GRECIA. Si è chiuso il terzo congresso del partito che punta a essere più esteso, meno ideologico e più politico. La conferma di Tsipras alla presidenza è attesa per il 15 maggio
Atene, il congresso di Syriza
Da ieri Syriza è un nuovo e diverso partito della sinistra, più esteso, meno ideologico e più politico, pronto a rivendicare di nuovo il governo di Atene, avendo con sé un ricco bagaglio di esperienze e di dirigenti ben preparati. Il terzo congresso si è concluso ieri in un’atmosfera di entusiasmo e di ottimismo tra i più di cinque mila delegati, con Tsipras che ribadiva la sua certezza di vincere le prossime elezioni «in qualsiasi momento»: «Abbiamo un progetto, c’è un’alternativa, c’è speranza» ha ribadito con forza il leader di Syriza nelle sue conclusioni.
Il confronto con l’opposizione della sinistra interna, raggruppata principalmente nella corrente “Ombrella” di Euclides Tsakalotos, i cui delegati al congresso superavano il 25%, si è svolta in termini squisitamente politici, evitando asprezze e attacchi personali. Alla fine questo congresso non ha eletto il nuovo gruppo dirigente. La conferma di Tsipras alla presidenza di Syriza si attende per il 15 maggio, quando tutti i tesserati e non solo i delegati potranno votare per i 300 membri del Comitato Centrale.
Alcuni osservatori hanno segnalato la sconfitta della vecchia guardia, del Syriza di un decennio fa, quando faticava a raggiungere il 3% per avere seggi in parlamento. In effetti l’urgenza di abbattere il governo della destra è stato un motivo costante in quasi tutti gli interventi, con punte di disperato allarme da parte dei delegati della provincia e dei centri minori, abbandonati all’arbitrio di imprenditori improvvisati, ma ben agganciati con il premier Mitsotakis, che spianano brutalmente ambiente naturale e distruggono l’economia locale e perfino monumenti archeologici.
La grande determinazione a rovesciare al più presto un pessimo governo oligarchico ha messo da parte le questioni di politica estera, soprattutto la disastrosa guerra in Ucraina. Un argomento vissuto dai greci con ansia e dalla sinistra greca con un certo distacco. Al tavolo congressuale dedicato al conflitto in corso due sono stati i temi dominanti: una dura critica al governo greco e soprattutto al premier che si è affrettato, da solo, senza avvisare nessuno e scavalcando tutte le procedure legali, a inviare armi a Kiev; e la difficoltà di creare un forte movimento in favore della pace, dopo lo splendido concerto pacifista organizzato da grossi nomi della musica greca al centro di Atene qualche settimana fa. La mobilitazione pacifista si scontra con la demagogia delle tv controllate dal governo che esaltano la Nato e, assurdamente, associano la Russia di Putin con l’Unione Sovietica. Grande l’impegno quindi delle forze pacifiste a spiegare che c’è stata un’invasione russa che va severamente condannata, ma non per questo dobbiamo ignorare le responsabilità della Nato e dell’Occidente.
MEDIO ORIENTE. Operazione militare contro il movimento curdo e le montagne-roccaforte a due mesi e mezzo dalla precedente, nel mirino la fonte dei progetti di confederalismo democratico. Tentata invasione via terra insieme ai peshmerga di Erbil dopo il vertice del 15 aprile ad Ankara
Un combattente delle Hpg del Pkk nelle montagne nord-irachene
È una coazione a ripetere: dopo ogni incontro ad Ankara tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il primo ministro del governo del Kurdistan iracheno (Krg) Masrour Barzani, le montagne del nord iracheno diventano teatro di un’operazione militare.
Accade di nuovo in questi giorni: al vertice del 15 aprile in cui i due leader hanno riaffermato la cooperazione bilaterale «per promuovere stabilità e sicurezza», dietro le quinte il Krg ha dato luce verde al lancio dell’offensiva militare turca e messo a disposizione i propri uomini, i peshmerga del partito del clan Barzani, il Kdp.
L’OBIETTIVO È IL PKK, il Partito curdo dei lavoratori che nelle montagne nord-irachene ha la base politica e militare e la roccaforte dell’ideologia e della resistenza su cui fanno leva i vari esempi di confederalismo democratico nati dalla teorizzazione del leader prigioniero, Abdullah Ocalan: l’esperienza-embrione del campo di Makhmour, a sud di Erbil; la Siria del nord-est; e Shengal, nel nord-ovest iracheno.
L’ultima volta, appena due mesi e mezzo fa: i primi di febbraio (a pochi giorni dalla fine del tentato assalto dell’Isis alla prigione di Hasakah, nella Siria del nord-est), con «Aquila d’inverno» la Turchia aveva colpito in contemporanea Makhmour, Rojava e Shengal, ore di bombambardamenti su villaggi e un campo profughi e quasi 30 morti tra forze di autodifesa e civili.
CE LO SPIEGAVA qualche mese fa Zagros Hiwa, portavoce del Kck, l’Unione delle comunità del Kurdistan: «I bombardamenti di Makhmour, del monte Shengal, delle montagne di Qandil sono sintomo di un attacco su larga scala per distruggere il confederalismo democratico. Il potere del Kdp è clanistico, familistico, capitalista. Il confronto è tra dinastia e democrazia, tra autoritarismo e autogestione. Per questo per Barzani il Pkk è minaccia esistenziale».
Questa la ragione dello scarso stupore che si registra in Iraq. Già prima dell’incontro, a Shengal c’era chi dava il 15 aprile come possibile avvio della nuova operazione, visti i precedenti. Che non sono pochi: a «Iraq del Nord» del 1992 sono seguite tra le altre «Acciaio» (1995), «Martello» (1997), «Sole» (2008), «Martire Yalçın» (2015).
E IERI NEL VILLAGGIO di Dugire, nel distretto di Shengal, l’esercito iracheno ha attaccato una postazione delle Asaysh (le forze di difesa interne dell’Amministrazione autonoma ezida) nel tentativo di assumerne il controllo. Scontro a fuoco poi rientrato (5 feriti tra Asaysh e civili) seppure nelle ore successive i soldati iracheni abbiano circondato altre due postazioni delle Asaysh nei villaggi di Sinone e Khanasur.
Immediata la protesta della gente che si è subito radunata per manifestare fino al ritiro iracheni. Casi che sono il segno – ci spiegano – di un coordinamento degli attacchi che arriva fino in Rojava, con villaggi del distretto di Hasakah presi di mira dai droni turchi di nuovo ieri.
Da maggio 2019 è stata avviata un’unica serie di operazioni, riconoscibili dal nome-ombrello di «Artiglio». Quella iniziata domenica è stata ribattezzata «Claw Lock», il blocco dell’artiglio, appunto.
Stavolta la Turchia ha giocato una carta in più e ai raid con jet e droni – in violazione della sovranità irachena – ha aggiunto la tentata invasione via terra di forze speciali nelle zone di Metina, Zap e Avasin-Basyan (non a Qandil, dunque, quartier generale del Pkk), prendendo di mira – secondo il ministro della difesa turco Akar – «rifugi, depositi di munizioni, reti di tunnel», «tutti distrutti». Secondo Ankara sono stati uccisi «19 terroristi». Dava anche il numero dei propri feriti, appena quattro.
DIVERSA LA VERSIONE del Pkk: l’esercito turco ha colpito cinque villaggi del distretto di Zarghan, mentre i combattenti delle Hpg (le Forze di difesa del Popolo, braccio armato del movimento) hanno ucciso 32 soldati turchi e danneggiato due velivoli nei duri scontri nelle comunità dove i militari sono riusciti ad arrivare grazie al sostegno del Kdp e nelle zone in cui hanno tentato, senza successo, di atterrare con gli elicotteri.
Che un’invasione via terra si concluda con successo è quasi impossibile: le montagne-rifugio del Pkk sono pressoché inespugnabili, coacervo di tunnel e grotte che hanno richiesto anni di preparazione, ben note ai combattenti, quasi per nulla all’esercito turco.
E NEMMENO AI PESHMERGA di Erbil, che hanno preso parte all’operazione. Era successo un paio di volte prima, accade ancora, a riprova del punto di non ritorno raggiunto dalle due entità curde, agli antipodi politici.
Per le Hpg non esiste dubbio sulla collusione tra Barzani ed Erdogan: «Senza la cooperazione del Kdp – hanno scritto in una nota – l’esercito turco non sarebbe stato in grado di attaccare il sud della regione di Zap. Negli ultimi quattro giorni i nostri territori sono stati bombardati 147 volte».
Dietro, secondo il Congresso nazionale del Kurdistan (Knk) sta il tentativo della leadership turca di approfittare dell’immagine di pacificatore nella crisi ucraina «per distrarre dal ruolo distruttivo che Erdogan continua a giocare in Turchia, in Kurdistan e nel resto della regione».
UN’ANALISI SIMILE a quella del partito turco di sinistra, Hdp (che ieri contava decine di arresti tra i suoi membri riuniti per commemorare i 34 morti in piazza del 1° maggio 1977): ieri ha duramente criticato la coalizione di governo accusandola «di resuscitare la guerra per salvarsi, anche al costo di trascinare la Turchia in un disastro. Questi attacchi non risolveranno nessuno dei problemi del paese, economici, politici e sociali, al contrario li aggraveranno».
FINLANDIA . Un documento del governo chiede una road map al parlamento
Manifestazione contro la guerra a Helsinki - Ap
L’accelerata impressa, ad inizio settimana, dalla premier socialdemocratica, Sanna Marin, in merito all’adesione della Finlandia alla Nato ha spiazzato oltre che i vicini svedesi anche gli alleati di governo di Vasemmistoliitto (Alleanza di sinistra), storicamente pacifisti e neutralisti.
La premier svedese, Magdalena Andersson, ha annunciato la volontà del suo paese di procedere con la richiesta di adesione «tra qualche mese» mentre la giovane premier finlandese ha insistito di voler chiudere la discussione in «poche settimane». Nell’intervista al quotidiano Iltalehti lunedì, Sanna Marin, aveva aggiunto poi che «esiste una solida e larga maggioranza parlamentare a favore della Nato». La notizia sulle «poche settimane» e sulla «larga maggioranza» ha spiazzato di fatto l’Alleanza di sinistra che, a marzo, aveva appoggiato l’invio di armi all’Ucraina ma che non immaginava tempi così stretti per la richiesta di adesione.
Il sondaggio di inizio marzo nel quale, per la prima volta, i finlandesi si dichiaravano a maggioranza a favore dell’Alleanza atlantica aveva però evidenziato come, ad essere ancora in maggioranza per la neutralità del paese, fossero proprio gli elettori di Vasemmistoliitto. L’Alleanza di sinistra è un partito politico nato nel 1990 dalla confluenza dei socialisti dell’Skdl e degli eurocomunisti dell’Skp e fa parte della Sinistra europea.
Un partito che è quasi sempre stato alleato di governo dei socialdemocratici e che attualmente esprime due ministri tra i quali la giovane leader, Li Andersoon, all’istruzione. Nella conferenza stampa di qualche settimana fa, dopo la direzione del partito, Andersoon aveva dichiarato che «l’adesione della Finlandia alla Nato non può essere una reazione alla guerra in Ucraina» chiedendo tempo rispetto alla decisione e rilanciando l’idea di un referendum popolare denunciando, contestualmente, «l’atmosfera tossica del dibattito che circonda l’adesione e la politica estera e di sicurezza». La polarizzazione sull’adesione è centrale nel dibattito sui social dove l’accusa di «filoputinismo» o di «troll di Mosca» appare in risposta ai commenti che rivendicano la storia di neutralità del paese.
La Finlandia, come gli altri paesi scandinavi, ha la leva obbligatoria (con possibilità di obiezione di coscienza) e dichiara una capacità di mobilitazione di 900 mila riservisti su una popolazione totale di 5,5 milioni di abitanti. Già nel 2015, durante il periodo di tensione con Mosca, ne erano stati richiamati 250 mila. I 1300 km di confine con la Russia la rendendo il paese al mondo con la frontiera più estesa con la Federazione.
Temi centrali nel dibattito di questi giorni rilanciati dalla relazione sulla «sicurezza» approvata mercoledì (dopo l’intervista della premier Marin) da tutto il consiglio dei ministri, compresi i rappresentanti dei Verdi e della sinistra. Nel documento il governo chiede una road map al parlamento per discutere e decidere sull’adesione già dalla prossima settimana. Un percorso, di fatto, accettato anche dalla dirigenza di Vasemmistoliitto. Per ora solo il deputato dell’Alleanza di sinistra, Johannes Yrttiaho, è uscito alla scoperto definendo la relazione «completamente unilaterale, senza la minima valutazione critica della situazione della politica di sicurezza o delle opzioni per la Finlandia» denunciando come «l’adesione alla Nato significherà la riduzione del potere decisionale del nostro paese con la presenza di truppe straniere e anche un cambiamento nella politica finlandese in materia di armi nucleari».
LA VIA CRUCIS AL COLOSSEO. Nonostante le polemiche dei giorni scorsi, papa Francesco e Santa sede hanno tirato dritto: ieri sera, alla Via Crucis del venerdì santo – tornata al Colosseo dopo due anni di […]
Nonostante le polemiche dei giorni scorsi, papa Francesco e Santa sede hanno tirato dritto: ieri sera, alla Via Crucis del venerdì santo – tornata al Colosseo dopo due anni di stop causa pandemia -, due giovani donne, una ucraina e una russa, hanno portato insieme la croce durante la tredicesima stazione, dedicata alla morte di Gesù.
Irina è un’infermiera ucraina, Albina una studentessa russa di Scienze infermieristiche, entrambe lavorano e studiano al Campus biomedico di Roma, l’ospedale dell’Opus Dei. Mentre portavano la croce, lo speaker avrebbe dovuto leggere la breve meditazione, dedicata alla guerra e alla riconciliazione, poi sostituita da un minuto di silenzio. «La morte intorno. La vita che sembra perdere di valore. Tutto cambia in pochi secondi. L’esistenza, le giornate, la spensieratezza della neve d’inverno, l’andare a prendere i bambini a scuola, il lavoro, gli abbracci, le amicizie… tutto», questo il testo ufficiale anticipato nel pomeriggio in cui risuona la domanda che ha attraversato altri frangenti drammatici della storia. «Dove sei Signore? Dove ti sei nascosto?». E la conclusione della meditazione immagina il futuro: «Insegnaci a fare pace, ad essere fratelli e sorelle, a ricostruire ciò che le bombe avrebbero voluto annientare».
La scelta vaticana di far portare la croce anche a una donna russa ha scatenato aspre critiche da parte ucraina, oltre quelle del drappello di analisti, giornalisti e intellettuali di casa nostra che da settimane accusano Bergoglio,
RESISTENZA. Ma le polemiche contro l'associazione partigiani non si fermano, adesso c’è il caso delle bandiere Nato alla manifestazione di Roma per il 25 aprile. Per il presidente Pagliarulo sono «inappropriate». Torna la polemica con la comunità ebraica romana che non parteciperà neanche quest'anno al corteo
Su Amazon, dov’è adesso è quasi esaurita, informano che solitamente è venduta con la bandiera degli Stati uniti. La non popolarissima bandiera della Nato sta vivendo il suo momento di gloria, almeno qui da noi dov’è diventata argomento di polemica e di provocazione. Già sventola nelle dichiarazioni di chi vuole portarsela al 25 aprile, non per sé ma contro gli altri. Come nelle peggiori curve, o nelle arene, si agitano i vessilli non tanto per celebrarsi quanto per istigare una reazione. Le volete le bandiere della Nato al corteo per la Liberazione?, chiedono due o tre volte al presidente nazionale dell’Anpi. E lui: «Ritengo che sarebbero inappropriate in quella circostanza, dovremmo parlare di pace e non mi pare che la Nato sia un’associazione pacifista».
Lì per lì, durante la conferenza stampa convocata dal presidente Gianfranco Pagliarulo nella sede nazionale dell’Associazione partigiani, era parsa una risposta sorvegliata, all’interno di un discorso teso a sottolineare il carattere «popolare e inclusivo» del 25 aprile. Del resto l’incontro con i giornalisti con dieci giorni di anticipo rispetto alla Liberazione era stato pensato proprio per uscire da «un assalto mediatico senza precedenti» di cui l’Anpi si sente vittima e cercare, per quanto ancora possibile, di non trasformare la festa in una rissa. Problema sentito più a Roma che a Milano, dove si svolge la manifestazione nazionale e dove – riferisce Pagliarulo – nelle riunioni preparatorie neanche la comunità ebraica si è detta favorevole a far sfilare le bandiere Nato. Ma a Roma è diverso, a Roma dal 2013 la partecipazione della brigata ebraica è diventata problematica: quell’anno un oratore della brigata fu contestato e gli fu tolta frettolosamente la parola, l’anno successivo il servizio d’ordine che proteggeva la brigata cercò di impedire l’ingresso nel corteo della comunità palestinese. Spintoni e dal 2015 la comunità ebraica romana celebra il 25 aprile lontano dall’Anpi, malgrado la brigata ebraica abbia combattuto per la Liberazione. A nulla sono serviti i tentativi di conciliazione messi in campo, una volta, dalla ex sindaca Raggi.
L’Anpi di Roma ha scritto anche quest’anno alla comunità, invano. Oggi Pagliarulo scriverà alla presidente Ruth Dureghello chiedendole un incontro (come lo invitava a fare ieri la vice presidente dell’Anpi Albertina Soliani su Domani): «Noi come sempre abbiamo la braccia aperte per tutti, in particolare per la comunità ebraica». Ma Dureghello gli ha già risposto. «È curioso che nella stessa conferenza stampa si sia detto no alle bandiere Nato e sì a quelle palestinesi», ha chiuso il discorso. E in sostanza ha spiegato di non riconoscere più l’interlocutore (malgrado l’Anpi con l’Ucei, l’unione nazionale delle comunità, dialoghi da sempre, non solo sul 25 aprile). Per Dureghello «in mancanza dei partigiani che ormai hanno un’età avanzata o non ci sono più, nessuno ha diritto a parlare a nome loro».
È chiaro che in questo caso la diversità di punti di vista sulla guerra della Russia all’Ucraina c’entri poco. Pagliarulo resta contrario all’invio delle armi all’Ucraina anche se definisce «certamente resistenti» i militari e i civili ucraini che tentano di respingere i russi. Spiega però che «il crescente rifornimento di armi sempre più letali rende più difficile il ruolo di mediazione che spetterebbe all’Europa». Per rispondere agli attacchi «violenti e volgari» e a chi lo ha indicato come «putiniano», Pagliarulo insiste che «non siamo mai stati equidistanti, stiamo con gli aggrediti» e ricorda che «siamo stati tra i primi, al mattino del 24 febbraio a condannare l’invasione della Russia». Dice che «purtroppo non vedo la volontà di fare davvero la trattativa», rivendica la scelta pacifista in linea con la storia dell’associazione (saranno pubblicati discorsi pacifisti di Pertini, Iotti e Merlin), sostiene che non è giusto paragonare la resistenza ucraina a quella italiana del ’43-’45, e aggiunge che «le invasioni buone non esistono, le guerre non hanno mai risolto i problemi e hanno sempre peggiorato la situazione». Infine respinge la descrizione di un’Anpi spaccata sulla guerra in Ucraina – prima di Soliani era stato l’ex presidente Smuraglia ad avanzare un’altra linea: «C’è un legittimo dibattito, le opinioni diverse sono benvenute, ma al congresso di fine marzo il 95% ha condiviso la linea della presidenza nazionale». E assicura: «L’Anpi non è mai stata e non sarà mai una ridotta della sinistra radicale».
L'emancipazione dalle forniture è molto più complicata di quello che si era immaginato. Ce le spiega Vincenzo Comito, esperto di finanza e geoeconomia
l gas russo. La chiusura del rubinetto. Una questione che sembrava di facile soluzione si sta rivelando invece molto più complessa e la dipendenza dell’Europa dai gasdotti è molto più importante di quello che si vuol far credere. Abbiamo chiesto di fare il punto a Vincenzo Comito, esperto della materia.
Allora Comito, come stanno le cose? Cominciamo a spiegare che cos’è la dipendenza dell’Europa dalle forniture di gas russo Secondo i dati disponibili (fonte Eurostat), nel primo semestre del 2021 l’Ue ha importato il 46,8% del suo fabbisogno di gas dalla Russia, il 20,5% dalla Norvegia, l’11,6% dall’Algeria, il 6,3% dagli Stati Uniti, il 4,3% dal Qatar e il 10,5% da altri paesi. Se prendiamo in considerazione l’intero anno, i dati non variano di molto. Gazprom è il gigante del settore a livello mondiale; produce più gas di BP, Shell, Chevron, Exxon, Saudi Aramco messi insieme. Nel 2021 il gruppo russo ha consegnato 540 miliardi di metri cubi del prodotto; 331 miliardi sono andati al consumo interno, 168 hanno preso la strada dell’Europa e 10 soltanto quella della Cina (Wilson, 2022).
Messa così la “liberazione” dal gas russo sembra quasi impossibile… Per liberarsi dal gas russo bisognerebbe o trovare altri fornitori, o ridurre i consumi, o avviare delle fonti alternative. La seconda e la terza opzione richiedono ovviamente del tempo, misurabile per lo meno in alcuni anni, mentre comporterebbero anche la necessità di molti investimenti. Vediamo meglio la prima alternativa. Intanto ci sono da segnalare febbrili viaggi da parte di delegazioni dei paesi occidentali verso i paesi produttori alla ricerca dell’agognato prodotto. Ma i risultati per ora non sembrano aver dato grandi risultati.
I soliti maligni indicano negli interessi americani a subentrare alla Russia come fornitore di gas uno dei motivi che stanno dietro l’attuale conflitto. Gli Usa e i paesi occidentali possono sostituire la Russia? La Norvegia è il nostro secondo fornitore dopo la Russia, ma le sue riserve non sono più quantitativamente quelle di una volta; comunque, essa ha subito promesso, per aiutare i paesi della Ue, di aumentare la produzione di 1,4 miliardi di metri cubi all’anno a partire dall’ottobre 2021, una cifra sostanzialmente nulla, persino minore dell’incremento di produzione che il nostro ministro alla cosiddetta tTransizione ecologica promette di estrarre dal mare Adriatico. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, Il presidente Biden ha promesso di fornire alla Ue 15 miliardi di metri cubi supplementari di Lng (gas naturale liquefatto, ndr) all’anno, pari al 10% delle importazioni di gas russo nel 2021, sin da subito, mentre parla di 50 miliardi di metri cubi a partire dal 2030.
Ma gli esperti sembrano mostrare in proposito grande scetticismo... Gli Usa hanno già il 100% della capacità degli impianti di liquefazione del gas utilizzata e non c’è praticamente niente di più da esportare nel breve termine. Per cambiare in maniera sostanziale la situazione occorrerebbero da 4 a 5 anni e investimenti per decine di miliardi di dollari (35 miliardi, secondo una stima riportata dall’Economist). Da parte sua l’Europa dovrebbe aumentare di molto le sue infrastrutture per accogliere gas americano. Solo Spagna e Francia hanno dei terminali adeguati, ma essi non servono per coprire i fabbisogni della parte Est del continente, Germania compresa. Quest’ultima non ha terminali e occorrerebbero diversi anni per metterli in piedi.
E il gas degli altri paesi? Per quanto riguarda l’Algeria, bisogna intanto considerare che si tratta di una fonte che minaccia di esaurirsi nel giro di pochi anni. A parte questo vanno anche ricordati i legami economici e politici tra l’Algeria e la stessa Russia. Il paese africano si è astenuto all’Onu sulla risoluzione che condannava l’invasione russa; esso non dimentica il sostegno ricevuto al momento della lotta per l’indipendenza. Ricordo anche che le forniture all’Ue da parte di tale paese si sono ridotte di quasi un terzo tra il 2007-2008 e il 2021 e che nell’immediato le possibilità di un loro aumento sarebbero limitate.
C'è anche il Qatar... Il paese è alleato degli Usa e possiede le terze riserve di gas al mondo, ma circa il 90% della sua produzione è vincolata da contratti di lungo termine, stipulati principalmente con diversi paesi asiatici e che non possono essere cambiati. Con il Qatar il margine di manovra può riguardare comunque al massimo, al momento, soltanto il 10% libero da contratti di lungo periodo. Resterebbe infine l’Iran, che possiede potenzialmente grandi riserve di gas, ma per arrivare a esportarlo sarebbero necessari, oltre alla caduta delle sanzioni, ancora grandi investimenti che richiederebbero come al solito almeno qualche anno per essere portati a compimento.
Quali possono essere dunque le conclusioni almeno provvisorie di questi ragionamenti? Potremmo dire intanto che per liberarci dalla dipendenza dal gas russo ci vorrà tempo e la verifica della disponibilità dei vari attori coinvolti. Per altro verso, può anche succedere che i rapporti con la Russia con il tempo migliorino, ma comunque nel frattempo essa avrà trovato altri clienti. E così è da poco che è stato varato un progetto per portare il gas dei giacimenti che forniscono l’Ue sino alla Cina, progetto che richiederà peraltro alcuni anni per essere completato. Voglio anche sottolineare il fatto che ci sono altri problemi aperti: se la Germania volesse chiudere, come sarebbe auspicabile e come alla fine dovrà fare, sia le centrali a carbone che quelle nucleari, dovrebbe sostanzialmente raddoppiare, almeno temporaneamente, i suoi fabbisogni di gas. Un altro dato per completare il quadro: nei primi due mesi del 2022 la Russia ha incassato con le sue esportazioni di gas verso la Ue altrettanti dollari che in tutto il 2020.