EDITORIALE. Di fronte alla distruzione di un paese europeo, gli Stati dell’Unione litigano sul prezzo da scontare all’invasore, pur essendo chiaro a tutti che solo chiudendo i rubinetti di Putin, solo bloccando del tutto quel miliardo di euro al giorno destinato alla Gazprom dello Zar, le sanzioni rispetterebbero la propria finalità, ovvero dare una chance al negoziato e fermare la guerra
La foto che abbiamo scelto di pubblicare domenica in prima pagina, con i morti di Bucha, tornata ieri su tutti i giornali, è il simbolo di questa guerra che si accanisce contro la popolazione civile dell’Ucraina. Alla mattanza feroce, alle città rase al suolo dai bombardamenti, si aggiungono poi le specialità di ogni esercito invasore: lo stupro, la tortura, le esecuzioni di massa. Strategie di annientamento di cui l’esercito di Putin sembra essere particolarmente esperto, con le sue squadre di spietati mercenari, con la tattica medioevale dell’assedio che affama le città, con il cinico massacro delle sue stesse giovani reclute.
L’orrore, testimoniato da giornalisti e fotografi indipendenti, è negato dagli uomini del Cremlino, secondo i quali le stragi di Bucha (e presumibilmente quelle che scopriremo in futuro nelle altre città) sono «una messa in scena dell’Occidente», come ha detto ieri il ministro degli esteri Lavrov. E tanto basterebbe per essere certi del contrario, visto che Mosca nega la realtà fin dai mesi precedenti il 24 febbraio («Non siamo una minaccia per nessuno, non deve preoccupare il fatto che spostiamo soldati nel nostro territorio», Peskov), come oggi nega la stessa guerra dopo aver negato l’esistenza di un paese libero come l’Ucraina. Ma, come non si stanca di ripetere papa Francesco, scagli la prima pietra chi è senza peccato.
Come chi oggi chiede di processare Putin per crimini di guerra mentre a suo tempo rifiutò di aderire al Tribunale penale internazionale (Usa, Russia e Ucraina tra questi). O chi predica la pace essendo tra i principali foraggiatori dell’industria bellica (Usa, Russia e Cina). O chi (l’Europa) si mostra generoso e accogliente verso i milioni di profughi ucraini quando fino a ieri gareggiava per respingerne il maggior numero da Africa e Oriente.
Tra le bombe dell’ipocrisia poi, la più micidiale di tutte è fatta di gas, petrolio e carbone. Così,
di fronte alla distruzione di un paese europeo, gli Stati dell’Unione litigano sul prezzo da scontare all’invasore, pur essendo chiaro a tutti che solo chiudendo i rubinetti di Putin, solo bloccando del tutto quel miliardo di euro al giorno destinato alla Gazprom dello Zar, le sanzioni rispetterebbero la propria finalità, ovvero dare una chance al negoziato e fermare la guerra. Scoprendo così le carte di un dittatore che ha ingaggiato uno scontro di civiltà contro un popolo di «nazisti e drogati».
Assistiamo invece in queste ore a una sorta di copia sbiadita della real-politik, con i Paesi, Germania in testa, che indietreggiano rispetto alle ricadute, sociali e politiche, che le società europee sarebbero costrette a fronteggiare di fronte alla sanzione delle sanzioni, vale a dire allo stop del gas siberiano. Perché chiudere i rubinetti vorrebbe dire affrontare se non proprio un’economia di guerra, sicuramente una drastica riduzione dei consumi civili, tra l’altro persino necessaria per la salvezza del Pianeta.
Oggi qualcuno comincia a sussurrarlo, Macron parla del blocco di petrolio e carbone, Letta azzarda un no al gas; che poi è quello che chiede il presidente Zelensky fin dai primi giorni della macelleria russa. Ma diminuire drasticamente il fabbisogno di gas russo (che in Italia incide per poco meno del 50%), ci appare come qualcosa di inverosimile, un’offesa al Pil perché significherebbe rivoluzionare tutto e in primo luogo il nostro modello di sviluppo. Significherebbe imboccare la via dell’austerità, interpretata, dalle obsolete classi dirigenti, come pauperismo e moralismo, anziché per quello che realmente rappresenta: la sfida a una crescita mortifera e senza sviluppo, l’inizio di un’alternativa.
Naturalmente fare a meno di una notevole quota di gas dovrebbe essere un’operazione gestita facendo attenzione a misurarne l’impatto su classi sociali diverse, così come dovrebbe rivolgersi a un’autoriduzione dei consumi civili rispetto a quelli necessari per mantenere in buona salute le produzioni primarie, i servizi essenziali. Ricordiamo tutti i fiumi di parole sulla riconversione economica ai tempi della pandemia (sempre ancora viva e tra noi), sul capovolgimento necessario della piramide delle priorità. Adesso la storia ci mette di fronte a scelte altrettanto difficili Che andrebbero prese con la stessa autorità e decisionalità usata da tanti governi, a partire da quello italiano, nel trasferire, da un giorno all’altro, risorse dal welfare all’aumento delle spese militari.
La pace non è gratis, il pacifismo non è una passeggiata, tanto meno lo è quello che è stato chiamato «il pacifismo attivo», che non ha dubbi su da che parte stare, che respinge le accuse di equilibrismo, che considera la lotta del popolo ucraino come una resistenza di fronte all’invasore. Un pacifismo che le armi le vuole togliere sì, ma prima di tutto a chi le usa per offendere non per difendersi. E che al feroce dittatore intende sottrarre l’arma decisiva del ricatto economico. Tutte le strategie militari, tutti gli scenari di geopolitica vengono dopo. Dopo.