Il presidente dell'Anpi scrive ad Avvenire
Gentile direttore,
la discussione attorno all’aumento del budget militare del 2% del Pil, depotenziata dalla scelta di giungere a tale obiettivo nel 2028, lascia perplessi da molti punti di vista. Si è da tempo aperto un dibattito sul sistema di difesa europeo. Romano Prodi ha giustamente affermato che «questi aumenti di spesa si debbono fare quando si ha una politica estera comune della Ue». Occorrerebbe perciò un’accelerazione, ora assente, dell’unità politica dell’Unione. Per di più gli armamenti nazionali oggi non sono reciprocamente congruenti. In altre parole ciascun esercito ha un armamento diverso dall’altro. Al fine della creazione di una difesa comune – che sia davvero 'difesa', e non strumento di avventure africane o mediorientali – non serve, anzi, è dannoso il fai-da-te. Si spenderebbe di più, mentre occorre spendere meglio. Aggiungo che una corsa agli armamenti nazionali stimolerebbe la mai sopita bestia del nazionalismo che, come dimostra proprio la crisi ucraina, è di per sé portatore di venti di guerra.
C’è inoltre un grande rimosso in questo dibattito, e cioè la presenza nel nostro Paese di un incredibile numero di basi militari Usa e Nato. La prima cosa da fare sarebbe predisporre una maggiore trasparenza di questo ginepraio in grandissima parte secretato da tempo immemorabile e riguardante basi in altrettanto grandissima parte soggette a extraterritorialità. Perché non mettiamo il valore di tutto ciò in conto al mitico 2% di cui si parla?
Non solo: la presenza di testate nucleari in tante di queste basi, a cominciare da Aviano in Friuli, fa del nostro Paese una testa di ponte avanzata della Nato, e perciò nella stessa misura lo destina a essere il primo potenziale bersaglio di un conflitto su larga scala. Ed è altrettanto evidente che tanto più andrà avanti la logica degli armamenti nazionali e del rafforzamento della Nato, tanto meno si potrà ragionevolmente operare per un autonomo sistema di difesa europeo. Diciamo la verità: il comando effettivo della Nato non risiede a Bruxelles, ma a Washington. Questo crea una dipendenza non necessaria a fronte di una forza di difesa europea autonoma, reale e non simbolica, a garanzia della sicurezza del continente. Alleanza non può voler dire subalternità.
È una riduzione del danno aver rinviato al 2028 la data di completamento del 2%, ma non basta: sarebbe opportuno che qualsiasi discussione relativa all’aumento del budget militare sia connessa a una chiara strategia, che oggi non si vede, e anche alla pragmatica presa d’atto per cui l’Italia è già adesso una gigantesca base militare e un’altrettanta gigantesca santabarbara nucleare, le cui chiavi non sono necessariamente nelle mani del nostro Paese.
Insomma, qualsiasi riflessione sul 'militare' deve partire dal principio costituzionale del ripudio della guerra e della esclusiva difesa dei confini, e dall’idea che missione essenziale della Ue è quella di promuovere una nuova coesistenza pacifica.
Qui va colto uno straordinario differenziale tra le decisioni del governo Draghi e la maggior parte dell’opinione pubblica. Tutti i sondaggi attestano che, ferma rimando la condanna generalizzata dell’invasione militare russa, la maggioranza degli intervistati era contraria all’invio di armi in Ucraina ed è contraria all’aumento delle spese militari. Questi dati, pervicacemente ignorati o sminuiti da troppi, segnalano una pericolosa scollatura fra società politica e società civile che forse è una delle radici dell’imbarbarimento in una deriva binaria (amico-nemico) bellicista del dibattito pubblico.
Colgo infine una pesantissima sottovalutazione dell’emergenza sociale che ci aspetta che richiederà misure straordinarie contro la povertà e la disoccupazione e per un nuovo welfare. Infatti, all’impennata dell’inflazione che ha raggiunto a marzo il 6,7% si aggiunge la previsione di un vero e proprio crollo del Pil atteso, alla luce degli effetti indotti dalle sanzioni alla Russia. Non è pensabile qualsiasi incremento di spesa senza considerare la drammatica crisi che ci aspetta. Certo, c’è il Pnrr. Ma quanto sarà in grado di risolvere la futura emergenza causata dalla guerra in corso?
Comitato Nazionale Anpi
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ELEZIONI TRANSALPINE. I risultati elettorali della domenica di voto francese. Il presidente uscente al 27,6%, la sfidante di estrema destra al 23,4%, il candidato della sinistra sfiora l'impresa con il 21,9
Il conteggio dei voti - Ap
Ancora Emmanuel Macron contro Marine Le Pen. Cinque anni dopo saranno di nuovo il candidato di La République en marche (Lrm) e quella del Rassemblement national (Rm) a sfidarsi nel ballottaggio, che si terrà il prossimo 24 aprile. Il presidente uscente ottiene il 27,6% delle preferenze (+3,6%), la sfidante il 23,4% (+2,1%).
Che fossero Macron e Le Pen ad accedere al secondo turno era atteso. Oltre ogni aspettativa, invece, il risultato di Jean-Luc Mélenchon. Con il 21,9% il candidato della France insoumise si piazza al terzo posto e sfiora l’impresa: recuperare i punti di distacco e andare a al ballottaggio.
Dietro si piazzano Eric Zemmour di Reconquête, l’altro candidato di estrema destra, con il 7% e poi la conservatrice Valérie Pécresse (4,7%), il verde Yannick Jadot (4,5%), il centrista Jean Lassalle (3,2%). La socialista Anne Hidalgo raccoglie un misero 1,7%, meno del partito comunista francese che con Fabien Roussel arriva al 2,3%.
Sarà probabilmente l’elettorato di Mélenchon a decidere l’esito del ballottaggio. Il candidato di sinistra, che nella sua campagna elettorale si è duramente contrapposto alle politiche neoliberali messe in campo da Macron, ha ripetuto ieri: «Neanche un voto a Le Pen». Zemmour ha invece dato indicazione di voto per la candidata del Rassemblement. Le altre principali forze politiche per il presidente uscente, nel consueto fronte repubblicano contro le forze neofasciste.
Tra due settimane la Francia tornerà alle urne per un’elezione decisiva non solo per il paese transalpino ma anche per l’assetto futuro dell’Unione europea.
Commenta (0 Commenti)DI RITORNO DA LEOPOLI. Come si fa a spiegare a un aggredito che per combattere il suo aggressore non è con la logica delle armi che l’Europa può aiutare l’Ucraina?
L’esperienza della marcia in Ucraina, che si è svolta sabato scorso a Leopoli, alla quale ho partecipato non è stata solo il tentativo di portare in quel Paese martoriato la parola pace. È stata l’occasione di una riflessione più profonda sulla difficoltà di affermare un principio: quello della superiorità della logica della pace su quella della guerra, l’unica che sembra in queste ore guadagnare sempre più terreno.
A Leopoli non è stato facile. Come si fa a spiegare a un aggredito che per combattere il suo aggressore non è con la logica delle armi che l’Europa può aiutare l’Ucraina? Non soltanto perché regalare armi significa gettare benzina sul fuoco, ma soprattutto perché non è con la guerra che la guerra si può fermare. Concetto difficile da digerire per un aggredito che certo preferirebbe cannoni e non fiori da infilare negli obici. E concetto difficile da spiegare anche a quegli italiani che hanno sottoscritto l’invio di armi, apparentemente la cosa più logica da fare e che risponde a una reazione di pancia: ti mando i proiettili così ti potrai difendere. Ma abbandonarsi a questa logica significa rinunciare ad altro e ignorare le lezioni della Storia recente, dai Balcani all’Afghanistan. Una Storia nella quale non abbiamo sempre chiamato le cose con il loro nome e ci siamo, nel caso afghano, abbandonati a figure retoriche come “Enduring Freedom” o “Operazione Nibbio”, anziché usare il termine che ora usiamo per l’Ucraina: invasione, parola
Leggi tutto: Logica bellica e strumenti di pace. La lezione afghana - di Emanuele Giordana
Commenta (0 Commenti)EFFETTO UCRAINA. I 5 Stelle esultano: «L’Alto rappresentante Ue conferma le nostre parole». Oggi Conte riunisce capigruppo e presidenti di commissione. Letta e Meloni si dividono sul blocco alle forniture di gas russo
Josep Borrell considera «un grave errore» l’aumento indiscriminato della spesa militare di tutti i paesi Ue. Di fronte al parlamento europeo riunito a Strasburgo in seduta plenaria, l’Alto rappresentate europeo per la politica estera critica il fatto che «tutti gli stati membri aumentino proporzionalmente le loro spese nella difesa rispetto a quelle attuali». In questo modo si rischia, dice, «di moltiplicare gli attuali doppioni tenendo le stesse lacune». Per questo, sostiene, «occorre un approccio coordinato per ottimizzare le risorse dei contribuenti». Quanto all’Ucraina, per Borrell, bisogna «fare pressione sulla Russia e ad armare l’Ucraina».
QUESTE PAROLE precipitano sul dibattito italiano. Dal Movimento 5 Stelle esultano. «Non fanno che confermare il nostro indirizzo – dice il senatore e vicepresidente M5S Mario Turco – Lo stesso Giuseppe Conte, ha affermato più volte quanto sia fondamentale assicurare la difesa dei paesi Ue senza per questo appesantire la spesa nazionale». I grillini citano stime del Servizio studi del parlamento secondo cui coordinare gli sforzi in chiave europea consentirebbe di risparmiare 45 miliardi di euro.
C’È POI la questione del gas. Il rapporto tra gli aiuti a Zelensky e i soldi che finiscono a Putin per l’acquisto di gas appare impietoso «Abbiamo dato a Kiev un miliardo di euro, che può sembrare tanto, ma mille milioni di euro sono quello che paghiamo a Putin ogni giorno per l’energia. Dall’inizio della guerra gli abbiamo dato 35 miliardi di euro». Ecco perché, per Borrell «geopolitica e cambiamento climatico si danno la mano, verso un obiettivo comune: la nostra indipendenza e il nostro sviluppo passano dallo sviluppo delle energie rinnovabili». Sul tema si sono confrontati Enrico Letta e Giorgia Meloni, in occasione di un evento organizzato dalla fondazione di destra Fare futuro. «Dobbiamo smettere di pagare la Russia, con quei soldi massacra il popolo ucraino» ribadisce il segretario del Pd. Letta si dice consapevole che una scelta del genere implichi «razionamento, risparmio e razionalizzazione del consumo energetico» ma sostiene che tutto ciò andasse fatto «a prescindere» anche prima della crisi ucraina. Di tutt’altro avviso la leader di Fratelli d’Italia, secondo la quale «l’Italia rischia di pagare tantissimo una scelta del genere»
LE SPESE MILITARI continuano a dividere la maggioranza. Questa mattina Conte vedrà i presidenti e i capigruppo del M5S nelle diverse commissioni per fare il punto sul tema. Alla riunione non parteciperà il presidente della commissione esteri al senato Vito Petrocelli. Non è ancora chiaro se e in che modo verrà espulso, visto che le ultime sanzioni comminate dal gruppo sono state dichiarate invalide dal consiglio parlamentare di garanzia. Di certo, Petrocelli è stato scaricato dai grillini. Si ipotizza che tutti i membri si dimettano e che una nuova commissione scelga un nuovo presidente.
LA COMMISSIONE finanze del senato martedì scorso ha discusso il decreto legislativo che recepisce la direttiva europea del 2019 sull’esenzione dell’Iva e delle accise per la compravendita di armi impiegate in contesti Ue. I 5 Stelle avevano votato a favore del provvedimento alla camera. L’altro giorno hanno chiesto «delucidazioni» e poi si sono astenuti. In ogni caso, dal passaggio in commissione il testo è uscito con un cambiamento di forma: il parere del senato viene definito «non ostativo» invece che «positivo». Era presente, seppure da ospite, Paola Nugnes. La senatrice ex M5S ha ricordato che la Nato gestisce male i suoi soldi, visto che ha una spesa militare diciotto volte superiore a quella russa. A questo punto la parte destra della commissione, soprattutto gli esponenti di Fratelli d’Italia, ha cominciato a insultarla e contestare quel dato. «Da parte mia – afferma Nugnes – ho chiesto che tutti i membri della commissione ricevessero il report dell’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma che ha analizzato i fondi del Patto atlantico».
Commenta (0 Commenti)Il nome dovrebbe essere una garanzia, e per anni è stato così. Il consumatore paga il prezzo (uguale in tutto il Paese) che definisce l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (Arera) ogni 3 mesi in base all’andamento dei mercati finanziari e all’ingrosso. Oggi i clienti domestici che hanno questo tipo di offerta sono 11,8 milioni per l’elettricità e 7,6 milioni per il gas. Chi compra è una società pubblica che si chiama Acquirente unico e che la rivende agli operatori (uno per zona) che la distribuiranno con un margine di guadagno minimo. Vediamo i prezzi. Elettricità: per il secondo trimestre 2022, una famiglia con 2.700 kWh di consumo annuo e con 3 kW di potenza impegnata paga 41,34 centesimi a kWh, contro i 46,03 del primo trimestre. Nel secondo trimestre 2021 erano 20,83 centesimi. Vuol dire che il prezzo è raddoppiato.
In questo caso il prezzo il prezzo è fissato dall’azienda che compra e rivende in base alle proprie strategie commerciali con un margine di profitto più elevato. Il costo della materia prima è ancorato al mercato reale e solo marginalmente a quello finanziario, poiché i rivenditori possono comprare dai grandi fornitori e fare acquisti con scadenze a medio e lungo termine. I rivenditori sono 723 ed hanno oltre 18 milioni i clienti per l’elettricità, e 12 per il gas. Ogni rivenditore fa il suo prezzo, che può essere «variabile» o «fisso». Il prezzo del contratto «variabile» dipende da come è costruito: può prevedere la variazione del costo dell’energia automatica e periodica, a scadenze prefissate, in base ai prezzi del mercato all’ingrosso. Se il contratto invece è a prezzo «fisso», ovvero con scadenza ad un anno, due, o tre, paghi quello che è stato stabilito indipendentemente da come vanno i mercati. Infatti chi ha stipulato questo tipo di contratto prima dei rincari, non ha subito variazioni di prezzo.
Funziona un po’ come il mutuo per la casa: il tasso variabile segue l’andamento dei mercati, con quello fisso se i tassi salgono sei blindato, se scendono ci perdi
I fornitori di energia e gas, ovvero Enel, A2a, Hera, Acea, Iren, Eni, ecc. vendono sia in regime di tutela che in libero mercato, e la spinta è quella di convincere i propri clienti ad andare verso il libero mercato.
Per individuare l’offerta più vantaggiosa dobbiamo sapere prima di tutto il tipo di contratto che abbiamo (è scritto sulla bolletta), e quanto paghiamo a kWh (prendere la voce spesa per l’energia e dividerla per il consumo fatturato). Le altre voci che riguardano i costi di trasporto, oneri di sistema, Iva ecc, non vanno considerate perché sono uguali per tutti, sia in regime di tutela che a libero mercato. Oggi, a causa dell’aumento della componente energia, il governo ha temporaneamente eliminato gli oneri di sistema e diminuito la quota Iva, e quindi il costo della materia prima incide sull’80% della bolletta elettrica, e per il 70% di quella del gas. A questo punto si va su ilportaleofferte.it/portaleOfferte/ dove si vedono tutte le tariffe a confronto, ed è possibile valutare quella più conveniente per le proprie esigenze.
A febbraio 2022 su 1.224 offerte per l’elettricità 628 invece appaiono più convenienti dei servizi di tutela, mentre per il gas sono 102 su 613 offerte. Ma attenzione: bisogna leggere molto bene che cosa dicono le condizioni perché l’offerta il più delle volte è ingannevole. Per esempio possono essere previste tariffe più vantaggiose solo in cambio dell’acquisto di un impianto fotovoltaico da cinquemila euro. Altre sorprese si celano nelle sottoclausole: a) dopo un anno può esserci il cambio della tariffa anche se il contratto a prima vista sembra a tariffa fissa per 24 mesi; b) se si supera il consumo previsto dal pacchetto «tutto compreso» la penalizzazione rischia di essere severa; c) lo sconto può apparire significativo per un periodo limitato di tempo, ma rispetto a un prezzo molto più alto di quello del regime di tutela. Un caso tipico: ipotizziamo che il servizio di maggior tutela abbia una tariffa della componente energia di 30 centesimi, e il fornitore propone uno sconto del 30% per i primi sei mesi, ma magari il prezzo offerto è 40 centesimi. Vuol dire che effettivamente per i primi sei mesi pago 28 centesimi, ma poi mi ritrovo a pagare un prezzo ben più elevato. In sostanza le offerte vantaggiose sul libero mercato ci sono, ma trovarle presuppone una competenza nel saper leggere i dettagli e un livello di conoscenza delle voci che compongono la bolletta che non tutti hanno.
Può il richiamo all’economia di guerra che aleggia intorno a noi, diventare occasione invece per una nuova economia della pace? Non è una domanda provocatoria a fronte di una corsa al riarmo sbagliata e che, se perseguita su basi nazionali, indebolirebbe ulteriormente l’Europa politica.
E’ la questione di fondo se vogliamo costruire un nuovo sistema di “sicurezza collettiva” in cui la Ue possa agire senza l’ipocrisia di una consistente dipendenza energetica da fonti fossili oggi (la Russia) e da tecnologie e conoscenze domani (Usa, Cina). In cui la Ue – edificando le “basi materiali” di un diverso modello di sviluppo – possa essere più forte e credibile nel proporre modelli di convivenza e di pace e, se necessario, nel contrastare con le armi della politica (e dell’economia) chiunque li minacci.
Perché, piaccia o no, quanto posto da Norma Rangeri ( il manifesto, 5 aprile) rappresenta il bivio al quale siamo oggi, dopo la pandemia e con la guerra in Ucraina. Perché è giusto sottolineare l’ipocrisia di chi sulle sanzioni balbetta – perché vorrebbe che esse funzionassero pur mantenendo l’attuale modello produttivo e di consumo (impossibile) – o di chi (Letta) non ne assume la portata fino in fondo (lotta agli sprechi energetici e totale ed urgente decarbonizzazione dell’economia che è produzione da rinnovabili ma soprattutto economia circolare come nuovo modello per la creazione di ricchezza).
Soprattutto, l’editoriale rimanda alla più profonda questione della “sobrietà”, del cambio dei modelli individuali e collettivi di consumo e produzione. Cambi che necessitano di più democrazia e più programmazione “in alto” e di più redistribuzione di potere e risorse verso il “basso”.
Non a caso tornano attuali riflessioni che molti di noi avevano sepolto in una memoria lontana, a partire dalle parole di un “certo” Enrico Berlinguer che, il 15 gennaio del 1977 (in anni segnati anch’essi dalla questione energetica), proponeva il tema dell’austerità come dimensione politica (austerità intesa come “sobrietà”).
“Non un mero strumento di politica economica contingente per poi ripristinare i vecchi meccanismi economici e sociali” spiegava Berlinguer, ma il mezzo “per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo (…) cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato”. La sobrietà “significa invece rigore, efficienza, serietà e significa soprattutto giustizia”, “lotta effettiva contro il dato esistente, contro l’andamento spontaneo delle cose e, al tempo stesso premessa e condizione materiale per avviare il cambiamento”.
Ecco la sfida politica di fronte a noi: gestire con pragmatismo ma con determinazione l’uscita dalla dipendenza energetica da petrolio e gas, con date certe e brevi non perché fissate da questo o quell’obiettivo sulla carta, ma perché certe (e a breve) sono