ISTAT. Nel primo trimestre del 2022 calo dello 0,2%. Ma Brunetta vede rosa. L'inflazione rallenta ma non il carrello della spesa
Il ministro dell'Economia Daniele Franco e il presidente del Consiglio Mario Draghi - Foto LaPresse
Un segno meno per il governo Draghi. Per la prima volta l’esecutivo di unità nazionale deve affrontare un calo del prodotto interno lordo: nel primo trimestre del 2022 è diminuito dello 0,2% rispetto al trimestre precedente. Nonostante le stime fossero peggiori (il Def prevedeva un -0,5%) il «governo dei migliori» non fa una bella figura anche perché, come ammette il direttore centrale della contabilità nazionale dell’Istat Giovanni Savio «i dati europei ci vedono un po’ in fondo rispetto agli altri Paesi». E il Pil italiano è il solo ancora sotto i livelli pre-Covid dello 0,4%.
La «lieve» flessione dell’attività registrata dall’economia italiana nel primo trimestre del 2022, pari a -0,2%, è la prima dopo quattro trimestri di «crescita sostenuta». Se anche il prossimo trimestre vedrà il segno meno, l’Italia rientrerà tecnicamente in recessione: uno smacco che sarebbe intollerabile per Draghi.
Gli effetti della guerra in Ucraina sono naturalmente la causa principale assieme all’aumento dei prezzi dell’energia, non tutti legati al conflitto.
Sul fronte dell’inflazione però si registra una piccola riduzione. Ad aprile dopo 9 mesi di accelerazione, l’indice dei prezzi al consumo registra un aumento dello 0,2% su base mensile e del 6,2% su base annua (da +6,5% di marzo). Il rallentamento dell’inflazione su base tendenziale si deve prevalentemente ai prezzi dei beni energetici che rallentano dal +50,9% di marzo a +42,4%. La riduzione delle accise decisa dal governo e il calo delle bollette ratificato il primo del mese dall’Arera – grazie agli stanziamenti pubblici – hanno fatto la loro parte.
La piccola buona notizia però è subito eclissata dal fatto che per il «carrello della spesa» – che Istat valuta su prodotti alimentari e per la cura di casa e persona che rientrano nella spesa quotidiana delle famiglie- l’inflazione ha accelerato ad aprile al 6%, un punto in più rispetto al 5% di marzo. Dimostrando ancora una volta come l’inflazione colpisca di più le fasce più popolari e meno i ricchi.
A vedere comunque il bicchiere mezzo pieno è sempre l’ineffabile Renato Brunetta, unico esponente di governo a commentare i dati. «L’economia italiana tiene. Pesa, sullo 0,2 di oggi, il mese di gennaio che ha richiesto misure per il contenimento del virus, oltre alla guerra in Ucraina e il forte aumento dell’inflazione, soprattutto da beni energetici. Può essere considerata con cauto ottimismo, viste le poco rosee previsioni elaborate nel Def. L’aumento dell’export e del turismo sono segnali incoraggianti anche per i trimestri successivi: potrebbero segnare una crescita superiore a quella stimata sempre nel Def»».
A preoccupare però arrivano i dati sullo spread: il differenziale coi titoli tedeschi ha raggiunto i 185 punti base, sui livelli di giugno 2020; mentre il Tesoro ha assegnato 6,5 miliardi di euro di Btp a 5 e 10 anni con tassi in deciso rialzo: 1,91% e 2,78%, ai massimi da oltre tre anni.
CRISI UCRAINA. Non si parla più di far cessare il conflitto, ma di vittoria, con costi umani ed economici incalcolabili. La vittima politica della escalation a guida angloamericana è l’Ue
Il vertice di Ramstein, il ministro ucraino della difesa Reznikov e il capo del Pentagono Austin - Ap
La responsabilità di questa guerra, anche tenendo conto del contesto geopolitico che ne ha forgiato numerose condizioni, non può che essere addossata alla Russia, in quanto paese aggressore che ha deciso di risolvere con le armi gli attriti sui suoi confini occidentali. Ma l’allargamento del conflitto, verso il quale il mondo sta rapidamente precipitando, chiama in causa altri responsabili. Il vertice con i rappresentanti di 43 paesi convocato dagli americani nella loro grande base militare di Ramstein in Germania non può definirsi altrimenti che come un consiglio di guerra. Con l’intento dichiarato di giungere a una completa vittoria militare dell’Ucraina.
Cosa questo significhi quando sconfitto si vorrebbe il Paese più esteso e la seconda potenza nucleare del pianeta non è chiaro ed è decisamente inquietante. Fatto sta che non si parla più di far cessare la guerra, ma di vincerla. Con costi umani ed economici incalcolabili e che infatti tutti si guardano bene dal calcolare. La diplomazia si è dissolta in un latrato irresponsabile e minaccioso, che esula da ogni possibile prospettiva negoziale. Ad ogni giorno che passa, ad ogni pronunciamento della Nato, di Londra e di Washington, ad ogni replica moscovita, la possibilità di un compromesso si fa sempre più evanescente, per non dire impossibile.
Se si può capire, senza peraltro apprezzarla, la retorica patriottico-muscolare di uno Zelensky che si considera il centro del mondo e la chiave del suo futuro politico, del tutto irresponsabile e irritante è quella del sottosegretario britannico alla difesa James Heappey che suggerisce agli ucraini (ma, per carità, la scelta è loro…) di usare le armi pesanti ricevute da Londra (oltre che dagli Usa e da altri paesi Nato) per colpire obiettivi in territorio russo. Non da meno i toni del segretario alla Difesa americano Lloyd Austin che, ritenendo minacciata l’Europa intera, muove un passo ulteriore verso l’ipotesi della «guerra totale».
La prima vittima politica di questo conflitto e della sua escalation a guida angloamericana è l’Unione europea, oscurata, allineata, senza voce e senza proposte, senza punto di vista sulla guerra e sulla pace, dedita da mane a sera a dimostrare che i suoi gretti interessi economici non macchieranno la purezza dei «valori occidentali». Le sbruffonate muscolari di Boris Johnson e del suo governo, dovutamente concimate da una guerra sul suolo europeo e dalla crisi delle interdipendenze economiche globali, ci offrono, fra l’altro, un insegnamento che gli europei hanno finora evitato di ascoltare. Brexit non conduceva solo fuori dall’Unione europea ma contro di essa. In una logica nella quale la competizione, anche e soprattutto sul piano geopolitico, prevale largamente sulla cooperazione, nonostante la rappresentazione di facciata di uno schieramento comune e condiviso in tutte le sue scelte.
Che l’influenza tedesca sull’Europa orientale fosse mal tollerata a Londra e Washington non è certo un mistero e il conflitto tra Kiev e Mosca una buona occasione per ridefinirne i contorni. Inoltre, nella sua agonia, l’Unione europea si trova a dover calibrare il metro della democrazia solo sulla maggiore o minore avversione nei confronti della Russia, oggi spietatamente incarnata da Putin. Cosicché le destre nazionaliste, che si tratti di Marine Le Pen, di Salvini, dell’Afd non vengono più giudicate sulle ideologie che veicolano e sulle politiche che conducono, ma sul posizionamento in rapporto a Mosca, cosa che potrebbe volgere in popolarità quando le conseguenze di una guerra prolungata si abbatteranno sulle economie europee. Mentre la Polonia, sotto procedimento per infrazione dello stato di diritto, si ritrova miracolosamente ad essere un baluardo della democrazia. Titolo negato invece all’ex sodale del defunto gruppo di Visegrad Victor Orban per non avere voluto una rottura totale con Mosca. Lo stesso metro viene applicato, su tutt’altro versante, ai movimenti pacifisti, in evidente difficoltà, dal momento che non si contemplano soluzioni diverse dalla piena vittoria militare ucraina, alla quale «si deve credere» come ci crede Zelensky, dicono a Washington e Londra. Altrimenti si fa il gioco di Mosca.
Se la Russia di Putin ha indubbiamente accumulato tutti i requisiti propri di un “impero del male”, questo non produce automaticamente un impero del bene che lo fronteggi. Dalla discarica della guerra fredda è stato ripescato un vecchio deplorevole arnese: il “mondo libero”, ripetutamente citato in questi giorni da Zelensky e dall’amministrazione americana. A quest’ultimo appartenevano, tanto per ricordare i suoi esponenti più raccapriccianti, lo scià di Persia Reza Pahlavi, il dittatore filippino Ferdinand Marcos e quello indonesiano Suharto, Augusto Pinochet, la Giunta argentina e numerose dittature centro e latinoamericane. All’occasione gli islamisti afghani e Saddam Hussein.
Dopo la stagione fallimentare della democrazia d’esportazione e degli «Stati canaglia» (modesto surrogato del dissolto impero sovietico del male) il «mondo libero» continua ad ospitare personaggi come Erdogan, il filippino Rodrigo Duterte, la monarchia saudita, Bolsonaro, nonché il generale Al-Sisi, esportatore di gas democratico. A riprova del fatto che con la democrazia la geopolitica non c’entra nulla, tanto poco quanto il «mondo libero» con la libertà, nemmeno quella formale della tradizione borghese. Resta beninteso la possibilità che una sconfitta militare o un lungo logoramento bellico porti alla caduta di un regime. Senza risalire al 1917 è accaduto nel secondo dopoguerra ai colonnelli greci (Cipro), alla dittatura di Salazar in Portogallo (guerre coloniali), alla Giunta argentina (Falkland). Ma a guardare il mondo contemporaneo e le parti in causa sembra una possibilità perfino più remota delle più utopiche speranze pacifiste. Probabile è invece che la guerra sfugga a qualsiasi controllo e disegno strategico con esiti catastrofici. Tutti gli indicatori muovono oggi in questa direzione.
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LO SCANDALO. Inail: 189 omicidi nei primi 3 mesi del 2022: 4 in più rispetto al 2021. Nella giornata mondiale dedicata alla salute e alla sicurezza sul lavoro muore un operaio alla Farnesina. Più vittime del lavoro a causa della ripresa dopo il «lockdown». Cesare Damiano, ex ministro del lavoro e consigliere dell’Inail: «Non sempre questi rimbalzi statisticamente provocano conseguenze virtuosi; registriamo infatti una simmetria tra la crescita produttiva e gli infortuni»
Morti del lavoro, flash mob - Aleandro Biagianti
Fabio Palotti aveva 39 anni e lavorava per una ditta esterna che cura periodicamente la manutenzione di un ascensore alla Farnesina, la sede del ministero degli Esteri a Roma. Mentre stava operando sulla cabina dell’ascensore gli ingranaggi si sarebbero messi in moto facendo cadere l’operaio che è morto sul colpo. Palotti era padre di una bambina. Il suo corpo è stato ritrovato ieri mattina alle otto. È stato inghiottito dalle tenebre del gigantesco palazzo nelle quali è rimasto per ore. Su questa tragedia innominabile la procura di Roma ha aperto un’indagine per
Leggi tutto: Più morti del lavoro a causa della ripresa dopo il «lockdown» - di Roberto Ciccarelli
Commenta (0 Commenti)TARUFFI: BENE COMUNQUE AVER ESPUNTO SCUOLA; DUBBI M5S-VERDI (DIRE) Bologna, 28 apr. -
L'autonomia regionale "non è la priorità". La sinistra in Regione Emilia-Romagna frena così la spinta del presidente Stefano Bonaccini, che oggi in aula ha rilanciato il progetto e chiesto al Governo di fare passi avanti. "Non abbiamo mai negato di avere sensibilità differenti in maggioranza- sottolinea il capogruppo di Emilia-Romagna Coraggiosa, Igor Taruffi- anche nella scorsa legislatura. Per noi, qualsiasi percorso di autonomia deve muoversi all'interno di una legge quadro e dopo la definizione dei livelli essenziali di prestazione per tutte le Regioni. Se viene lasciato solo alle contrattazioni tra il Governo e le singole Regioni può produrre una situazione di scarsa chiarezza e di difficile gestione". Detto questo, per Taruffi "è giusto sfilare il tema dell'istruzione, che è stato divisivo in questi anni. Valutiamo positivamente questo passaggio". Allo stesso modo, "anche il tema dei residui fiscali per noi è da archiviare". Ma allo stesso tempo, rimarca Taruffi, "è giusto anche sottolineare che mancano nove mesi allo scioglimento delle Camere". In questo periodo il Governo e il Parlamento, alle prese con l'uscita dalla pandemia, la crisi energetica e la guerra in Ucraina, "saranno prioritariamente impegnati a discutere su quei temi. Quindi penso che difficilmente nei prossimi nove mesi succederanno cose particolarmente innovative". Detto in altri termini, dice chiaro e tondo Taruffi, "oggi l'autonomia non è la priorità. Non possiamo far finta di nulla e continuare le discussioni iniziate nel 2017 come se nulla fosse. Dobbiamo rivedere le priorità. Non possiamo correre il rischio di fare discussioni che sono fuori dalla storia". Della stessa idea è anche Silvia Piccinini, consigliera regionale M5s.(SEGUE) (San/ Dire) 13:38 28-04-22 NNNN
AUTONOMIA. SINISTRA 'FRENA' BONACCINI: ORA NON E' LA PRIORITA' -2-
(DIRE) Bologna, 28 apr. -
"Sull'autonomia abbiamo sempre avuto dubbi- ricorda la pentastellata- a maggior ragione oggi che dobbiamo affrontare il post-pandemia, la crisi energetica e le conseguenze della guerra in Ucraina. E' un dibattito che va assolutamente aggiornato rispetto alle nuove priorità che ha il Paese. Bene aver espunto la scuola, ma non basta ragionare per titoli. Vogliamo entrare nel merito delle questioni, la semplificazione ad esempio non deve valere per continuare a investire sulle fonti fossili". Anche per la verde Silvia Zamboni, "oggi gli emiliano-romagnoli non credo siano interessati a questo iter, forse lo è di più il sistema imprenditoriale". Detto questo, Zamboni invita Bonaccini a incontrare i promotori della petizione contro l'autonomia "per spiegare le coordinate della proposta dell'Emilia-Romagna e trovare un chiarimento sui punti che ancora rendono scettici, per non dire contrari, questi cittadini". (San/ Dire) 13:38 28-04-22 NNNN
Commenta (0 Commenti)IL DISCORSO. Lo storico intervento di Enrico Berlinguer: «Per noi austerità è il mezzo porre le basi del superamento di un sistema in crisi strutturale»
Da che cosa è nata, da che cosa nasce l’esigenza di metterci a pensare e a lavorare attorno ad un progetto di trasformazione della società che indichi obiettivi e traguardi tali da poter e dover essere perseguiti e raggiunti nei prossimi tre-quattro anni, ma che si traducano in atti, provvedimenti, misure, che ne segnino subito l’avvio?
Questa esigenza nasce dalla consapevolezza che occorre dare un senso e uno scopo a quella politica di austerità che è una scelta obbligata e duratura, e che, al tempo stesso, è una condizione di salvezza per i popoli dell’occidente, io ritengo, in linea generale, ma, in modo particolare, per il popolo italiano.
L’austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali. Questo è il modo con cui l’austerità viene concepita e presentata dai gruppi dominanti e dalle forze politiche conservatrici. Ma non è cosi per noi. Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato.
L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi si manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata.
Ecco, in base a quale giudizio il movimento operaio può far sua la bandiera dell’austerità? L’austerità è per i comunisti lotta effettiva contro il dato esistente, contro l’andamento spontaneo delle cose, ed è, al tempo stesso, premessa, condizione materiale per avviare il cambiamento. Cosi concepita l’austerità diventa arma di lotta moderna e aggiornata sia contro i difensori dell’ordine economico e sociale esistente, sia contro coloro che la considerano come l’unica sistemazione possibile di una società destinata organicamente a rimanere arretrata, sottosviluppata e, per giunta, sempre più squilibrata, sempre più carica di ingiustizie, di contraddizioni, di disuguaglianze.
Lungi dall’essere, dunque, una concessione agli interessi dei gruppi dominanti o alle esigenze di sopravvivenza del capitalismo, l’austerità può essere una scelta che ha un avanzato, concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale, attraverso cui lotta per affermare, nelle condizioni di oggi, i suoi antichi e sempre validi ideali di liberazione. E infatti, io credo che nelle condizioni di oggi è impensabile lottare realmente ed efficacemente per una società superiore senza muovere dalla necessità imprescindibile dell’austerità. Ma l’austerità, a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano l’attuazione, può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e solidale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia: in una parola, come mezzo di giustizia e di liberazione dell’uomo e di tutte le sue energie oggi mortificate, disperse, sprecate.
Abbiamo richiamato in altre occasioni e anche di recente le profonde ragioni storiche, certamente non solo italiane, che rendono obbligata, e non congiunturale, una politica di austerità. Sono ragioni varie, ma occorre ricordare sempre che l’evento più importante i cui effetti non sono più reversibili, è stato e rimarrà l’ingresso sulla scena mondiale di popoli e paesi ex coloniali che si vengono liberando dalla soggezione e dal sottosviluppo a cui erano condannati dalla dominazione imperialistica. Si tratta di due terzi dell’umanità, che non tollerano più di vivere in condizioni di fame, di miseria, di emarginazione, di inferiorità rispetto ai popoli e paesi che hanno finora dominato la vita mondiale. (…) È questo moto, o almeno è principalmente questo moto, che, operando nel profondo, fa esplodere le contraddizioni di una intera fase dello sviluppo capitalistico post-bellico, e determina in singoli paesi condizioni di crisi di gravità mai raggiunta. E se può accadere, come ci è dato di constatare, che all’interno del mondo capitalistico alcune economie più forti possono trarre profitto dalla crisi e consolidare la propria posizione di dominio, per altri paesi economicamente più deboli, come l’Italia, la crisi diventa ormai un rotolare più o meno lento verso il precipizio. (…)
Ma una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all’occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l’occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario. Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base. Una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l’indigenza, ne deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo – ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio – quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova.
Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo cosi ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un’opera di trasformazione sociale (…).
Non voglio qui esaminare i vari provvedimenti di politica economica attuati o in preparazione da parte del governo, ne ricordare il nostro atteggiamento su di essi (…). Voglio invece ribadire una critica di ordine generale che noi comunisti continuiamo a fare, non possiamo non continuare a fare, all’azione del governo. La politica di austerità è tuttora viziata, infatti, da carenze di vigore, di coraggio e di respiro. Ad esempio: non si è saputo ancora suscitare il necessario movimento di opinione e di massa contro gli sprechi. Contro gli sprechi in senso diretto, che sono ancora enormi (si pensi all’energia o all’organizzazione sanitaria) e contro gli sprechi in senso indiretto e lato, come quelli che derivano dal lassismo nelle aziende, nelle scuole e nella pubblica amministrazione; o come quelli, qui denunciati con particolare rigore dai professori Carapezza, Nebbia, Maldonado e da altri, derivanti da imprevidenze, di cui avvertiamo oggi tutto il peso, e da errori enormi compiuti nella politica del suolo, del territorio, dell’ambiente; o dalla trascuratezza nel campo della ricerca. C’è tutta un’azione amplissima contro gli sprechi e per il risparmio in ogni campo che avrebbe bisogno dello stimolo, della direzione, dell’iniziativa continua di un governo che sapesse davvero esprimere l’autorevolezza politica e morale oggi indispensabile (…).
Sta qui il punto di massima differenziazione tra noi e gli esponenti governativi e i gruppi economici dominanti. In costoro, al fondo, vi è uno stato d’animo di resa, cioè qualcosa che sta agli antipodi di ciò che occorrerebbe per ottenere l’adesione convinta del popolo a certi sacrifici necessari. Il paese avrebbe bisogno, per compiere uno sforzo adeguato, di veder chiaro davanti a sé, o quanto meno di vedere chiari alcuni elementi fondamentali di una prospettiva nuova. E invece gli esponenti delle vecchie classi dominanti e molti uomini del governo, quando arrivano a tanto, non sanno andare più in là dell’obiettivo di riportare l’Italia sugli stessi binari su cui procedeva lo sviluppo economico prima della crisi (…)
La ragione principale per cui consideriamo la crisi come un’occasione, sta nel fatto che obiettivi di trasformazione e di rinnovamento come quelli che ho ricordato possono essere non solo compatibili, ma debbono e possono essere organicamente compresi dentro una politica di austerità, che è la premessa indispensabile per superare la crisi, ma andando avanti, non tornando al passato.
Commenta (0 Commenti)INTERVISTA. L’ex presidente della Camera: «L’Europa unita solo sulle forniture militari all’Ucraina, manca la diplomazia»
Laura Boldrini, ex presidente della Camera e deputata Pd. Che giudizio dà dell’escalation militare in Ucraina?
La situazione è drammatica, a partire dalle condizioni della popolazione ucraina. Tutti gli indicatori segnalano una allerta mondiale, penso alle parole del premier britannico Johnson, alla risposta russa. C’è il serio rischio che la situazione sfugga di mano. Non mi pare che si stia facendo tutto il possibile per fermare la guerra, e ripeto che la strada non è l’invio di altre armi: la diplomazia è una strada difficile ma è l’unica possibile.
La missione del segretario Onu Guterres può essere una strada?
Mi pare che il suo tentativo non abbia sortito gli effetti sperati con Putin. La stessa idea di considerare come base di partenza dei negoziati l’annessione di Crimea e Donbass è irrealistica: eppure questo esercizio diplomatico non deve fermarsi. E l’Europa deve fare sentire la sua voce: finora è stata unita solo nell’invio di armi e nelle sanzioni. Spero che prenda forma una prossima visita a Kiev, di Draghi, Macron e Scholz insieme, che metta l’Ue al centro della trattativa.
In Italia è pronto un nuovo decreto per l’invio di armi. Serve un nuovo voto del Parlamento?
Nel decreto approvato a febbraio è prevista la possibilità di inviare armi fino alla fine dell’anno. I dettagli della fornitura militare previsti nei decreti interministeriali passano dal Copasir, ma sono secretati. È però previsto, nello stesso decreto, che ogni tre mesi il Parlamento sia informato dal governo sull’evoluzione della situazione.
Se si inviano armi di natura offensiva e non difensiva è necessario che il Parlamento si esprima?
Mi pare una distinzione abbastanza relativa. Un’arma per sua natura può essere utilizzata per difendersi o per attaccare.
Il M5S pensa a una mozione contro l’invio di armi pesanti.
A marzo su questo punto mi sono astenuta proprio perché ritengo che il conflitto non si risolve inviando armi, ma accelerando i negoziati. Sinceramente non credo che una mozione possa consentirci di fare marcia indietro sulla decisione già presa che dà copertura alle scelte del governo fino a fine anno. La strada per me più opportuna sarebbe lo stop europeo all’importazione di gas russo, così smetteremmo di finanziare la guerra di Putin.
Dopo il no della Germania pare una strada impercorribile.
Certamente più complessa. Oltre a questo si può fare un lavoro politico, spingendo grandi Paesi come Cina, Pakistan, Brasile, Argentina, Sud Africa a isolare Putin, anche mettendo in atto le sanzioni. L’Ue giochi la sua forza economica per coinvolgere questi e altri paesi offrendo loro dei vantaggi di tipo economico e commerciale.
La linea del Pd rappresenta le opinioni del suo elettorato?
C’è una significativa fetta di elettori che ha molti dubbi sull’invio di armi, che non si ritrova in questa scelta: io mi sento in sintonia con loro. È normale che in un grande partito ci siano sensibilità diverse su come raggiungere l’obiettivo, che è comune, di fermare la guerra. La mia precedente esperienza professionale in situazioni di conflitto mi dice che il rifornimento di armi allontana la pace.
Si sente isolata?
Tra i colleghi avverto molta preoccupazione, in particolare quando capi di Stato occidentali usano toni aggressivi: Putin merita questi attacchi, ma se si vuole una tregua bisogna misurare i toni.
Il sì alla guerra divide la sinistra. Sono ferite rimarginabili?
Finora nel centrosinistra c’è stato un dibattito civile, in cui ognuno capisce le ragioni dell’altro. Una discussione che in fondo rappresenta i tormenti dei nostri elettori. Intollerabili invece sono gli attacchi rivolti all’Anpi, l’accusa di essere amici di Putin.
Ritiene che il premier Draghi abbia una posizione troppo schiacciati sugli Usa?
La sua posizione è molto vicina a quella americana, ma non mi pare distante da quella altri leader Ue.
Manca una autonomia della politica estera italiana?
Il mio timore è che si perdano decenni di lavoro sulla distensione e sul disarmo. Il rischio è che Putin modifichi il dna dell’Europa che è ispirato alla pace. L’Ue non nasce come una superpotenza militare, ma come un’entità nata per risolvere i conflitti in modo pacifico.
Eppure crescono le spese militari.
Il riarmo dei singoli Stati è un errore, allontana l’obiettivo di una difesa e di una politica estera comuni. La guerra è il terreno scelto da Putin, lui sta tentando di trascinarci là dove gli è più congeniale. Non possiamo cadere nella trappola.
L’occidente non ascolta le parole di pace del papa?
Se fosse più ascoltato, da tutti, saremmo più vicini a una soluzione del conflitto. Dal papa vengono sempre parole di pace, a differenza del patriarca Kirill che ha benedetto la guerra, invocando la crociata contro l’Occidente e la comunità LGBT+.
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