischiare.
Le querele temerarie diventano uno strumento per costringere all’autocensura i giornalisti?
Il tema dell’informazione deve essere coniugato con quello del lavoro. Il giornalismo è una delle professioni ad alto tasso di precarietà e anche di lavoro povero. Come è immaginabile che un collega si esponga a cuor leggero al rischio querela? La querela è una forma di censura e di autocensura. Uno schizzo autoritario.
E poi c’è il tema delle intercettazioni.
Sulle intercettazioni c'è molta cattiva propaganda. Anche in questo caso non riguardano le persone senza potere. Limitare o vietare le intercettazioni serve a tutelare chi ha potere, colpisce la libertà di conoscere. Del resto, domanda molto semplice, quando non esistevano le tecnologie di cui disponiamo oggi, per conoscere ci si avvaleva di cosiddetti informatori che riportavano agli inquirenti i “sentito dire. Le intercettazioni sono più garantiste, si ascoltano conversazioni reali e non riportate. È esattamente il contrario di quello che temono i falsi garantisti. È più garantista conoscere le intercettazioni piuttosto che basarsi sul sentito dire di vicini e conoscenti. In passato tante volte è stato negato il visto per gli stati Uniti, perché qualche voce ti descriveva come comunista.
Un altro capitolo in questa fase molto complessa riguarda ciò che accade dentro la Rai che, ricordo, è servizio pubblico.
Una grave manomissione della già debole normativa invecchiata e fragile è stata la legge del dicembre 2015 a cura di Matteo Renzi: nel trasferire il controllo sulla Rai dal Parlamento al governo, e introducendo la figura dell'amministratore delegato, ha reso possibile al governo attuale, alla Meloni, di fare la cavalcata nera che è in corso. Oggi assistiamo all’occupazione dell’azienda, che è cosa assai diversa dalla tanto vituperata lottizzazione che, magari in maniera maldestra, garantiva all’interno del perimetro Rai la rappresentazione dei rapporti di forza del sistema politico. Adesso è un'occupazione pure semplice.
Se tutte le cose che hai detto sono reali, il problema non riguarda solo e soltanto l'informazione, chi la fa e chi la dovrebbe fruire. L’equilibrio costituzionale del nostro Paese si fonda su pesi e contrappesi, informazione e magistratura sono i contrappesi del potere che rendono equilibrato il sistema. Cosa sta succedendo per davvero?
Sta succedendo quello che è già successo in Polonia, in Ungheria. Si sta cercando di affermare quella che i politologi chiamano ‘democratura’, una forma di autoritarismo che si libera dai contropoteri, li indebolisce, li attacca, li mette in un angolo. Riguarda la magistratura e riguarda, per l'appunto, l'informazione.
Cosa occorre fare per scongiurare questo disegno?
Far crescere forte la consapevolezza che l'informazione non è solamente un tema di convegni e seminari, ma è anche un tema di lotta. Questo lo scopo dell’iniziativa organizzata da Slc, Cgil e Articolo 21 mercoledì 6 marzo che Collettiva trasmetterà in diretta online a partire dalle 9.30. Pensiamo oggi sia inevitabile e doveroso considerare il campo dell'informazione, in generale la comunicazione di massa, un campo di grandi lotte, di grande conflitto. Senza conflitto non si va da nessuna parte. Conflitto che non riguarda solo giornalisti e giornaliste, ma tutto il lavoro nella società dell’informazione. Di più, è necessario sottolineare che questo è un cruciale capitolo del capitalismo attuale, quello delle piattaforme: che si avvale del segreto, del controllo delle fonti, per indebolire qualsiasi soggettività autonoma e indipendente. E sullo sfondo c’è, ovviamente, quella terza guerra mondiale a pezzi di cui parla Papa Francesco e che riguarda anche l'informazione. Sono più di 100 i giornalisti morti a Gaza. In gioco c’è la tenuta democratica del Paese. Spetta quindi a tutte e a tutti mobilitarsi e resistere.
Commenta (0 Commenti)La Nave Duilio in navigazione nel Mar Rosso - foto Ansa
Ieri Camera e Senato hanno approvato a larghissima maggioranza, tranne fortunatamente il voto contrario di Alleanza Verdi Sinistra, il documento del governo per la partecipazione dell’Italia alla missione militare navale Aspides, della quale abbiamo il comando tattico mentre la guida strategica è della Grecia. E lo ha fatto non solo dopo una serie di voti incrociati su altre “missioni” del governo per le quali erano state presentate anche altre mozioni, del Pd e del M5S. Ma soprattutto dopo la relazione del ministro degli esteri Tajani, una sintesi di gravi non-detti e ambiguità pesanti.
La prima cosa infatti che il ministro non ha detto è che in una azione di guerra la nave militare Caio Duilio si è già trovata ben prima del voto in Parlamento. Cosa non da poco, siamo al fatto compiuto per il quale la democrazia serve come surrogato a posteriori. Più rilevante certo la giustificazione del perché anche stavolta partono le cannoniere: per il libero commercio, che sarebbe messo a repentaglio dagli Houthi, e per il diritto internazionale. Sul libero commercio c’è da dire che è ormai in corso da anni un conflitto protezionistico, fatto di dazi e prebende capitalistico-finanziarie di carattere ipernazionalista (c’è anche l’America di Biden purtroppo, che è First quanto quella di Trump), che vede come attori non gli Houthi ma i competitor internazionali, non solo Cina contro Usa e viceversa, ma anche Usa vs Ue.
Certo è vero che per quel che riguarda l’Italia è dal Canale di Suez che transita il 40% esportato del Made in Italy; e che dall’inizio dei sabotaggi degli Houthi di questa rotta, la maggior parte del traffico doppia il Capo di Buona Speranza e raggiunge i porti europei dall’Oceano Atlantico, con relativo aumento dei prezzi di assicurazioni e costo dell’invio di container. Un fatto è certo però: il boicottaggio armato degli Houthi yemeniti – appena usciti da una guerra civile di 8 anni dove è intervenuta l’Arabia saudita e dove hanno fatto vittime anche le bombe italiane – non c’era prima della crisi di Gaza; “crisi” andata ben oltre la catastrofe, denuncia l’Onu, con la risposta indiscriminata e criminale al massacro del 7 ottobre di Hamas, del governo israeliano per questo ora imputato all’Aja per “plausibile genicidio – che vede più di due milioni di persone ridotte alla fame, in fuga dal tiro al piccione dei raid, con 12mila bambini e 9mila donne uccisi (siamo a 31mila vittime civili, migliaia e migliaia di ferite e mutilati, una litania infinita di sangue).
Gli Houthi dichiarano che la loro iniziativa militare è per ridurre la pressione dell’esercito israeliano contro i palestinesi. Vuoi vedere che, in realtà, il commercio internazionale e quello del Made in Italy è a repentaglio perché continua la strage a Gaza, quella che nemmeno il povero Biden riesce o vuole fermare? Perché Netanyahu va a briglie sciolte, tanto all’Onu gli Usa mettono il veto a qualsiasi risoluzione sul cessate il fuoco, la sola che lo obbligherebbe a fermare quella che da subito ha dichiarato essere una “vendetta”. Insomma, dovrebbe finire questa per far finire il boicottaggio degli Houthi, non allargare il conflitto mediorientale, nel Mar Rosso e in Libano. II diritto internazionale dice che bisogna fermare l’esercito israeliano, battersi all’Onu per un cessate il fuoco incondizionato quanto immediato, riconoscere lo Stato di Palestina subito (lo Stato d’Israele c’è già ed è ampiamente riconosciuto) . Non risulta che su questo diritto l’Italia stia agendo, se non con tante, troppe parole. Peggio, confermiamo il tagli dei fondi all’Unrwa, ma ci vantiamo di minimi gesti “umanitari” quanto spettacolari, mentre a Gaza più di due milioni di esseri umani, con centinaia di migliaia di bambini – testimoni di questo misfatto storico – , muoiono di fame e seppelliscono i familiari nelle fosse comuni.
Ma il vero non detto è un altro. Ed è “lessicale”. C’era nel documento Tajani, immaginiamo concordato con i comandi militari, l’avverbio “eminentemente” a rivelare, sotto sotto, la natura della missione presentata come “difensiva”. Una contraddizione evidente che rendeva chiaro come nella difficoltà della sola difesa di fronte ad un attacco, poteva pure starci il “caso” di una risposta offensiva. A parte la considerazione su azioni e armi difensive che invece diventano offensive (vedi l’Ucraina). Ma nell’intento governativo di avere l’approvazione – il deja-vu di nuovi volenterosi – anche dell’opposizione Pd e M5S alla missione militare, questo avverbio su richiesta è stato cancellato. Tutti d’accordo dunque, tutti uniti in un “campo larghissimo” che porta l’Italia ancora una volta in guerra.
Giacché quell’avverbio che prima non riusciva a sottenderla, adesso, appena tolto, nasconde malamente l’”eminenza” della guerra. Le navi italiane nella missione Aspides sono al seguito, sulla scia navale, di ben altre missioni – c’è un’intera flotta di oltre 5 missioni occidentali nel Mar Rosso – in particolare della armatissima task force Prosperity Guardian a guida anglo americana che – al contrario della decisione del Consiglio di sicurezza Onu del 10 gennaio scorso che per far cessare gli attacchi Houthi ribadisce il diritto degli Stati alla “difesa” – invece colpisce “eminentemente” gli Houthi anche a terra. Le nostre navi che “non li bombardano” e sono ingaggiate “solo” per rispondere al fuoco, sono però lì sulla scia, appena dietro quelle in battaglia, in “offesa”, cioè in guerra. E non basta la bandiera. E’ augurabile, ma è difficile che droni e siluri le sappiano distinguere
Commenta (0 Commenti)INTERVISTA. La vicepresidente Pd: «La sanità non deve essere terreno di scontro col M5S. Anche noi siamo per gli ospedali pubblici, l’accordo sul programma in Piemonte è già al 90%. Io resto in campo per un fronte ampio. Il tempo a disposizione è quasi finito, non siamo la Lombardia, da noi la partita si può riaprire»
Chiara Gribaudo, vicepresidente del Pd, da mesi lei auspica un ampio fronte progressista anche in Piemonte. Ma neppure dopo la vittoria in Sardegna l’alleanza Pd-M5S riesce a decollare.
La Sardegna ci dimostra che uniti si può vincere, e che questa destra non è imbattibile se mettiamo l’interesse dei cittadini davanti a tutto e costruiamo una coalizione competitiva e in grado di mobilitare un elettorato progressista che, altrimenti, tende a rifugiarsi nell’astensione. Certo, nei territori ci sono condizioni diverse, ma dai tavoli sul programma di questi mesi è emerso che in Piemonte col M5S siamo d’accordo al 90% sulle cose da fare. E poi ricordo che abbiamo fatto 5 anni di opposizione insieme alla giunta di centrodestra guidata da Cirio.
Pesano le divisioni di Torino, dove i 5s sono all’opposizione del sindaco Pd Lo Russo che, a sua volta, fece una durissima opposizione a Appendino.
Ci sono certamente delle ruggini, ma è dovere comune guardare al futuro e non al passato. Non stiamo scegliendo il candidato sindaco di Torino, ma il presidente della Regione.
I 5S hanno indicato la sanità come terreno di divisione. Vi accusano per aver dato l’ok al nuovo ospedale di Torino nell’area del parco della Pellerina. E di condividere con Cirio l’idea di un partenariato pubblico privato. La sanità rischia di essere la pietra della discordia?
Penso di no. Cirio per 5 anni non ha fatto nulla sull’edilizia ospedaliera, le liste di attesa sono aumentate e ora siamo tra le regioni peggiori. Le proposte sul nuovo ospedale di Torino, città che ha assolutamente bisogno di una nuova struttura, sono tutte da verificare. Per ora siamo agli annunci, materia in cui Cirio è piuttosto abile. A tutti i potenziali alleati dico: non facciamoci prendere in giro dalla propaganda della destra. Se vinceremo insieme le regionali potremo dare vita a un piano socio-sanitario regionale, che è latitante, e valutare le soluzioni migliori.
Appendino accusa il sindaco Lo Russo di avere su questo tema una forte intesa con Cirio.
Il sindaco ha come priorità la realizzazione di un nuovo ospedale e si muove nel perimetro della normale collaborazione tra istituzioni. Una nuova giunta regionale potrà affrontare con uno spirito assai più concreto la sfida dell’edilizia sanitaria. Io sono da sempre per la sanità pubblica e ho delle perplessità sul partenariato con il privato (lo strumento che sarà usato a Torino, ndr). Nella bozza di programma che stiamo scrivendo con il centrosinistra c’è scritto che la priorità saranno gli ospedali totalmente finanziati dal pubblico.
Il 16 marzo ci sarà la direzione del Pd piemontese. Si vota a giugno e ancora non c’è un candidato alla presidenza. Dopo la Sardegna Conte non vi sta ricambiando la cortesia, in Piemonte e neppure in Basilicata.
È evidente che il tempo a disposizione è quasi finito, e ora bisogna tirare le somme. Dobbiamo riprendere il confronto di merito, e sciogliere il nodo dell’alleanza. Prima si decide la coalizione, poi vengono i nomi dei possibili candidati.
Lei si è fatta avanti già in autunno per unire il fronte giallorosso.
Io ho dato la mia disponibilità soprattutto per segnalare che il Piemonte è l’unica grande regione del Nord dove la destra non è storicamente dominante: c’è sempre stata alternanza. E ora al governo del Piemonte c’è una destra che mette a rischio persino il diritto all’aborto. Sono certa che, anche nel mondo liberale fuori dal perimetro della sinistra, la maggioranza dei piemontesi è pronta a mobilitarsi se vede un’alternativa credibile in campo. Che oggi non c’è.
Cosa direbbe a Conte e Appendino che recalcitrano?
Che il Pd in Sardegna è stato generoso, al punto da subire una scissione, ma questo ha pagato nelle urne. E che ora ci aspettiamo che questo sforzo unitario sia riconosciuto trovando insieme le soluzioni migliori anche in altre regioni.
A volte pare che per i 5s i progetti siano credibili solo quando il candidato lo scelgono loro.
Sarebbe un errore pensarlo, anche tra noi ci sono personalità inclusive. Il punto non sono i nomi, ma la volontà di cambiare insieme il destino di una regione che ha visto aumentare la povertà, soffre le crisi industriali, con il trasporto regionale che non funziona e ha un grande bisogno di rilancio.
Lei resta candidata anche se salta l’accordo con i 5S?
Farò quello che serve. Ritengo che, in ogni caso, al Pd serva una candidatura competitiva, in grado di recuperare nell’astensionismo, credibile per i tanti elettori che hanno scelto Schlein e hanno chiesto un cambiamento anche al Pd. A Torino e in Piemonte non si può fare finta che non ci stato il congresso del 2023.
C’è il rischio di una divisione tra partito locale e nazionale come sta accadendo in Basilicata?
Visto che è stata chiesta una mano al nazionale, auspico che ogni decisione sia condivisa tra i due livelli, come avviene in un partito serio
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POLITICA. Nel confronto tra i due partiti, se per le dinamiche competitive elettorali prevalgono i rapporti di forza, per gli aspetti sociali, culturali e territoriali c’è invece complementarietà. Il programma di una coalizione alternativa alla destra non è un “piglia tutti”, deve individuare interlocutori, ricomporre interessi oggi frammentati. Decisiva la visione unitaria
Elly Schlein e Giuseppe Conte - Lapresse
Emerge una questione, anche alla luce delle elezioni sarde. L’alleanza vincente tra il Pd e il M5s è stata una felice eccezione? Potrà avere un seguito, e su che basi? Il dubbio è che la competizione tra le due forze politiche possa minare la credibilità di un vera alleanza politica e che prevalgano gli effetti distruttivi di un’esasperata conflittualità.
Per provare a rispondere occorre distinguere tra il piano elettorale, con le sue dinamiche competitive specifiche, e la valutazione invece delle caratteristiche sociali, culturali e territoriali degli elettorati del Pd e del M5S. Per il primo aspetto, è indubbio che contino i rapporti di forza: è fisiologico che, anche all’interno di una coalizione, ciascun attore punti ad acquisire le migliori posizioni. Per l’altro aspetto, il dato cambia: e il termine che appare più appropriato è un altro: la complementarietà.
Da molte analisi emerge come tra gli elettorati dei due partiti vi sia solo una parziale sovrapposizione. I dati sono noti, e non è possibile qui riportarli (si veda in dettaglio l’indagine Itanes, pubblicata nel volume “Svolta e destra?”, edito dal Mulino, p. 57; ma analoghi risultati emergono da altre indagini, tra cui quelle di Ipsos): in sintesi, il Pd è (relativamente più) forte tra i pensionati e gli studenti; tra dirigenti, imprenditori e professionisti; tra i laureati e i percettori di redditi medio-alti; debolissimo tra i disoccupati; forte tra gli over 65 e debole nelle fasce centrali di età; molto più forte nelle grandi aree urbane che nei piccoli comuni; mediamente presente in tutte le aree del paese, con una maggiore presenza nelle ex-aree rosse (ma con appena il 26%), debole nel Sud e nelle isole (13-14%).
Viceversa, il M5S, rispetto alla sua forza media nazionale (15%), è forte nella fascia 34-44 anni, tra i detentori di un titolo di studio medio superiore, tra i disoccupati, e tra i percettori della fascia più bassa di reddito (fino a 19 mila euro). E ottiene, nel 2022, il 31% dei voti al Sud e il 26% nelle isole.
Ora, è ovvio che una complementarietà sociale e territoriale non si traduce immediatamente in una potenziale coalizione politica: ne costituisce però una base essenziale, perché permette di individuare i riferimenti comuni di un programma politico. A qualcuno potrà sembrare desueto questo approccio: ma se pure il voto non si divide più sulla base di nette fratture di classe, la posizione sociale conta, e gli interessi contano. Il programma di una futura coalizione alternativa alla destra non può essere un programma “piglia-tutti”, dovrà individuare i propri interlocutori privilegiati, fare delle scelte, ricomporre segmenti e interessi sociali oggi frammentati, ma non incompatibili. Non occorre qui richiamare i capitoli di questo programma: occorre però che, sia il Pd che il M5S, riescano a trasmetterne una visione unitaria. E su questo ancora non ci siamo.
Ci sono poi i dati politici: la stessa indagine sopra citata analizza un indicatore specifico, la propensione al voto per altri partiti. Ebbene, se com’era prevedibile vi è una forte contiguità tra gli elettori della destra, nell’altro campo sono poche le aree di intersezione, ovvero sono pochi quelli che prendono in considerazione la possibilità di votare per un altro partito della stessa area. Il problema è: si tratta di una distanza ideologica incolmabile, o piuttosto indica il terreno di una possibile integrazione in termini di alleanze? La risposta non può che essere affidata alla politica.
È noto come l’attuale elettorato del M5S sia oramai essenzialmente composto da ex-elettori della sinistra. Non è più l’elettorato trasversale del 2013 e del 2018. Ma questo di per sé non semplifica le cose, anzi: è un elettorato che ha alle spalle una profonda rottura con tutto ciò che è stata “sinistra” negli ultimi dieci anni, e non è facile diradare il peso di una diffusa ostilità maturata verso il Pd. La ricucitura non è semplice, ma forse è iniziata, e può e deve essere accelerata, pazientemente. D’altra parte, il Pd deve fare la sua parte: in dieci anni ha subito uno smottamento che ha pochi precedenti nella storia elettorale italiana, un esodo di sei milioni di voti, – un fatto enorme che i nostalgici del partito “riformista” spesso tendono bellamente a rimuovere; il segno di una pesante caduta nella capacità di tenere insieme il blocco sociale che ha sorretto la sinistra nel nostro paese. Rimediare è compito di lunga lena. Anche per questo una strategia di alleanze è oggi senza alternative, ed è illusorio pensare (chiunque lo faccia) che, prima, si debbano modificare i rapporti di forza interni alla futura coalizione.
Proprio la debole sovrapposizione rende marginali i possibili travasi di voto: per crescere Pd e M5S devono guardare altrove, non in casa del vicino. Un’alleanza potrà nascere solo su basi di un reciproco riconoscimento, non di una qualche egemonia precostituita, (che peraltro, presumibilmente, nessuno avrà mai i numeri adeguati ad affermare). Come insegnava una vecchia scuola politica, essere “i più unitari” alla fine paga, ed è anche l’unico modo per provare ad esercitare una effettiva capacità di direzione politica
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Su invito dell’Istituto di Studi Orientali appartenente al Ministro degli Affari Esteri Russo diverse delegazioni dei partiti, movimenti e fazioni palestinesi facente parte dell’ Olp e Hamas e Jihad islamica sono partiti il 29 febbraio con destinazione Mosca.
L’obiettivo dichiarato formalmente è il tentativo di superare la divisione interna e cercare di trovare un denominatore comune che aggreghi in modo particolare Hamas, Jihad e Al Fatah e tutte le fazioni palestinesi, condizione obbligatoria in questo contesto cosi drammatico e cosi complesso.
Da ricordare che nei mesi e anni precedenti vari tentativi sono stati fatti a Mosca, al Cairo ed in Algeri senza nessun risultato sul campo.
Oggi la situazione a Gaza e in Cisgiordania è drammaticamente cambiata e a nessuno sarà permesso di non prendere in considerazione questa situazione di fronte alle future generazione e alla storia.
Oltre l’aspetto formale di questa missione, non sfuggono a nessuno le pressioni americane sul Presidente dell’ANP, Abu Mazen, che hanno già portato alle dimissioni del primo Ministro Mohammed Shtie, nel nome di un rimpasto di un nuovo governo palestinese in grado di amministrare i territori palestinesi .
Il vertice interpalestinese deve essere al livello della fase storica che vive la causa palestinese di fronte ai massacri quotidiani sia a Gaza che in Cisgiordania della popolazione civile inerme.
Trovare la via maestra che riesca ad unificare tutti, soprattutto Hamas, Jihad e Al Fatah, permetterebbe ai vari movimenti palestinesi di realizzare tre obbiettivi tattici e strategici che sono :
in primis fare fallire qualsiasi tentativo nascosto o dichiarato di Israele e degli USA e di paesi arabi complici , che mirano a liquidare una volta per sempre la causa palestinese con questo genocidio, con la pulizia etnica e la deportazione forzata della popolazione .
in secondo luogo fare fronte all’idea del primo Ministro israeliano che mira a costringere Abu Mazen a formare un governo di tecnocrati e di notabili sia a Gaza che in Cisgiordania, una idea che Israele ha tentato negli anni ottanta del secolo precedente e mi riferisco alla Lega dei Villaggi ma senza successo.
Allora la determinazione, l’autoconsapevolezza sia della Direzione che del popolo palestinese hanno stroncato l’idea sul nascere . Infatti Netanyahu ha dichiarato varie volte pubblicamente il suo disaccordo ad un governo politico palestinese e peggio ancora se sarà di unità nazionale come è auspicabile in questa fase dicendo “ no a Fatahustan, no Hamasustan”.
Infine credo che il superamento dell’attuale divisione tra i partiti maggiormente rappresentativi (Al Fatah , Hamas e Jihad) non solo è urgente, ma una necessità di carattere nazionale per salvare il progetto nazionale palestinese.
Un percorso di questa natura deve permettere di dare vita ad un governo politico di unità nazionale che comprende tutti i partiti e movimenti , nessuno escluso con tre obiettivi da realizzare :
mettere fine a questa tragedia e iniziare la fase della ricostruzione di Gaza e Cisgiordania ( tutti i campi profughi devastati in questi anni ) con la garanzia e il controllo della Comunità Internazionale.
In secondo luogo procedere a indire elezioni amministrative, politiche e presidenziale per dare la possibilità al popolo sovrano di scegliere i suoi rappresentanti a tutti i livelli in modo democratico e libero.
Queste elezioni devono comprendere i nostri concittadini di Gerusalemme Est ; la Comunità Internazionale ha il diritto / dovere sacrosanto di garantire l’esercizio di questo diritto a tutta la popolazione, controllarla tramite l’invio di Osservatori Internazionali che devono certificare i risultati dell’esercizio democratico.
Aldilà dei risultati che usciranno dai seggi, tocca al mondo intero di accettare il verdetto degli elettori a prescindere da chi vince e da chi perde.
Infine questo percorso ci deve portare in tempi molto celeri a proseguire uniti nella lotta di liberazione per la creazione dello Stato Palestinese cosi come è sancito dal diritto e dalla legalità internazionale entro i confini del 4 giugno 1967 con Gerusalemme Est capitale e il riconoscimento della Palestina con un seggio a pieno titolo nella Nazione Unite.
Il vertice interpalestinese a Mosca in questi giorni deve avere questa bussola e chi opera in senso contrario e fa fallire questa missione dovrà fare i conti con il popolo palestinese , con la futura generazione e con la storia.
* Milad Jubran Basir giornalista italo-palestinese
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