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In bolletta. Il ministro della transizione ecologica spiega in senato le mosse del governo sul caro-prezzi

 

Roberto Cingolani  © LaPresse

Dopo aver denunciato la «truffa» degli aumenti ingiustificati di gas, Roberto Cingolani si presenta in Senato per un’informativa sul caro-energia. Accade alla viglia del consiglio dei ministri che dovrebbe partorire il decreto sui prezzi e dalla relazione del ministro della transizione ecologica si intuiscono i punti cardinali dell’azione dell’esecutivo, almeno nel breve termine. La prima leva è quella delle accise: «Siccome c’è stato un maggior gettito Iva, dovuto al fatto che la base è aumentata, tale maggior gettito potrebbe essere utilizzato per ridurre l’accisa corrispondentemente e avere una diminuzione di prezzo alla pompa», spiega Cingolani.

L’obiettivo sarebbe l’indipendenza energetica, ma per quello ci vuole del tempo. Dunque, ed eccoci alla seconda variabile, il governo sta pianificando la diversificazione delle importazioni: da Qatar, Algeria, Angola, Congo. Inoltre, l’Italia ha cinque gasdotti e tre rigassificatori che hanno anche potenzialità di aumentare la portata. C’è poi l’auspicio che l’Europa si smuova e fissi un «prezzo unico» per trattare da posizioni di forza.

L’incremento del prezzo del gas, ha spiegato Cingolani, «è a monte di un’intera filiera» e che «si traduce solo nel risultato di una grande speculazione da parte di certi hub che non producono, ma fanno solo transazioni». Manca, dalle misure menzionate, la possibilità redistributiva di tassare gli extraprofitti incamerati in questi mesi dalle aziende.

«Dietro a una truffa colossale ci sono nomi e cognomi – protesta il senatore socialista Riccardo Nencini – Vanno fatti conoscere. Si tratta di speculatori finanziari della peggior specie che approfittano di situazioni di crisi socioeconomica e di conflitti geopolitici per immagazzinare profitti esagerati». «Il governo intervenga per alleggerire l’onere su famiglie e imprese, con un calmieramento delle bollette energetiche, e con misure per ridurre l’aumento del prezzo della benzina o del diesel», chiede il capogruppo di LeU alla Camera Federico Fornaro. «Deve esser chiaro che i problemi energetici non sono solo derivanti da questa emergenza – afferma Loredana De Petris – Sono strutturali e derivano da scelte sbagliate fatte anche nel recente passato. Per questo dobbiamo avere chiara visione generale e prospettiva, non meno transizione ecologica, ma più transizione ecologica».

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Crisi Ucraina. Per l’art. 1 dello Statuto costitutivo la sua finalità è “mantenere la pace...e, a questo fine conseguire con mezzi pacifici la soluzione delle controversie internazionali”

 

Quando un bandito minaccia di sparare su una folla se non saranno accolte le sue richieste, o peggio ha già cominciato e continua a sparare, il dovere di quanti hanno il potere di farlo – in questo caso la comunità internazionale – è quello di trattare, trattare, trattare la cessazione della strage. Poco importa se il bandito sia considerato un criminale, o un pazzo, o un giocatore d’azzardo oppure un capo politico irresponsabile che non ha visto accogliere le sue giuste ragioni e rivendicazioni. La sola cosa che importa è la cessazione dell’aggressione e della strage degli innocenti.

Trattare è ciò che chiedono milioni di manifestanti in tutto il mondo allorquando domandano di “cessare il fuoco”: innanzitutto per porre fine alla tragedia dei massacri, delle devastazioni e della fuga di milioni di sfollati ucraini; in secondo luogo perché la continuazione della guerra non può che produrne un’escalation, fino alla sua possibile deflagrazione in una guerra mondiale nucleare senza vincitori e soltanto con sconfitti. Proprio i più accaniti critici di Putin non dovrebbero dimenticare che ci troviamo di fronte a un autocrate fornito di oltre seimila testate nucleari, e che l’insensatezza di questa guerra, anche dal punto di vista degli interessi della Russia, non consente di escludere ulteriori, apocalittiche avventure.

Ma chi ha il potere e, aggiungerò, il dovere di trattare? Forse ci stiamo dimenticando che esiste un’istituzione, le Nazioni unite, la cui ragione sociale e la cui finalità statutaria, dice l’articolo 1 del suo Statuto, è “mantenere la pace… e, a questo fine,… conseguire con mezzi pacifici e in conformità ai principi della giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie internazionali”. Esiste dunque una responsabilità istituzionale della comunità internazionale di fare tutto ciò che è possibile fare per ristabilire la pace.

Non si tratta certo di mettere all’ordine del giorno la decisione di porre fine alla guerra, cui la Russia opporrebbe il suo veto.
Si tratta del dovere dell’Onu di fare tutto ciò che è possibile al fine di ottenere la pace. E ciò che è possibile, e perciò doveroso, è non lasciare la debole Ucraina a trattare da sola – prima o poi la resa – con il suo aggressore, bensì offrire i suoi organi istituzionali, l’Assemblea generale e il Consiglio di Sicurezza, come i luoghi e i soggetti della trattativa, convocati e riuniti in maniera permanente.

C’è insomma, come scrivemmo in un appello di “Costituente Terra”, il dovere della comunità internazionale di fermare la guerra a qualunque, ragionevole costo: dall’assicurazione che l’Ucraina non entrerà nella Nato all’autonomia, sulla base di un voto popolare nell’esercizio del diritto dei popoli all’autodeterminazione, delle piccole regioni dell’Ucraina russofone e russofile. E non c’è modo più efficace, per raggiungere un simile risultato, che riunire in seduta pubblica e permanente, finché non sia raggiunta la pace, gli organi supremi dell’Onu, per dar vita a un confronto nel quale tutti, a cominciare dalle maggiori potenze, dovranno assumersi le loro responsabilità di fronte al genere umano.

Sarebbe un’iniziativa eccezionale, senza precedenti, dotata di un enorme valore politico e simbolico, che varrebbe a segnalare la gravità dei pericoli che incombono sull’umanità e a impegnare tutti gli Stati del mondo a prendere sul serio il principio della pace stabilito dallo Statuto dell’istituzione della quale sono membri. Sarebbe un merito storico se a proporla fosse l’Italia, in omaggio al ripudio della guerra espresso dall’articolo 11 della sua Costituzione esattamente con le stesse parole appena ricordate della Carta dell’Onu. Ancor meglio sarebbe se a proporla fosse l’Unione Europea.

Potrebbe uscirne non soltanto la fine della guerra, ma anche una riflessione comune sulla necessità di rifondare il patto di convivenza pacifica stipulato, senza le necessarie garanzie, con la creazione dell’Onu. Il pericolo nucleare che stiamo correndo potrebbe quanto meno indurre i paesi che ancora non l’hanno fatto ad aderire al Trattato sul disarmo nucleare del 7 luglio 2017, già sottoscritto da ben 122 paesi, cioè da più dei due terzi dei membri dell’Onu.

Potrebbe, soprattutto, convincere gli Stati Uniti ad annullare il loro ritiro, deciso il 2 agosto 2019 dal presidente Trump, dal trattato del 1987 sul progressivo disarmo nucleare, e indurre tutti gli Stati dotati di armamenti atomici a riprendere questo graduale processo, fino al disarmo nucleare dell’intero pianeta.

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Crisi energetica. Gas e petrolio alle stelle. L'intervista ad Alessandro Volpi, docente a Pisa ed esperto in mercati finanziari

North Stream 2, gasdotto © La Presse

La denuncia della speculazione che gonfia i prezzi di gas e benzina non è contro ignoti, almeno secondo il professor Alessandro Volpi, docente universitario a Pisa ed esperto di storia dei mercati finanziati. Il suo ultimo libro: «Viaggio al termine della crisi», edito da Altreconomia.

Professor Volpi, come si forma il prezzo del gas?
Il prezzo del gas nel nostro Paese, così come definito dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas, per poco meno di metà dipende dagli «oneri di sistema», in buona parte costituiti da varie forme di prelievo fiscale che stanno determinando un forte gettito, data l’impennata dei prezzi. L’altra metà dipende dal prezzo della materia prima «gas», che a sua volta discende da vari fattori. Solo in parte dipende della domanda e dall’offerta reale, un prezzo in larga misura negoziato in alcuni «hub» fisici tra cui il più importante è quello di Amsterdam, il cosiddetto Ttf (Title tranfer facility, il mercato di riferimento per lo scambio del gas naturale con sede nei Paesi Bassi, ndr). Lì si definisce il prezzo originario dei contratti sottoscritti da compratori e venditori reali, quelli che hanno bisogno del gas. Tali contratti possono essere di natura giornaliera, come ha spinto a fare, sbagliando, la normativa europea, o di lungo periodo. Su questo piano, esiste un primo margine forte di speculazione: spesso il prezzo fatto dai venditori, che a loro volta hanno comprato dalle grandi compagnie internazionali, è molto più alto di quello che hanno pagato.

Questo elemento favorisce la speculazione?
Senz’altro, insieme a un altro non facilmente rilevabile, perché i contratti sono «segreti»: è certo però che negli ultimi mesi si è trattato di differenze molto alte fra prezzi d’acquisto e prezzi di vendita. Come accennato, tuttavia, i prezzi sul mercato reale sono solo un pezzo della determinazione del prezzo finale del gas su cui incide, pesantemente, la speculazione finanziaria fatta da fondi hedge, banche e altri operatori che di fatto scommettono sul prezzo definito all’hub di Amsterdam o su altri listini. Per dare un numero chiaro di un simile fenomeno, a marzo 2022, sono esposti sul gas del Ttf ben 218 soggetti finanziari, di cui 164 sono fondi apertamente speculativi, mentre i soggetti commerciali, quelli realmente interessati al gas, sono 134.

Come affrontare, oggi, questa situazione?
In presenza di una guerra che comporta una possibile riduzione nell’offerta di gas può partire una spirale di rialzo dei prezzi, in cui tutti scommettono sul rialzo del prezzo del gas e dunque il prezzo della materia prima e come conseguenza delle bollette si impenna. Un simile fenomeno avviene, peraltro, in mercati regolamentati con futures quotati come nel caso di Ice-Endex. In altre parole se paghiamo l’energia carissima, lo dobbiamo alla costruzione avvenuta in un ventennio circa di un perverso meccanismo finanziario. Peraltro è significativo che per abbattere le bollette il governo abbia già speso una ventina di miliardi e molti altri ne dovrà spendere, aumentando il debito pubblico. Senza mettere mano ai mercati dell’energia, limitandone l’uso ai soggetti che la vendono e la comprano realmente, sarà difficilissimo affrontare la crisi in cui siamo finiti. Va fermata la speculazione.

Sul prezzo della benzina valgono le stesse considerazioni?
Il prezzo della benzina, in costante ascesa e dunque componente importante dell’inflazione, dipende per circa il 60% da un prelievo di natura fiscale. Il restante 40% dipende dal prezzo della materia prima, a sua volta in larga parte legato a meccanismi speculativi. Il prezzo dei carburanti, infatti, non discende direttamente dal prezzo del barile di petrolio, ma dai prezzi dei carburanti definiti da una piattaforma-agenzia privata che ha sede a Londra e si chiama Platts, di fatto di proprietà di McGraw-Hill. È lì che operano i principali fondi speculativi del mondo, a cominciare da Barclays Global Investors, Goldman Sachs Asset Management, Vanguard Group, Deutsche Asset Management Americas, Barclays e Global Investor. Questi fondi quantificano il prezzo dei carburanti ogni giorno, attraverso scommesse sull’andamento dei prezzi che non dipende dall’offerta reale.

C’è un modo per intervenire?
Anche in questo caso, vanno bloccati i fondi speculativi e le banche d’investimento, che partendo dal dato reale determinano i prezzi prima sul mercato del petrolio e poi su quello dei carburanti, operando scommesse che hanno la forza di autoavverarsi. Su questi prezzi, chiaramente speculativi e distanti dalla realtà, interviene la filiera dell’industria petrolifera che può determinare una differenza, a volte non banale, tra quanto costano estrazione e produzione e il prezzo a cui i big di tale industria vendono alla rete distributiva che in genere ha poco margine. Quanto costa la benzina, dunque, dipende davvero poco da quanto petrolio è disponibile sul mercato. Con una domanda e un’offerta di circa 95 milioni di barili al giorno, il prezzo del petrolio è passato da 60 a 120 dollari e quello della benzina da 1,40 a oltre 2 euro al litro».

Quindi il governo italiano dove dovrebbe agire esattamente?
In sede Wto (Organizzazione mondiale del commercio) e nelle sedi delle autorità finanziarie per modificare la normativa sugli strumenti derivati, riducendo il numero degli operatori autorizzati a crearli, di fatto riportandoli alla loro natura originaria di assicurazioni contro i rischi del mercato reale. Come per i future sul grano, che dovrebbero essere creati solo da venditori e compratori fisici.

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Sul piano teorico, la guerra in Ucraina può avere quattro vie d’uscita.

La prima è la vittoria dell’aggredito sull’aggressore: dunque, dell’Ucraina sulla Russia. Sarebbe bello potesse accadere. In questa guerra, ma non solo: sarebbe bello se tutte le guerre di aggressione si concludessero sempre con la vittoria dell’aggredito sull’aggressore. Nessuno vorrebbe più indossare i panni dell’aggressore. Nessuno muoverebbe più guerra ad altri. Purtroppo, accade di rado: di solito l’aggressore si prepara adeguatamente e aggredisce quando ha ragionevole certezza di vincere. Non è accaduto in Vietnam. Non è accaduto in Afghanistan (né ai russi, né agli americani). Ma è quel che tutti gli esperti militari dicono accadrà in Ucraina. Si può far pagare a Putin un prezzo molto alto, ma è impossibile che, alla fine, la Russia perda la guerra contro l’Ucraina.

Più realistiche sono le altre vie d’uscita. Le tratto in ordine inverso di auspicabilità.

La più terribile, e definitiva, è

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Non c'è pace. Dopo l'appello di Zelensky ai combattenti stranieri, in Italia si «monitorano» i foreign fighter di estrema destra. Ma ci sarebbe chi entra spacciandosi per giornalista. Londra ambigua, la Danimarca invita a partire. E spuntano i contractor: fino a 3mila dollari al giorno per combattere al fianco degli ucraini

 

Foreign fighter da Usa, Gran Bretagna, Svezia, Lituania, Messico e India tra le forze ucraine  ©  Kyiv Independent

Il movimento di figure dell’estrema destra verso l’Ucraina, per unirsi alle Legioni internazionali lanciate dal governo di Kiev all’indomani dell’invasione russa, «è un fenomeno monitorato dal Copasir», dice al manifesto Enrico Borghi (Pd, nel comitato parlamentare).

Un fenomeno che sin dal conflitto nel Donbass «ha interessato e sta interessando frange dell’estrema destra che hanno un interesse nella guerra proprio per una questione ideologica».

È NOTIZIA di questi giorni l’afflusso di mercenari dal Medio Oriente per unirsi alle truppe russe, ma già il 3 marzo il presidente ucraino Zelensky aveva detto che ben 16.000 foreign fighter – un numero impossibile da verificare con esattezza – si erano offerti di entrare nella Legione internazionale ucraina: «In questo momento – continua Borghi – l’Ucraina sta purtroppo diventando un pull factor di elementi bellici, dall’impiego dei ceceni a quello dei siriani a elementi mercenari pronti a mettersi sul campo a prescindere dalla bandiera, fino a singole individualità di chi va a cercare la “bella morte”».

Per essere reclutati “ufficialmente” dalla Legione internazionale bisogna seguire le istruzioni impartite dal ministero della Difesa di Kiev sul sito creato appositamente, e il primo passo da fare è rivolgersi all’ambasciata ucraina nel proprio stato, di cui è fornito un elenco: una delle poche a mancare – c’è perfino Città del Vaticano – è proprio quella italiana, nonostante il nostro Paese non sia l’unico che sanziona penalmente l’ingresso dei propri cittadini in una forza armata straniera.

L’Italia si è dunque imposta più di altri paesi europei con Kiev affinché l’ambasciata a Roma venisse rimossa dalla lista? Al momento di andare in stampa, la Farnesina non aveva risposto alla domanda. «Non posso confermarlo – dice invece Borghi – ma mi sembra coerente con l’impianto normativo italiano, per evitare che si faccia proselitismo per un’attività non consentita e per la quale si rischia un’incriminazione di terrorismo internazionale».

MA D’ALTRONDE, come fanno notare fonti vicine al governo, molti di coloro intenzionati a imbracciare le armi partono aggregandosi a convogli umanitari, o sotto mentite spoglie di giornalisti e fotografi – una volta passato il confine è impossibile controllare.

Che l’invasione russa dell’Ucraina possa però portare a rivedere la legge che proibisce agli italiani di partecipare al conflitto è fuori discussione: «Se queste iniziative esistono sono di carattere individuale e non c’è allo stato attuale alcuna avvisaglia che si possa modificare una normativa di quella natura», osserva Borghi.

DIVERSA appare la posizione di altri paesi, a partire dalla Germania, dove Tagesspiel cita un portavoce del ministero dell’Interno che sembra aprire all’eventualità che si rinunci ad applicare le sanzioni previste dal codice penale a coloro che partecipano ad azioni di guerra volte alla difesa: «Se un atto di uccisione o lesione è permesso dal diritto internazionale, allora non è punibile dal diritto penale tedesco».

Die Zeit cita fonti nel governo ucraino secondo le quali sarebbero già «diverse centinaia» i tedeschi entrati nel Paese per unirsi alla difesa armata. Ma la preoccupazione di Berlino sembra solo quella di impedire attivamente a figure dell’estrema destra di unirsi alla neonata Legione internazionale: «A causa del conflitto in corso – continua il portavoce del Ministero – le direzioni della polizia federale sono state allertate sui possibili movimenti di viaggio degli estremisti di destra», a cui viene vietata la partenza.

DOPOTUTTO, nel 2014, la guerra in Crimea aveva attirato 17mila foreign fighter da 50 paesi diversi, con curriculum simili: estremisti di destra, provenienti da realtà neofasciste e neonaziste.

A Parigi invece si preferisce il silenzio. L’Eliseo si raccomanda («Non partite»), seppur non ci sia una legge specifica che vieti di unirsi volontariamente a eserciti stranieri. Vietato solo farsi pagare, si rischiano fino a 5 anni di prigione. Altrimenti, «possono essere integrati in un corpo ucraino – il commento del portavoce del ministero delle forze armate – Non possiamo impedirgli di partire né sanzionarli».

Qualcuno l’ha già fatto, secondo fonti governative si parla di «un numero limitato, una dozzina» già presenti in territorio ucraino. Molti di più quelli iscritti al gruppo Fb “Francesi volontari in Ucraina”, 11.300 membri a ieri, che chiedono informazioni logistiche o condividono i propri curriculum.

E SE PAESI come la Danimarca sponsorizzano il “volontariato” di guerra a favore di Kiev (il premier Frederiksen ha dato pubblicamente il permesso a combattere «se pensate di poter contribuire al conflitto») e Lituania e Lettonia hanno rivisto la loro legislazione per renderlo legale, la Gran Bretagna opta per l’opacità. Secondo il Foreign Enlistment Act del 1870, arruolarsi in legioni straniere è illegale.

Ma il ministero degli Esteri pare fare distinzioni: «Chi parte per l’Ucraina per attività illegali deve attendersi di essere indagato al suo ritorno». Insomma, dipende da cosa si fa, se si compie un crimine di guerra? Più specifici il ministro dei Trasporti Shapps che ha definito l’arruolamento in eserciti stranieri «illegale» e quello della Difesa che ha «proibito a tutto il personale militare di viaggiare in Ucraina», pena conseguenze disciplinari.

Prese di posizione giunte dopo che i giornali britannici hanno svelato le identità di almeno due foreign fighter (una guardia 19enne della regina e un ex marine figlio dell’ex ministro tory Grant) e la Reuters ha riportato di decine di ex paracadutisti di sua Maestà già a destinazione.

OGGI FARE UNA STIMA degli stranieri volontariamente partiti per il territorio ucraino non è possibile. La scorsa settimana il Kyiv Independent pubblicava una foto su Twitter: «I primi stranieri si sono già uniti alla Legione internazionale e combattono fuori Kyiv. Vengono da Usa, Uk, Svezia, Lituania, Messico e India».

Tutti entrati nell’International Legion of Territorial Defence of Ukraine senza necessità di visto e dopo la firma di un contratto. E senza salario, ufficialmente, sebbene fonti anonime del governo a Middle East Eye parlino di stipendi in linea con quelli degli ucraini, circa 3.500 dollari al mese.

Di certo c’è chi ci guadagna di più, chi della guerra fa un mestiere: mercenari assunti da compagnie private di contractor. Offerte di lavoro sono già comparse. È il caso della società statunitense Silent Professional che da una decina di giorni mostra nell’homepage del suo sito l’offerta per «Extraction/Protective Agents – Ukraine»: tra i mille e i duemila dollari al giorno («dipende dalle esperienze precedenti e da eventuali bonus da discutere in seguito», direttamente con il datore di lavoro) a fini di protezione o di evacuazione di individui o famiglie dall’Ucraina.

Tra i prerequisiti: conoscenza di svariate lingue, dall’ucraino al russo, e dell’uso di armi di era sovietica, almeno cinque anni di esperienza militare e possesso di un passaporto Shengen (dunque, europeo).

All’agenzia Middle East Eye, due compagnie di contractor turche hanno riferito di offerte anche più generose mosse da società europee e statunitensi, 2-3mila dollari al giorno per i combattenti che si uniranno alle forze ucraine.

E DANNO QUALCHE NUMERO: un migliaio di mercenari sarebbero già partiti, di questi un centinaio dalla Legione straniera francese. Che da parte sua nega: mai data alcuna autorizzazione, anzi, 14 militari pronti a partire sarebbero stati fermati.

Si passa dalla Polonia o dall’Ungheria e, attraverso le ambasciate di Kiev, si organizza il viaggio per Leopoli. Poi è guerra. Su un punto Mosca è stata chiara: il 3 marzo scorso il ministero della Difesa ha reso nota la propria interpretazione del diritto internazionale: «Nessuno dei mercenari inviati dall’Ovest in Ucraina per combattere per il regime nazionalista di Kiev sarà considerato combattente secondo il diritto umanitario internazionale né godrà dello status di prigioniero di guerra».

 

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Una presenza provocatoria e inattesa sabato 12 Marzo, a Ravenna. Il Ministro della Finzione ecologica Cingolani è stato avvistato in Piazza del Popolo, seduto alla sua nuova scrivania. Ebbene sì, la campagna nazionale Per il clima fuori dal Fossile ha individuato per Cingolani la migliore collocazione per poter lavorare a stretto contatto con chi determina la sua agenda. Direttamente a Ravenna, dove Eni ha il suo quartier generale.
Una manifestazione quella di ieri per ribadire la critica verso questo governo e contro un ministro esclusivamente deferente verso gli interessi delle multinazionali di settore, che consente loro di determinare la politica energetica nazionale e di partecipare addirittura alle trattative in politica estera.

Presenti movimenti di Veneto, Abruzzo, Marche, Emilia Romagna, del Molise e di Civitavecchia.

A Ravenna, in Piazza del Popolo, più di 300 persone, in rappresentanza di varie realtà territoriali da tutta Italia, hanno manifestato per mettere in chiaro che non è la guerra in sé responsabile dell’aumento del prezzo del gas, che il rincaro delle bollette ha origini ben diverse da quelle dichiarate dalle compagnie, che il problema non si risolverà aprendo nuovi pozzi petroliferi, né sfruttando al massimo quelli esistenti o rimettendo in funzione il carbone.
Per ribadire che questa crisi, piuttosto, dipende dall’inerzia dei governi che si sono succeduti finora, che non hanno saputo o voluto programmare, né tantomeno attuare, la trasformazione del comparto energetico e produttivo in funzione delle esigenze della cittadinanza, con la conseguenza di aver creato anche un grande vuoto occupazionale. Non sono credibili i politici che solo oggi sembrano accorgersi della fragilità del nostro sistema di approvvigionamenti e cercano di correre ai ripari in modo improvvisato, minando fatalmente la reale transizione energetica. Se avessero agito tempestivamente, attuando tutte le misure indicate fin dalle prime conferenze sul clima, avrebbero investito nelle rinnovabili e non ci troveremmo oggi così fortemente dipendenti dall’estero e così preoccupati per la stabilità energetica del paese. Per questo siamo stati a Ravenna, sede di una delle maggiori multinazionali dell’oil&gas, per riaffermare che i territori non sono d’accordo con la politica governativa, che consente alle aziende, grazie ad uno stato di emergenza ormai permanente, di causare danni sui territori, cambiamenti climatici a livello globale e perpetrare le ingiustizie sociali di cui sono sempre state protagoniste in tutti gli angoli del pianeta. 

Non solo ci si oppone ai 20 miliardi all’anno regalati al settore fossile ma si avanzano proposte concrete per una gestione energetica democratica, partecipata e da fonti pulite, sempre respinte, nonostante il loro largo consenso popolare e l’avallo di scienziati e giuristi.
Siamo stati ancora una volta in piazza per dire Per il Clima Fuori dal Fossile!

 
https://fuoridalfossile.wordpress.com/2022/03/13/blitz-del-ministro-cingoleni-a-ravenna/
 
 
Il servizio di Ravennawebtv
 
 
 
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Ambientalisti in protesta in piazza a Ravenna contro il ministro Cingolani
 
 
 

 

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