Può il richiamo all’economia di guerra che aleggia intorno a noi, diventare occasione invece per una nuova economia della pace? Non è una domanda provocatoria a fronte di una corsa al riarmo sbagliata e che, se perseguita su basi nazionali, indebolirebbe ulteriormente l’Europa politica.
E’ la questione di fondo se vogliamo costruire un nuovo sistema di “sicurezza collettiva” in cui la Ue possa agire senza l’ipocrisia di una consistente dipendenza energetica da fonti fossili oggi (la Russia) e da tecnologie e conoscenze domani (Usa, Cina). In cui la Ue – edificando le “basi materiali” di un diverso modello di sviluppo – possa essere più forte e credibile nel proporre modelli di convivenza e di pace e, se necessario, nel contrastare con le armi della politica (e dell’economia) chiunque li minacci.
Perché, piaccia o no, quanto posto da Norma Rangeri ( il manifesto, 5 aprile) rappresenta il bivio al quale siamo oggi, dopo la pandemia e con la guerra in Ucraina. Perché è giusto sottolineare l’ipocrisia di chi sulle sanzioni balbetta – perché vorrebbe che esse funzionassero pur mantenendo l’attuale modello produttivo e di consumo (impossibile) – o di chi (Letta) non ne assume la portata fino in fondo (lotta agli sprechi energetici e totale ed urgente decarbonizzazione dell’economia che è produzione da rinnovabili ma soprattutto economia circolare come nuovo modello per la creazione di ricchezza).
Soprattutto, l’editoriale rimanda alla più profonda questione della “sobrietà”, del cambio dei modelli individuali e collettivi di consumo e produzione. Cambi che necessitano di più democrazia e più programmazione “in alto” e di più redistribuzione di potere e risorse verso il “basso”.
Non a caso tornano attuali riflessioni che molti di noi avevano sepolto in una memoria lontana, a partire dalle parole di un “certo” Enrico Berlinguer che, il 15 gennaio del 1977 (in anni segnati anch’essi dalla questione energetica), proponeva il tema dell’austerità come dimensione politica (austerità intesa come “sobrietà”).
“Non un mero strumento di politica economica contingente per poi ripristinare i vecchi meccanismi economici e sociali” spiegava Berlinguer, ma il mezzo “per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo (…) cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato”. La sobrietà “significa invece rigore, efficienza, serietà e significa soprattutto giustizia”, “lotta effettiva contro il dato esistente, contro l’andamento spontaneo delle cose e, al tempo stesso premessa e condizione materiale per avviare il cambiamento”.
Ecco la sfida politica di fronte a noi: gestire con pragmatismo ma con determinazione l’uscita dalla dipendenza energetica da petrolio e gas, con date certe e brevi non perché fissate da questo o quell’obiettivo sulla carta, ma perché certe (e a breve) sono
le date entro cui avremmo in Italia la produzione di batterie ed elettrolizzatori ed i più avanzati centri di ricerca in materia. Certe devono essere le aperture di nuovi fonti energetiche rinnovabili (dall’eolico off shore, al geo termico), certi gli adeguamenti di rete per sfruttare le comunità energetiche diffuse; chiaro, solidale ed efficiente un piano di produzione e distribuzione delle energie verdi in Europa (per dirla con una battuta: dalla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio alla Comunità Europea delle Rinnovabili e del Riuso).
Naturalmente, certa e profonda deve essere l’attività di programmazione per la riconversione all’economia circolare delle produzioni fondamentali di beni e servizi (a partire dalle città). Una stagione dove allora la sobrietà diviene programma politico ed economico, rilancio della dimensione collettiva e pubblica (welfare, trasporti, ecc.) ma anche comportamento, stile di vita, ridefinizione delle priorità esistenziali a livello individuale.
Una stagione di ritorno prepotente al politico, perché una tale “transizione” o è accompagnata da una visione di sistema, con più tutele sociali per i soggetti deboli (socialmente, culturalmente, territorialmente), da una centralità nuovo del lavoro (di tutto il lavoro), dei suoi saperi e della sua funzione sociale di “trasformazione” o non sarà possibile.
Oggi ripensare il modello di sviluppo, la redistribuzione di potere, cambiare cioè i fondamentali dell’economia è tutt’uno con la possibilità che si riaffermi un diritto internazionale basato sul diritto dei popoli a vivere liberamente ed in pace, con la riduzione strutturale delle “ragioni delle guerra”. Unica via affinché l’Europa, come ha fatto con la Pandemia, riscopra la sua anima e la sua possibile funzione storica.
Alessandro Genovesi
L’autore è Segretario Generale FILLEA CGIL