SCAFFALE. Un e-book di Sbilanciamoci a cura di Koehler e Marcon. Le ragioni della «Seconda potenza mondiale», come si disse al tempo della guerra in Iraq
Il disegno di Biani tratto dalla copertina dell’e-book di Sbilanciamoci
Il pacifismo, venuto alla ribalta già in occasione della prima guerra mondiale, e poi cresciuto e diventato addirittura «Seconda potenza mondiale» – come ebbe a titolare la sua prima pagina il New York Times a commento delle manifestazioni mondiali che il 15 febbraio del 2003 si tennero contro la seconda guerra all’Irak – è tornato alla ribalta. In Italia forse più che altrove per via delle più ridicole ossessive accuse ai pacifisti che stanno animando le trasmissioni delle nostre tv: quella di essere amici di Putin, i più indulgenti degli sprovveduti idealisti, infantili, incapaci di prender atto della realtà nuda e cruda. Realisti, e consapevoli di quanto accade, e perciò autorizzati a orientare il che fare, sarebbero invece quelli che invocano le armi per fermare la guerra.
MA DAVVERO PENSANO che si possa riportare la pace in Ucraina e evitare una generale deflagrazione bellica aumentando la potenza distruttiva delle armi e coinvolgendo altri paesi nel conflitto militare? A sentirli parlare sembrerebbe siano restati indietro al vecchio ’900, ai tempi della bella Guerra fredda, quando l’esistenza stessa di due sole grandi potenze garantiva una qualche deterrenza e il nucleare era racchiuso in grandi bombe chiaramente situate sotto il comando unico dei capi di Stato. Così non è più: è vero che la terribile bomba è tutt’ora in possesso soprattutto di due grandi potenze, Russia e Stati Uniti, ma anche oramai – questo è quel che sfugge ai «realisti» – non solo a molti altri Stati, ma anche a forze militari ufficiali e a foreign fighters, volontari o assoldati.
Le nuove tecnologie, come era naturale, conquistano anche il florido settore delle armi e oggi sul mercato ce ne sono molte che contengono la mortale energia. Anche di piccolo taglio, tattiche, a medio raggio, inserita in ogni tipo di arma. A disposizione di chi vuole. È per questo che a cominciare dal Papa si è compreso che oggi le guerre non si possono più rischiare, nemmeno quando sono giuste (e quella dell’Ucraina contro la Russia che invade è più che giusta).
SOLO I DINOSAURI potrebbero ritenere che con l’evolversi del tempo le guerre rimangano uguali a quelle della loro epoca; o che i nuovi eroi da sacrificare (i giovani ucraini che è naturale vogliano rispondere all’aggressore) possano essere come i famosi eroi del nostro Risorgimento, fra questi quelli che sbarcarono a Sapri per combattere i Borboni. Ma che, come recita il testo che tutti conosciamo dalle elementari, «eran trecento, erano giovani e forti, e sono morti». Oggi un qualsiasi conflitto potrebbe innescarne uno che di morti potrebbe farne miliardi.
Il pacifismo, del resto, non si caratterizza solo per dire no alle armi. È, e ha provato ad essere, un movimento che riflette su come oggi deve e può essere regolata la politica internazionale, come sia possibile non rinunciare a battersi quando si è aggrediti ma occorra farlo con strumenti più adatti, politici e non militari.
E però di cosa sia il pacifismo reale, di come in particolare sia diventato un grande movimento popolare negli anni ’80 affollando le piazze europee di giovani armati dello slogan «per un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali» – mai purtroppo diventato base della politi europea dopo la caduta del Muro -, si sa poco. Ed è per questo che è preziosa l’interessante pubblicazione da parte di Sbilanciamoci di un bel libretto collettivo che ne ricostruisce la fisionomia attraverso la voce di tanti, di ogni parte del mondo, che ne sono stati, e ne sono tutt’ora, protagonisti: I pacifisti e l’Ucraina. Le alternative alla guerra in Europa, curato da Martin Koehler (pacifista tedesco che a lungo si fermò a combattere con noi a Comiso), e Giulio Marcon (è un e-book che potete trovare sul sito sbilanciamoci.info, cui si può anche chiedere di averne un po’ di copie stampate).
FRA CHI SCRIVE, docenti della John Hopkins University, della City University di New York, della London School of Economics di Londra, del Quincy Institut di N. Y., della Scuola Normale Superiore di Firenze, della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, un deputato al Bundestag tedesco della Linke, il segretario del Movimento pacifista ucraino e un giornalista del New York Times.
Affrontati tutti i temi della vicenda attuale, anche raccontando le esperienze passate, e, inoltre, alcune – lucidissime – analisi dello stesso Kissinger su come sia facile entrare nelle guerre, ma quanto più difficile sia uscirne. «Io – dice l’ex potente ministro dei Regan -, nella mia carriera ne ho viste quattro e tutte sono terminate con ritiri unilaterali (e ancora non aveva visto l’Afganistan)». Un insegnamento per vinti e pseudo vincitori.
L'APPELLO. La critica a Draghi e Pd: aumentare i fondi è eticamente inaccettabile e un errore politico
«L’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil, chiesto dalla Nato, votato quasi all’unanimità dal Parlamento, confermato dal governo Draghi anche se confusamente spalmato in anni, è non soltanto eticamente inaccettabile, ma politicamente sbagliato».
Questo l’incipit dell’appello a governo e parlamento promosso, tra gli altri, da alcuni storici esponenti del Pd: da Rosy Bindi a Vannino Chiti, Enrico Rossi, Walter Tocci, Claudio Martini, Marco Filippeschi, e Paolo Corsini.
L’appello suona anche come una critica al Pd che ha votato in modo acritico sulle spese per la difesa. «Niente è ancora irreversibile», scrivono i promotori. «La realizzazione di un esercito europeo richiederà tagli e razionalizzazioni in alcuni settori, incrementi in altri: non un generico aumento e spreco di risorse».
«L’aumento delle spese militari – sottolineano- non ha niente a che vedere con il diritto dell’Ucraina di difendersi dall’aggressione della Russia: il collegamento strumentale che viene fatto per meglio far accettare la crescita dei fondi per gli armamenti rischia anzi di determinare un indebolimento del sostegno popolare alla causa ucraina».
E ancora: «Queste decisioni non possono essere prese sotto la pressione emotiva e senza il coinvolgimento dei cittadini in un reale confronto pubblico». L’appello si conclude con la necessità di «ripensare funzione e ruolo della Nato» e con l’invito ad accogliere le parole del Papa contro le guerre.
Commenta (0 Commenti)EDITORIALE. Di fronte alla distruzione di un paese europeo, gli Stati dell’Unione litigano sul prezzo da scontare all’invasore, pur essendo chiaro a tutti che solo chiudendo i rubinetti di Putin, solo bloccando del tutto quel miliardo di euro al giorno destinato alla Gazprom dello Zar, le sanzioni rispetterebbero la propria finalità, ovvero dare una chance al negoziato e fermare la guerra
La foto che abbiamo scelto di pubblicare domenica in prima pagina, con i morti di Bucha, tornata ieri su tutti i giornali, è il simbolo di questa guerra che si accanisce contro la popolazione civile dell’Ucraina. Alla mattanza feroce, alle città rase al suolo dai bombardamenti, si aggiungono poi le specialità di ogni esercito invasore: lo stupro, la tortura, le esecuzioni di massa. Strategie di annientamento di cui l’esercito di Putin sembra essere particolarmente esperto, con le sue squadre di spietati mercenari, con la tattica medioevale dell’assedio che affama le città, con il cinico massacro delle sue stesse giovani reclute.
L’orrore, testimoniato da giornalisti e fotografi indipendenti, è negato dagli uomini del Cremlino, secondo i quali le stragi di Bucha (e presumibilmente quelle che scopriremo in futuro nelle altre città) sono «una messa in scena dell’Occidente», come ha detto ieri il ministro degli esteri Lavrov. E tanto basterebbe per essere certi del contrario, visto che Mosca nega la realtà fin dai mesi precedenti il 24 febbraio («Non siamo una minaccia per nessuno, non deve preoccupare il fatto che spostiamo soldati nel nostro territorio», Peskov), come oggi nega la stessa guerra dopo aver negato l’esistenza di un paese libero come l’Ucraina. Ma, come non si stanca di ripetere papa Francesco, scagli la prima pietra chi è senza peccato.
Come chi oggi chiede di processare Putin per crimini di guerra mentre a suo tempo rifiutò di aderire al Tribunale penale internazionale (Usa, Russia e Ucraina tra questi). O chi predica la pace essendo tra i principali foraggiatori dell’industria bellica (Usa, Russia e Cina). O chi (l’Europa) si mostra generoso e accogliente verso i milioni di profughi ucraini quando fino a ieri gareggiava per respingerne il maggior numero da Africa e Oriente.
Tra le bombe dell’ipocrisia poi, la più micidiale di tutte è fatta di gas, petrolio e carbone. Così,
Leggi tutto: Tagliare il gas contro le bombe dell’ipocrisia - di Norma Rangeri
Commenta (0 Commenti)NO WAR. Creare un movimento solidale non è come votare un decreto del governo che scarica le coscienze e i magazzini (da riempire col 2% della nostra ricchezza): richiede tempo, impegno e discussioni perché il secondo passo superi il primo
Se venerdì è stato il giorno dell’entusiasmo, il sabato – a marcia finita – è forse il giorno delle riflessioni. Se questa eterogenea congerie di intelligenze e passioni che ha organizzato un piccolo tour de force per raggiungere Leopoli non si interrogasse, avrebbe ragione chi, dal salotto di casa, l’ha già pregiudicata d’imbecillità, idioti utili al meschino disegno d’invasione del nuovo Zar di Mosca. E dunque quel bicchiere coi colori della pace ha i suoi lati oscuri, le domande inevase e il rifiuto di risposte troppo semplici. Giudicata nell’ottica di un bicchiere mezzo vuoto, la marcia è stata utile soprattutto a chi vi ha partecipato. E ha un po’, inevitabilmente, coinvolto più gli italiani – e, chissà, qualche europeo – che non gli ucraini, che guardavano a quel bizzarro corteo di un centinaio di giovani e vecchi attivisti pacifisti con gli occhi fuori dalla testa, come ne La Marche Nuptiale di George Brassens.
NELL’INCROCIARE il corteo, il cronista incontra una sola persona che fa il segno della V vedendo i manifestanti. Ma quella V è apprezzamento per la scritta No War – in un Paese dove l’inglese è semi sconosciuto – o è il simbolo della vittoria, parola risuonata più di una volta nei discorsi di rito degli amici ucraini – sacerdoti cattolici in maggioranza – che qui hanno accolto i 221 partecipanti a StopTheWar? In quei discorsi, in una
Leggi tutto: La difficile scommessa del movimento per la pace - di Emanuele Giordana da Leopoli
Commenta (0 Commenti)STOPTHEWARNOW. Più di 200 attivisti laici e cattolici. Torneranno in Italia con alcuni profughi
Eccole qua le anime belle, i cattocomunisti non violenti, i gandhiani da salotto che sono l’adorato sberleffo della stampa combattente nostrana e degli analisti con l’elmetto o le bretelle. Sbeffeggiati e accusati di scarso senso patriottico, quando non aperti e pericolosi filoputiniani, questi idealisti convinti che un mondo migliore sia possibile il salotto l’hanno lasciato alle spalle. E in 200 lucidi pazzi sono convenuti ieri all’alba a Gorizia un po’ da tutt’Italia per marciare pacificamente sull’Ucraina, meta da raggiungere nella notte – mentre scriviamo – per testimoniare un deciso No alla guerra che diventerà oggi una manifestazione a Leopoli, corredata da incontri con le autorità locali ed esponenti delle diverse comunità religiose.
CHE CI SIA UN MARCHIO cattolico su questa marcia è fin troppo evidente per il solo fatto che l’iniziativa parte dall’Associazione Papa Giovanni XXIII, la cui anima è Giampiero Cofano, segretario generale, che ha passato la giornata di ieri a dare indicazioni e dettagli dal Covid alle strade da percorrere, alle grane da evitare, ai passaporti. Ma StoptheWarNow è molto di più che non la scelta di praticare quel che il pontefice predica dall’inizio di un conflitto definito una follia. Incarna la storia di un pensiero che si fa movimento alla vigilia della prima guerra mondiale, passa per la non violenza gandhiana, l’opposizione alla guerra in Vietnam, il conflitto nei Balcani – con la marcia a Sarajevo del 1992 voluta da don Tonino Bello – fino alle manifestazioni per l’Iraq o l’Afghanistan. E infatti ci sono le laiche Arci, Aoi o Terre des Hommes accanto a grandi sigle del mondo cristiano – la Focsiv – fino a realtà più piccole come Nuovi Orizzonti di Milano, associazione che opera nel sociale.
L’IDEA NASCE meno di tre settimane fa ma raccoglie rapidamente oltre un centinaio di adesioni di associazioni della società civile. Ignorata dalla grande stampa, vessata dalle difficoltà logistiche, vista con sospetto anche da molti ucraini e ritenuta una non notizia da chi snobba le periferie della politica, la marcia raccoglie oltre 200 persone su una settantina di mezzi: pulmini soprattutto, stipati di medicinali e generi di prima necessità. Doveva arricchirsi di qualche nome eccellente del Palazzo ma poi pare che la Farnesina abbia sconsigliato. Oltreché un esercizio di diplomazia dal basso e oltre a portare in Ucraina uno sguardo sulle vittime e quindi sull’inutilità della guerra, il gruppo dei marciatori porterà indietro persone in fuga dal Paese invaso dai carri armati. Gocce nel mare? Sicuramente, ma forse sempre più necessarie in un vuoto della diplomazia internazionale dove l’Europa ha lasciato l’iniziativa a un altro regime – la Turchia – membro della Nato e nostro affidabile partner per risolvere i problemi dei profughi, visto che nei valori dell’Occidente ci stanno anche vittime di guerra di serie A, B e C.
LA PICCOLA FOLLA assiepata dentro a pulmini per forza troppo stretti è variegata come la bandiera della pace: giovani donne e giovani uomini accanto a canuti attivisti/e che di guerre ne han viste fin troppe. Oggi marceranno per le vie di Leopoli immaginando che la marcia di questo sabato 2 aprile sia solo il pezzo di un percorso.
«La prossima guerra – dice Tonio dell’Olio presidente di Pro Civitate Cristiana – è quella che non dovrebbe scoppiare». Dell’Olio era con Tonino Bello a Sarajevo nel ‘92: «Tonino diceva che nel tempo della tempesta bisogna mettere da parte la semente. In altre parole – spiega – dobbiamo far crescere la sete di pace perché il prossimo conflitto non ci trovi impreparati». Anche Francesca Farruggia, di Archivio Disarmo- Iriad, riflette sugli strumenti per costruire pace. La marcia lo è? «Certamente: riempie di contenuti il principio costituzionale della libertà di pensiero e parola da parte dei cittadini. Poi induce gli altri a riflettere e a prendere posizione sui temi che, come la pace e la sicurezza internazionale, sembrano lontani e invece riguardano tutti».
Tra gocce nel mare e speranze c’è anche un aspetto concreto: 300 ucraini potranno tornare in Italia coi marciatori. «Tra loro ci sono anche minorenni con disabilità – dice Giampiero Cofano-. E’ la nostra attenzione alle vittime più fragili».
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SANGUE SU SANGUE. Dati Inail: nei primi due mesi del 2022 ben 114 vittime (+9,6%). Boom nel settore «trasporto e magazzinaggio»: casi quintuplicati. Il presidente Bettoni: numeri superiori al periodo pre-pandemia, manca la cultura della sicurezza fin da scuola L’Osservatorio Vega: Toscana regione più colpita
Una manifestazione per denunciare i troppi morti sul lavoro davanti a Montecitorio - LaPresse
Aumentano i morti e ancor di più gli incidenti sul lavoro. I dati ufficiali dell’Inail sul primo bimestre del 2022 sono «preoccupanti». Sono state 121.994 – +47,6% rispetto allo stesso periodo del 2021 – le denunce di infortunio arrivate all’Inail, 114 delle quali con esito mortale (+9,6%). In aumento anche le patologie di origine professionale denunciate, che sono state 8.080 (+3,6%).
I morti sono 10 in più rispetto ai 104 registrati nel primo bimestre del 2021 e 6 in più rispetto ai 108 del periodo gennaio-febbraio 2020. A livello nazionale i dati rilevati al 28 febbraio di ciascun anno evidenziano per il primo bimestre del 2022 un incremento rispetto al pari periodo del 2021 solo dei casi in itinere, passati da 19 a 29, mentre quelli avvenuti in occasione di lavoro sono stati 85 in entrambi i periodi. Secondo l’Inail «l’aumento ha riguardato solo il settore industria e servizi (da 84 a 100 denunce), mentre l’agricoltura scende da 15 a nove casi».
PIÙ PRECISA L’ANALISI dell’Osservatorio sicurezza Vega secondo il quale è il settore «trasporto e magazzinaggio» a registrare un vero boom nei decessi: «sono 13 mentre erano 2 nel primo bimestre del 2021». Dello stesso tenore anche la variazione delle denunce di infortunio nel settore «trasporto e Magazzinaggio«: sono 11.225 a fine febbraio 2022, ma erano 3.191 a fine febbraio 2021 (+252%).
Seguono nella triste classifica dei morti il settore costruzioni con 7 vittime; commercio, riparazione di autoveicoli e motocicli con 5, attività manifatturiere 4, il Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese e Sanità e assistenza sociale con 3.
LA FASCIA D’ETÀ PIÙ COLPITA dagli infortuni mortali sul lavoro è quella tra i 55 e i 64 anni (34 su un totale di 85). Ed è proprio in questa fascia d’età che si rileva anche l’indice di incidenza più alto di mortalità rispetto agli occupati (7,4). Senza dimenticare i casi di ultra settantenni – in età da pensione -, come tre giorni fa a Cerignola.
L’incidenza di mortalità minima è invece nella fascia di età tra 25 e 34 anni, (pari a 1), mentre nella fascia dei più giovani, ossia tra 15 e 24 anni, l’incidenza risale a 4 infortuni mortali ogni milione di occupati.
L’incremento rilevato tra i primi bimestri del 2021 e del 2022 è legato sia alla componente maschile, i cui casi mortali denunciati sono passati da 97 a 101, sia a quella femminile (da 7 a 13). Molta meno differenza nelle denunce di infortunio: 58.004 quelle di donne, 63.990 quelle dei colleghi uomini.
MAURO ROSSATO, presidente dell’Osservatorio sicurezza sul lavoro Vega Engineering di Mestre, da qualche tempo produce un analisi che classifica le regioni rispetto al numero di morti e incidenti sul lavoro in rapporto al numero di lavoratori. «A finire in zona rossa al termine del primo bimestre del 2022, con un’incidenza maggiore del 25% rispetto alla media nazionale (pari a 3,7 morti ogni milione di lavoratori) sono Molise, Toscana, Sicilia e Marche. In Zona Arancione: Lombardia, Campania, Abruzzo, Trentino Alto Adige ed Emilia Romagna. In Zona Gialla: Sardegna, Veneto, Puglia e Umbria. In Zona Bianca: Lazio, Friuli, Liguria, Piemonte, Basilicata, Calabria e Valle D’Aosta».
«I PREOCCUPANTI INCREMENTI rispetto al primo bimestre del 2021 impongono una seria riflessione – commenta i dati il presidente dell’Inail Franco Bettoni – . L’andamento degli infortuni nel periodo 2019-2021 – prosegue Bettoni – al netto dei contagi Covid presenta elementi di evidente complessità: nel 2019, in assenza del virus, sono pervenute all’istituto circa 642.000 denunce di infortunio, diminuite a poco più di 423.000 nel 2020 e risalite a quasi 513.000 nel 2021. Effetti sostanzialmente analoghi per gli infortuni con esito mortale. In riferimento ai primi mesi del 2022 si conferma l’urgenza di agire sinergicamente per invertire la rotta. Nel nostro paese – conclude Bettoni – manca ancora una reale cultura della prevenzione che va costruita iniziando dai banchi di scuola, conservandola poi nel tempo con adeguati interventi di informazione e formazione continua per tutti gli attori del ciclo produttivo. Una valida politica di prevenzione, l’interiorizzazione della cultura della sicurezza, non penalizzano l’impresa sul mercato, anzi, possono costituire elemento determinante di affermazione e competitività».
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