Vaticano. Il segretario di stato a una rivista spagnola aveva giustificato l’invio per la difesa ucraina
Papa Francesco torna a denunciare lo «scandalo» delle «spese per le armi»: è una scelta che «riporta tutto e tutti indietro». Sono le parole che il pontefice ha pronunciato ieri, ricevendo in Vaticano i rappresentanti dell’organizzazione di volontariato «Ho avuto sete». «Certe scelte non sono neutrali», ha detto Bergoglio.
«Destinare gran parte della spesa alle armi, vuol dire toglierla ad altro», cioè «toglierla ancora una volta a chi manca del necessario». A pochi giorni dall’approvazione a larga maggioranza da parte della Camera (contrari Alternativa, Europa Verde e Sinistra italiana) dell’odg proposto dalla Lega che impegna il governo a portare dall’1,5% al 2% del Pil le spese militari entro il 2024 (cioè da 25 a 38 miliardi di euro l’anno), il discorso del papa sembra rivolto anche ai parlamentari italiani.
«Quanto si spende per le armi, terribile! – ha aggiunto Francesco, integrando il testo scritto –. Non so quale percentuale del Pil, non mi viene la cifra esatta, ma un’alta percentuale. Si spende nelle armi per fare le guerre, non solo questa, che è gravissima, che stiamo vivendo adesso, e noi la sentiamo di più perché è più vicina, ma in Africa, in Medio Oriente, in Asia, le guerre, continue». Invece «bisogna creare la coscienza che continuare a spendere in armi sporca l’anima, sporca il cuore, sporca l’umanità. A che serve impegnarci tutti insieme, solennemente, a livello internazionale, nelle campagne contro la povertà, contro la fame, contro il degrado del pianeta, se poi ricadiamo nel vecchio vizio della guerra, nella vecchia strategia della potenza degli armamenti, che riporta tutto e tutti all’indietro? Sempre una guerra ti riporta all’indietro, sempre».
Bisogna creare la coscienza che continuare a spendere in armi sporca l’anima, sporca il cuore, sporca l’umanità. Sempre una guerra ti riporta all’indietro, sempre.
Dalle affermazioni di Bergoglio – peraltro non nuove – sembra differenziarsi quanto dichiarato pochi giorni fa dal segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, in un’intervista al settimanale cattolico spagnolo Vida Nueva. «Il diritto a difendere la propria vita, il proprio popolo e il proprio Paese comporta talvolta anche il triste ricorso alle armi», ha detto Parolin, rispondendo a una domanda sull’invio di armi all’Ucraina da parte dell’Europa.
«L’uso delle armi non è mai qualcosa di desiderabile, perché comporta sempre un rischio molto alto di togliere la vita alle persone o causare lesioni gravi e terribili danni materiali», ha aggiunto il segretario di Stato vaticano, che quindi si è attestato sulle tradizionali posizioni della «guerra giusta» e del «diritto umanitario internazionale», raccomandando a «entrambe le parti» di «astenersi dall’uso di armi proibite» e di «proteggere i civili». Tuttavia, ha concluso, «sebbene gli aiuti militari all’Ucraina possano essere comprensibili, la ricerca di una soluzione negoziata, che metta a tacere le armi e prevenga un’escalation nucleare, resta una priorità».
Una piccola deviazione vaticana dalla linea del papa, finora attestata senza incertezze sul no alle armi.
Commenta (0 Commenti)L'incontro. In mille alla kermesse romana: «Proviamo a condizionare l’agenda del centrosinistra». Conte e Letta in collegamento. Il leader Pd: insieme possiamo vincere
L'evento di sabato a Roma con Elly Schlein
Enrico Letta e Giuseppe Conte, in collegamento, arrivano a definirsi «progressisti visionari». Per lei, la protagonista della giornata, Elly Schlein, dicono più di una cosa di sinistra, dalla giustizia sociale all’ambiente. È evidente che i capi di Pd e M5S la considerano partner integrante del futuro campo progressista, front-woman dell’arcipelago rossoverde che per ora è smarrito in mille rivoli e privo di una leadership unificante.
LEI, LEADER RILUTTANTE, non sembra cercare il replay delle regionali 2020, quando si offrì di coprire a sinistra Stefano Bonaccini con la lista Coraggiosa, nella battaglia a mani nude contro l’allora fortissimo Salvini in Emilia. Non vuole, almeno per ora, dar vita a una sorta di nuova Sel, l’alleato rossoverde di Bersani nel 2013. «Non siamo qua per lanciare soggetti politici, né liste elettorali», chiarisce subito aprendo i lavori di « Visione comune», ieri nel parco post-industriale sulla Prenestina, periferia di Roma. «Ma per mettere in rete le nostre tante reti, per battaglie contro le diseguaglianze e per salvare il pianeta: questo è un luogo in cui scambiarci pratiche, portandole nei quartieri, nei parlamenti, nelle assemblee comunali e regionali, nelle piazze, riallacciando i fili dell’ascolto con quello che succede nelle società e con le mobilitazioni delle nuove generazioni».
L’EVENTO IN REALTÀ è una maratona di oltre otto ore, oltre 70 gli oratori, intersezionali per definizione: protagonisti di lotte su ambiente, energia, diritti civili, immigrazione, lavoro. Una maratona che è anche un modo per conoscersi e riconoscersi. Ci sono esponenti del Pd come Alessandro Zan (che suona la carica in vista della riapertura della discussione sulla sua legge a fine aprile), e Pierfrancesco Majorino con il suo netto no all’aumento delle spese militari (che il Pd ha votato), grillini come Roberta Lombardi e Max Bugani, l’ecologista Rossella Muroni. E poi Roberto Speranza e Arturo Scotto di Articolo1, Nicola Fratoianni di Sinistra italiana. E decine di attivisti locali, come Marco Grimaldi, consigliere regionale del Piemonte, che ha raccontato la sua battaglia solitaria per far pagare più tasse ai giganti del web.
C’ERA LA DOMANDA di un nuovo partito e di una nuova leader? «Sinceramente no», dice Schlein al manifesto. «Non vogliamo federare le esperienze esistenti, ma sfidarle a uscire dai loro recinti senza volerne costruire uno nuovo. Come abbiamo verificato a Bologna, le alleanze fatte a tavolino dal ceto politico non funzionano. E non riportano le persone a votare. Funziona solo se parti dalle battaglie concrete, e su quelle crei una amalgama che unisce i partiti con quello che sta al di fuori. È così che si può incidere sull’agenda del centrosinistra, anche a livello nazionale».
La lista delle battaglie è lunga: energie rinnovabili, comunità energetiche, scuola, lavoro sostenibile, salario minimo, diritti dei lavori digitali, riduzione dell’orario lavorativo a parità di salario, congedi parentali, discriminazioni di genere, tasse alle multinazionali, diritti civili. «Ci vuole radicalità e allo stesso tempo capacità di mettere a terra progetti di giustizia sociale e ambientale», dice Schlein.
CONTE E LETTA NON SI sottraggono. Il leader M5S definisce il salario minimo «un punto nevralgico» e cita l’impegno del M5S su fronti come le rinnovabili, la riduzione dell’orario di lavoro, la tutela dell’ambiente, l’allungamento dei congedi per i padri. Letta sottolinea la «profonda sintonia con Conte», l’«osmosi» tra le forze progressiste che ha aperto spiragli in Parlamento per una legge sullo “ius scholae” per dare la cittadinanza ai figli degli immigrati. «Stiamo facendo passi avanti importanti», dice Letta, che ribadisce il suo sostegno a Zan e ricorda anche la battaglia parlamentare sul suicidio assistito. «Tra noi c’è una amalgama che ci porta a lavorare bene insieme, siamo una comunità che saprà offrire un progetto vincente alle elezioni». «Da solo nessuno di noi può raggiungere gli obiettivi», gli fa eco Conte.
IN TANTI INSISTONO sul tema delle diseguaglianze e della redistribuzione di ricchezza e potere. «Non basta parlare di contrasto, vanno sconfitte», dice Giuseppe De Marzo. «La battaglia sul clima deve essere la leva per migliorare la condizione dei più vulnerabili, altrimenti non crei un blocco sociale», avverte Fabrizio Barca, padre nobile di questa giornata. «Non si risponde alle conseguenze della guerra con più armi e più idrocarburi». Concetto ribadito con forza da Fratoianni.
Giuseppe Provenzano, vicesegretario del Pd, prova lanciare la palla avanti: «Una visione comune c’è, quello di cui abbiamo bisogno è uno spazio politico organizzato che è quello che non c’è stato a sufficienza fin qui, che trovi una unità». «Oggi ci sono state più di mille persone, questo è solo l’inizio», chiude Schlein.
Commenta (0 Commenti)Governo. Il consiglio dei ministri vara il decreto. Nuova rateizzazione per le bollette, sostegno alle imprese, bonus sociale ampliato
Draghi, Sanchez, Costa © LaPresse
«La crisi ucraina è europea e la risposta deve essere europea»: nel presentare le prime misure decise dal governo per fronteggiare le conseguenze della crisi ucraina Mario Draghi fa chiaramente capire che il grosso deve ancora arrivare. Ma a muoversi ora deve essere l’Unione intera.
Per ora il governo interviene come può, mettendo in campo 4,4 miliardi ma evitando di fare nuovo debito con lo scostamento di bilancio: «Gran parte degli interventi di oggi non sono finanziati dal bilancio pubblico. Tassiamo una parte dei profitti che i produttori stanno facendo grazie all’aumento dei costi delle materie prime».
La tassazione degli extraprofitti delle aziende del comparto energetico dovrebbe essere del 10% e servirà a finanziare il taglio di 25 centesimi al litro su tutti i carburanti, il più alto tra quelli stabiliti sinora dai governi europei. Lo sconto è limitato nel tempo: fino alla fine di aprile, poi si vedrà. Le cose cambiano in fretta, con una volatilità simile, spiega il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani, prendere decisioni a lungo termine «potrebbe essere persino controproducente».
LA RATEIZZAZIONE delle bollette, già fissata in 10 rate, passa a 24 rate per le bollette di maggio e giugno. Le imprese non «energivore» la cui spesa per l’energia sia aumentata del 30% rispetto al 2019 saranno sostenute anche con la proroga del credito d’imposta. Quelle ad alto consumo di energia che già usufruiscono del credito lo vedranno aumentato e potranno cedere lo stesso credito due volte, solo a favore di banche e istituti finanziari.
Si allarga inoltre la platea delle fasce più svantaggiate, quelle che disporranno del bonus sociale per congelare le bollette al livello dell’anno scorso: con il tetto Isee portato a un reddito annuo di 12mila euro si arriverà a 5,2 milioni di famiglie rispetto agli attuali 4 milioni. Per l’autotrasporto ci sono 20 milioni di euro per ridurre i pedaggi e un fondo per il sostegno al settore come anche a pesca e agricoltura. I buoni benzina distribuiti dalle aziende saranno esentasse fino a 200 euro e saranno aumentati i poteri di controllo sui prezzi, per contrastare la speculazione. Su spinta del ministro dello Sviluppo economico Giorgetti sono state poi decise alcune prime misure di potenziamento dell’Ilva, e altre arriveranno nelle prossime settimane, per aumentare la produzione d’acciaio.
NON È ABBASTANZA. «Bisogna difendere il potere d’acquisto delle famiglie, soprattutto di quelle più vulnerabili, sostenere il tessuto produttivo, proteggere la ripresa», aveva detto Draghi al termine del vertice mattutino dei «Paesi del sud» a Roma, villa Madama, con il presidente spagnolo Pedro Sanchez, il premier portoghese Antonio Costa e quello greco Kyriakos Mitsotakis. Gli interventi decisi ieri sono insufficienti e Draghi lo sa perfettamente. Il vertice di villa Madama è stato organizzato proprio per coordinare un’azione comune nel Consiglio europeo di giovedì prossimo, al quale presenzierà anche il presidente Usa Biden.
L’obiettivo è ottenere subito, già in questo Consiglio, la disponibilità dei Paesi nordici e della Germania a varare eurobond per coprire il «Price Cap», cioè il tetto al prezzo del gas e del petrolio. La Francia non era presente ieri a Roma ma è certamente favorevole alla proposta, lanciata per primo proprio da Emmanuel Macron. La Germania è il principale ostacolo: senza la copertura di Berlino anche le tradizionali resistenze dei Paesi frugali si attenuerebbero di molto.
Giovedì prossimo verrà quindi messo in campo uno «scambio»: la Germania otterrebbe l’assicurazione che verrà comunque evitato l’embargo sul gas e sul petrolio russi, fondamentali per la stessa Germania, sul quale insistono invece non solo Usa e Uk ma anche alcuni Paesi europei. In compenso Berlino darebbe il via libera agli eurobond necessari per calmierare il prezzo di gas e petrolio. Sempre in sede di Consiglio europeo si dovrebbe poi mettere sul tavolo la separazione del prezzo dell’energia prodotta dalle rinnovabili, molto più economiche, da quella prodotta dal gas.
IL GOVERNO NON HA per ora affrontato né lo sfoltimento delle autorizzazioni per accelerare il passaggio alle rinnovabili, né la sospensione delle regole che limitano la percentuale di territorio coltivabile né i limiti sull’esportazione delle materia prime. Sono anche quelli, almeno in parte, fronti che dipendono dalla disponibilità europea a rivedere i regolamenti comunitari.
Commenta (0 Commenti)Pacifisti. "Siamo su questo confine e in Ucraina in questi giorni per iniziare questo lavoro di diplomazia dal basso e di salvataggio. Riaffronteremo 26 ore di viaggio con donne e bambini, per portarli al sicuro. Arriveranno nelle nostre città"
Alina è una delle mediatrici culturali che accompagnano la carovana di Mediterranea Saving Humans. Ne sono tre, Oskana, Maria ed appunto Alina. Lei arriverà fino a Leopoli. I suoi parenti si trovano a 2000 Km dal confine tra Polonia e Ucraina, avevano un biglietto aereo per tornare in Italia due giorni dopo lo scoppio della guerra. Non è riuscita a tirarli fuori da lì. «Vengo con voi perché almeno salvo qualcun altro» ci ha detto, quando in poche ore ha preparato la sua borsa ed è partita con la carovana. Ben 26 ore di viaggio per arrivare a Przesmysl, a pochi km dal valico di Medyka dove sorge uno dei più grandi centri profughi del confine polacco – ucraino.
Ad attenderci quando arriviamo in serata, ci sono 11 persone. Durante la giornata hanno contattato Alina, Maria e Oksana, visto che i loro numeri girano tra tutti quelli che stanno oltrepassando il confine. Si tratta di donne e bambine, altre 24 ore e partiranno alla volta dell’Italia con un passaggio sicuro. Quello che, da come ci raccontano, non stanno ricevendo mentre scappano dalle bombe e dal terrore. Le storie che Mediterranea ha raccolto in queste ore grazie alle nostre mediatrici, raccontano di un passaggio fino alla frontiera che viene fornito, da ucraini e polacchi, ad un prezzo che oscilla tra i 140 e 160 euro a persona. Bambini compresi.
Si tratta di una speculazione infame, sulla pelle di chi scappa dalla guerra. E’ la stessa che ha colpito un altro gruppo, sono 10 persone e si trovano a Leopoli. Non hanno soldi per pagare i «passeur» a pagamento. Avranno un passaggio sicuro e gratis dai van di Mediterranea che domani entreranno a Leopoli per portare aiuti umanitari, e che ne usciranno portando via quanta più gente è possibile. Siamo arrivati qui coscienti che le vittime delle guerre sono solo le persone e che a loro va dato l’aiuto e il supporto necessario, e per loro va fermato il conflitto. Siamo arrivati qui convinti che essere pacifisti non vuol dire essere ignavi, essere inermi e nemmeno essere imparziali, significa scegliere la parte dell’umanità, attivarsi per salvare le persone e per praticare la diplomazia dal basso. Questo è quello che stiamo provando a fare in questi giorni. Luca Casarini lo ha già scritto a chiare lettere, chi è contro la guerra venisse con noi a Kiev a fare da scudo. Siamo su questo confine e in Ucraina in questi giorni per iniziare questo lavoro di diplomazia dal basso e di salvataggio, che è quello che ci riesce meglio.
Partiremo da Przesmysl e dai centri vicini con tante persone, e riaffronteremo 26 ore di viaggio con donne e bambini, per portarli al sicuro. Arriveranno nelle nostre città, dove ci auguriamo che oltre alla straordinaria mobilitazione della società civile, pronta a dare accoglienza, le istituzioni svolgano al meglio il proprio ruolo, garantendo una sistemazione dignitosa a tutti. Sappiamo bene che il nostro lavoro contro la guerra è appena all’inizio. Dovrà continuare sia qui, alle porte dell’Europa, che in Ucraina e anche nel nostro paese, perché siamo certi che davanti allo scenario di devastazione e di terrore nucleare che questo conflitto ha portato a livello globale, manchi ancora un attore decisivo. Quella società civile globale, capace di giocare un ruolo da protagonista. Dalla parte delle persone.
* capomissione Mediterranea Saving Humans
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Crisi ucraina. Ucraini in fuga dalla leva obbligatoria di Kiev. In Ungheria ne arrivano una decina ogni giorno. La storia di I., 26enne di Kharkiv: «Chi resta lo fa per difendere qualcosa o qualcuno. Noi non abbiamo più famiglia. Nessuno, né Putin né Zelensky, può decidere per le nostre vite»
Beregsurany, al confine tra Ungheria e Ucraina © Ap/Anna Szilagy
«Non voglio morire e nessuno può obbligarmi ad arruolarmi». I., 26 anni, è fuggito dalle bombe russe su Kharkiv e dal divieto di lasciare il paese imposto agli uomini dal governo di Kiev.
Sarebbe dovuto restare a combattere e ora, davanti al flusso continuo di donne, vecchi e bambini che arrivano dall’Ucraina, si sente in imbarazzo. Aspetta in disparte, la testa china. Sa che il suo posto non è quello.
A Beregsurany, Ungheria, le guardie di frontiera chiudono gli uffici della dogana alle 19 in punto. Al loro posto prendono posizione i militari. Chi è ancora in fila dal lato ucraino torna indietro. La notte è fredda, ma «è di notte che arrivano i disertori, passando per i campi o per il bosco», dice il parroco del luogo che, con la Caritas ungherese, lavora all’help center a poche centinaia di metri dal confine.
«UNA DECINA OGNI NOTTE. Arrivano stremati, fuggono da chi li dovrebbe proteggere – aggiunge il parroco – Noi li aspettiamo qui, sanno dove trovarci. Poi li portiamo alla stazione di polizia perché i loro documenti non sono in regola e noi non possiamo registrarli. Però non respingiamo nessuno, lo status di rifugiato viene dato anche agli uomini».
I. ha i pantaloni strappati e sporchi di sangue e fango. È passato attraverso un cespuglio di rovi, un ramo gli ha ferito la coscia. Cerca un ricambio nella grande pila di vestiti che i volontari hanno messo a disposizione dei profughi.
«Ma da uomo qui non c’è niente – dice – Mi mancano i miei abiti. Quando trovai lavoro, mio padre mi regalò cinque vestiti fatti su misura e cinque camicie con le iniziali ricamate. Erano il ricordo più importante che avevo di lui, ma non sono riuscito a portarle con me».
La sua fuga è iniziata il primo giorno dell’invasione russa. «Siamo stati svegliati da un gran boato. Kharkiv è stata bombardata subito. Con la mia fidanzata abbiamo deciso di andarcene immediatamente, avevamo paura di restare in trappola come è successo a molti nostri amici. Abbiamo preso i nostri due gatti, messo in valigia due pc e qualche cambio e siamo partiti per Dnipro con la macchina».
PER RAGGIUNGERE la città sul fiume Dnepr, distante poco più di 200 chilometri, «ci abbiamo messo un giorno intero, le file ai benzinai erano infinite e i posti di blocco continui». Una sosta di una notte a casa di amici, poi di nuovo in viaggio verso il confine con la Romania: «Lì abbiamo provato a corrompere le guardie di frontiera con tutto il contante che ci era rimasto. Ci hanno respinto, ma si sono presi i soldi, dicendo che era il prezzo per non arrestarci».
Il viaggio di I. è poi continuato verso la Transcarparzia. «Sapevo che in questa zona ci sono solo campi e piccoli boschi e attraversarla a piedi è facile, mentre la mia fidanzata può passare con l’auto. Ma arrivare qui non è stato semplice. La benzina è razionata, se ne possono comprare solo 20 litri a persona ogni giorno. Abbiamo dormito in macchina per una settimana. Avevamo dimenticato di prendere le coperte e all’inizio è stata molto dura. La prima notte passata in strada pensavamo di morire. Per fortuna, la sera dopo un’auto dell’esercito si è fermata a controllare chi fossimo e ci hanno dato delle coperte. Non so se ce l’avremmo fatta senza quell’aiuto».
Ma è proprio dal suo esercito che I. sta scappando. «Molti pensano che rimanere e combattere sia la cosa giusta. Qualcuno pensa anche che si possa vincere. Ma io non ci credo, ho paura. Un mio caro amico combatteva nel Donbass, di lui non è rimasto nulla. Ai genitori hanno spedito una bara vuota, io non voglio fare quella fine. Voglio pensare al futuro».
NEL FUTURO di I. c’è il matrimonio con la sua fidanzata. Si sarebbe dovuto celebrare già a gennaio, ma la morte di sua madre li ha costretti a rinviare la data.
«Poi i figli, ne vogliamo quattro – dice – Fino allo scoppio della guerra, avevamo una vita normale. Io sono un ingegnere, ho studiato per un anno a Londra, la mia fidanzata è architetta. Cercheremo lavoro, forse in Polonia, in Germania o in Inghilterra. Restare non ha senso: abbiamo lavorato insieme alla costruzione di un palazzo a Kharkiv, ieri i nostri amici ci hanno mandato una foto. È completamente distrutto».
Chi è rimasto, dice I., «rispetta la mia scelta. Non mi giudicano, anzi. Capiscono la mia situazione. Chi resta lo fa per difendere qualcosa o qualcuno. Noi non abbiamo più famiglia, siamo da soli. Abbiamo il diritto di ricominciare da qualche altra parte. Nessuno, né Putin né Zelensky, può decidere per le nostre vite».
Commenta (0 Commenti)Guerra in Ucraina. Dissensi nel M5S, da Conte sì «sofferto». Il dem Majorino: errore aumentare le spese militari
Manifestazione pacifista © LaPresse
Via libera della Camera al decreto Ucraina, compreso il contestato capitolo dell’invio di armi italiane, che vede contrario tutto l’arcipelago di sinistra, i verdi e gli ex grillini di Alternativa e crea più di un problema dentro il M5S e il Pd. Il decreto passa con 367 favorevoli, 25 contrari e 5 astenuti (a favore anche Fdi).
A colpire sono i 231 assenti, di cui solo 78 giustificati in quanto in missione. Tra questi ingiustificati 22 sono di Forza Italia, 37 della Lega, 28 di M5S, 21 del Pd, 23 del Misto. I dem con 69 presenti su 97 deputati totali, registra la più alta percentuale di presenza con il 71%.
I NO SONO PIÙ O MENO gli stessi che mercoledì si erano opposti all’odg della Lega (collegato al decreto e firmato da tutti i partiti di maggioranza) che impegna il governo a portare dall’1,5 al 2% del pil le spese militari entro il 2024: un aumento da 25 a 38 miliardi chiesto
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