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NO WAR. Creare un movimento solidale non è come votare un decreto del governo che scarica le coscienze e i magazzini (da riempire col 2% della nostra ricchezza): richiede tempo, impegno e discussioni perché il secondo passo superi il primo

La difficile scommessa  del movimento per la pace

 

Se venerdì è stato il giorno dell’entusiasmo, il sabato – a marcia finita – è forse il giorno delle riflessioni. Se questa eterogenea congerie di intelligenze e passioni che ha organizzato un piccolo tour de force per raggiungere Leopoli non si interrogasse, avrebbe ragione chi, dal salotto di casa, l’ha già pregiudicata d’imbecillità, idioti utili al meschino disegno d’invasione del nuovo Zar di Mosca. E dunque quel bicchiere coi colori della pace ha i suoi lati oscuri, le domande inevase e il rifiuto di risposte troppo semplici. Giudicata nell’ottica di un bicchiere mezzo vuoto, la marcia è stata utile soprattutto a chi vi ha partecipato. E ha un po’, inevitabilmente, coinvolto più gli italiani – e, chissà, qualche europeo – che non gli ucraini, che guardavano a quel bizzarro corteo di un centinaio di giovani e vecchi attivisti pacifisti con gli occhi fuori dalla testa, come ne La Marche Nuptiale di George Brassens.

NELL’INCROCIARE il corteo, il cronista incontra una sola persona che fa il segno della V vedendo i manifestanti. Ma quella V è apprezzamento per la scritta No War – in un Paese dove l’inglese è semi sconosciuto – o è il simbolo della vittoria, parola risuonata più di una volta nei discorsi di rito degli amici ucraini – sacerdoti cattolici in maggioranza – che qui hanno accolto i 221 partecipanti a StopTheWar? In quei discorsi, in una

riunione del primo pomeriggio, paradossalmente, nessuno di coloro che hanno parlato ha nominato la parola pace: mir, parola che i duecento erano venuti a suggerire. Anche queste sono lezioni. Che possono far male, se anche il sindaco di Leopoli ha preferito glissare e mandare un segretario che ha imbastito un discorso di rito: non bellicista ma non certo pacifista. Unica presenza istituzionale di rilievo, l’ambasciatore italiano Zazo (presenza apprezzata) ma che sottolineava appunto una coerenza tutta italiana.

SE IL LETTORE non ha smesso di leggere, bisogna però che veda anche cosa c’è nel bicchiere mezzo pieno: se Carla si dispiace di «questa mancanza di un legame forte col pacifismo ucraino che pur ci dev’essere» e si chiede come altri «che senso ha una marcia di cento italiani?», l’arcivescovo di Bari, Giuseppe Satriano, sottolinea che «intanto ci si è ritrovati, laici e cattolici», uniti da un obiettivo comune che è il ripudio della guerra: lo dice papa Francesco ma anche la suprema Carta. E se dunque Leopoli – scelta organizzata in quattro e quattr’otto dai caschi bianchi che si richiamano a papa Roncalli – ha avuto questa forza di coesione (le adesioni su stopthewarnow.eu continuano a crescere) significa che da un primo passo se ne può fare un secondo.

CREARE UN MOVIMENTO solidale non è come votare un decreto del governo che scarica le coscienze e i magazzini (da riempire col 2% della nostra ricchezza): richiede tempo, impegno e discussioni perché il secondo passo superi il primo. Significa che, ora, chi ha aderito deve fare la sua parte e portare il suo granello di sapienza nel mare sempre in tempesta dei movimenti della società civile che, proprio perché civile, non ama prendere decisioni a cuor leggero. Il passo di Leopoli dunque – almeno nella testa dei più – andava fatto. Andava, come dice il presule di Bari, «toccato il dolore»: andando alla stazione di Leopoli e dimostrando quella solidarietà che è l’unica empatia da cui partire per combattere un conflitto con altri mezzi che non quelli ormai stantii dell’arte della guerra. Strada in salita. Ma non è la prima anche perché non bastano due mani a contare le guerre sul pianeta. Ma non ne bastano nemmeno cento per raccontare di una vivacità che può farsi energia. Peccato per chi non c’era.