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IL LIMITE IGNOTO. Von der Leyen annuncia il decimo pacchetto di risoluzioni anti Cremlino, e aiuti all’Ucraina per oltre mezzo miliardo di euro. Scambio di prigionieri con la mediazione degli Emirati: 63 russi per 116 ucraini

I  leader europei a Kiev: Nuove sanzioni contro Mosca. Ma basta armi Prigionieri di guerra ucraini in posa dopo essere stati liberati in seguito a uno scambio con i russi - Ansa

La visita dei vertici dell’Unione europea a Kiev non è stata la solita passerella mediatica. Intanto perché erano presenti tutti i leader, da Charles Michel a Ursula Von der Leyen, insiema a una nutrita delegazione. In secondo luogo perché si è annunciato un nuovo pacchetto di aiuti da quasi mezzo miliardo di euro oltre a nuove sanzioni a Mosca in un momento in cui sul campo le forze russe hanno ricominciato ad attaccare con insistenza. Secondo Von der Leyen, che ha da poco annunciato il via libera ai massimali di prezzo sui derivati del petrolio russo, il decimo pacchetto di sanzioni entrerà in vigore prima del 24 febbraio.

E POI C’È IL VALORE simbolico. I capi delle istituzioni europee erano portatori di un messaggio abbastanza chiaro per il Cremlino: a un anno dall’invasione siamo ancora al fianco dell’Ucraina. Ma si intravede anche un leggero fastidio per l’insistenza ucraina sulle nuove forniture, soprattutto ora che la maggioranza dei paesi sta organizzando l’invio dei carri armati. Kiev sembra non accontentarsi mai di quanto l’Occidente gli accordi. Il che è interpretato da molti come un segno della delicata fase in cui sta entrando la guerra. Bakhmut, che continua a essere bombardata e assaltata da distaccamenti russi, ne è diventata un po’ il simbolo. È la «fortezza ucraina», come l’ha definita il presidente Zelensky stesso che ha anche sottolineato che i suoi uomini non la abbandoneranno. Ma i russi premono e le informazioni sugli ingenti spostamenti di personale verso le regioni occupate e separatiste non lasciano di certo indifferente lo Stato maggiore di Kiev. Secondo uno dei consiglieri dell’ex sindaco ucraino di Mariupol, ad esempio, nella città sul Mar d’Azov sarebbero arrivati tra i 10 e i 15mila soldati russi, portando a 30 mila il numero totale delle truppe occupanti. Stando a un’informativa del governo britannico Mosca avrebbe intrapreso una serie di azioni per «integrare il territorio appena occupato in una posizione strategica a lungo termine».

SULLA VISITA della delegazione Ue in Ucraina il sempre minaccioso ex-presidente russo Medvedev ha fatto sapere che «non ci poniamo limiti, l’Ucraina brucerà se continuerà l’invio di armi da parte dei Paesi occidentali». A proposito di “limiti”, Medvedev ha chiarito che anche le armi nucleari saranno considerate uno strumento legittimo se Kiev attaccherà il suolo russo. Meno impulsiva, ma non meno perentoria, è stata la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova. «L’evento tenutosi il 3 febbraio a Kiev ha confermato ancora una volta che per indebolire la Russia e servire le aspirazioni egemoniche degli Usa e della Nato, l’Ue continua a sostenere sconsideratamente il regime neonazista di Kiev».

DAL CANTO SUO il consigliere presidenziale ucraino Mikhaylo Podolyak ha invece esortato la comunità internazionale a ignorare Medvedev e a continuare a sostenere il suo Paese in quanto «la legge internazionale parla chiaro. L’Ucraina può liberare i suoi territori utilizzando qualsiasi strumento».
Nonostante la distanza tra i due belligeranti, ieri si è anche tenuto un nuovo scambio di prigionieri. Grazie alla mediazione degli Emirati arabi, Kiev ha ottenuto la restituzione di 116 soldati ucraini in cambio di 63 russi. Il governo di Zelensky ha accusato Mosca di torture sui propri militari che avrebbero perso degli arti per congelamento.

SULLE TORTURE si è espresso anche il procuratore generale della Germania, Peter Frank, secondo il quale il suo ufficio è in possesso di prove evidenti sui crimini di guerra russi, in particolare rispetto ai massacri di Bucha e agli attacchi contro le infrastrutture civili ucraine

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Dopo giorni di silenzio sull’offensiva di Donzelli e Delmastro contro il Pd, la premier scrive una lettera al Corriere e chiede a tutti di abbassare i toni, a partire da Fdi. Ma in realtà rilancia le accuse dei fedelissimi e li blinda: «Non ci sono i presupposti per le dimissioni». I dem: «Riattizza il fuoco». Cortei per Cospito, a Roma tre fermati

Dalla premier rimbrotto a Delmastro e Donzelli per i toni. Poi rilancia le accuse ai dem

La premier è stata di parola. Aveva promesso da Berlino che avrebbe fatto sapere ieri cosa pensa del caso Delmastro-Donzelli: nella mattinata scrive al Corriere della sera, procede come un trattore. Non che sia sguaiata come i due incontinenti guardiaspalle. Al contrario pesa parole e toni. Paga il dovuto obolo all’autocritica: «I toni si sono alzati troppo e invito tutti, a partire dagli esponenti di FdI, a riportarli al livello di un confronto franco ma rispettoso». Non ci si faccia ingannare dalla peraltro delicatissima rampogna. Ai suoi pupilli Giorgia Meloni non offre solo piena copertura. Riprende e rilancia tutte le loro argomentazioni.

Giorgia Meloni:

Trovo paradossale che non si possa chiedere conto ai partiti della sinistra delle loro scelte, quando all’origine delle polemiche si colloca la visita a Cospito

Di dimissioni non se ne parla proprio: «Non ritengo vi siano in alcun modo i presupposti». L’assoluzione da parte del guardasigilli Carlo Nordio sta lì proprio per essere citata e Meloni provvede. L’accusa mossa dallo scalmanato Donzelli in aula era «sicuramente eccessiva». Si sa come sono i ragazzi e chi è senza peccato scagli la prima pietra. Ma non potrà certo essere chi proprio contro di lei ha adoperato parole tanto forti come «mandante morale delle morti in mare».

LA DIFESA DEI DUE Fratelli era prevedibile, prefigurata dal silenzio dei giorni scorsi. La premier però non si ferma qui, si scaglia come loro contro il Pd. Le sembra «paradossale» che non si possa «chiedere conto ai partiti della sinistra delle loro scelte». Sul banco degli accusati ci sono loro perché all’origine del fattaccio «si colloca oggettivamente la visita a Cospito di una qualificata rappresentanza del Pd» proprio quando «il detenuto intensificava gli sforzi di comunicazione con l’esterno». E c’è di peggio: «Ben sapendo quanto alla mafia convenga mettere in discussione il 41 bis», pur messi al corrente dal solerte Donzelli «dei rapporti tra Cospito e i boss», autorevolissimi dirigenti del Nazareno «hanno continuato a chiedere la revoca dell’istituto per Cospito» fingendo di ignorare «le implicazioni che tale scelta avrebbe avuto nella lotta alla criminalità organizzata».

LA LETTERA DI MELONI è esplicita e volutamente chiara. La presidente non vuole correggere neppure una virgola. Conferma, ribadisce, rincara. Quelle di Donzelli non sono state parole dal sen fuggite. Sono una precisa strategia studiata per sottrarsi a ogni possibile critica per la scelta di mettere Cospito in pericolo di vita senza alcun motivo e per rovesciare le parti mettendo all’indice il Pd con l’accusa di favorire, se non per dolo almeno per superficialità, la mafia. Nonché di minare il santissimo articolo 41 bis. Non a caso ieri il capogruppo di FdI Foti ha presentato una mozione che impegna il governo a negare la sospensione del 41 bis a Cospito. Basterà mezzo voto in dissenso da parte della sinistra per ritrovarsi incollata addosso l’etichetta di amici dei mafiosi.

È UNA MANOVRA che sta riuscendo in pieno. Il Pd, dopo aver martellato per giorni chiedendo alla premier di esprimersi, replica, dopo troppe ore, con un comunicato che sembra battagliero ed è invece tutto sulla difensiva. Letta e le capogruppo Malpezzi e Serracchiani partono lancia in resta: «Una lettera che riattizza il fuoco invece di spegnerlo. Parole di un capo partito che difende i suoi oltre l’indifendibile e per farlo rilancia polemiche strumentali e livorose». Il resto del comunicato però il Pd lo spende per smentire le accuse della ex missina. Il Pd che «ha nel suo dna la difesa della libertà, della democrazia» etc. I «tanti caduti del campo, vittime della nostra intransigenza nei confronti del terrorismo». La «fermezza che teniamo oggi verso tentativi di sovvertimento dell’ordine costituito che non ci vedono e non ci vedranno mai ambigui». Da ogni riga, da ogni virgola trapela la paura che le calunnie di FdI facciano presa e il Pd passi, se non per amico dei mafiosi, almeno per non abbastanza intransigente.

È PRECISAMENTE il terreno su cui la premier e i suoi scherani, fuori di testa solo in apparenza, volevano portare il Pd, e dove i 5S già troneggiano. Un territorio nel quale chiedere di sospendere il 41 bis, senza alcun pericolo per le istituzioni, per un detenuto che rischia la vita diventa complicità con Cosa Nostra. Il sentiero lungo il quale il Pd insegue da sempre trafelato la destra. Con esiti puntualmente disastrosi

 

 

 

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FACT CHECKING . Meloni nel suo intervento televisivo omette di dire come andò la vicenda

Il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, primo ...

Si è mossa sul confine della fake news la premier Giorgia Meloni, quando l’altra sera a Rete4, il canale di famiglia, ha parlato di Alfredo Cospito che già nel 1991 aveva ottenuto una grazia presidenziale in seguito a uno sciopero della fame. La storia è vera, ma non è tutta. Cospito era in una situazione che in migliaia hanno dovuto affrontare: la renitenza alla leva.

Condannato per diserzione, davanti al giudice Cospito aveva dichiarato di essere anarchico e di «non sentirsi vincolato in coscienza dal dovere di prestare il servizio militare». Alla fine fu il padre a presentare domanda di grazia, puntualmente accolta dall’allora presidente della Repubblica Cossiga, che durante il suo mandato firmò 155 provvedimenti simili per «reati militari». Il suo predecessore Pertini, nel suo settennato, aveva superato quota tremila.

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La commissaria per i diritti umani scrive a Piantedosi: assicurarsi che il testo rispetti gli obblighi previsti dal diritto internazionale

Il Consiglio d’Europa contro il decreto ong «Il governo lo ritiri» 

La bocciatura non potrebbe essere più netta e dà voce alla preoccupazione che il decreto ong, in discussione proprio in questi giorni alla Camera, possa rappresentare un ostacolo all’attività di soccorso dei migranti in difficoltà nel Mediterraneo. Al punto che Dunja Mijatovic, commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, nei giorni scorsi ha scritto al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi chiedendogli di «considerare la possibilità di ritirare il decreto legge» oppure di approfittare del dibattito parlamentare per apportare le modifiche necessarie «per assicurare che il testo sia pienamente conforme agli obblighi del Paese in materia di diritti umani e di diritto internazionale». Altrettanto netta la replica del Viminale, che bolla i timori espressi dalla Commissaria come «infondati».

Dopo settimane di silenzio, per la prima volta a livello internazionale una voce autorevole esprime tutti i dubbi sul provvedimento varato dal governo Meloni per «regolamentare» il lavoro delle navi umanitarie. Il Consiglio d’Europa è un organismo che ha sede a Strasburgo ma non ha niente a che fare con le istituzioni Ue. Ne fanno parte 46 Paesi (a marzo del 2022 la Russia ne è uscita) e si batte per il rispetto dei diritti umani. Motivo che il 26 gennaio ha spinto Mijatovic a scrivere a Piantedosi non nascondendo «di essere preoccupata che alcune delle regole contenute nel decreto ostacolino la fornitura di assistenza salvavita da parte delle ong nel Mediterraneo centrale».

La commissaria punta il dito in particolare sulla norma secondo la quale un volta compiuto il primo salvataggio, la nave deve raggiungere subito il porto indicato per lo sbarco dei naufraghi. Una disposizione che «come già accaduto, impedisca alle ong di effettuare salvataggi multipli in mare, costringendole a ignorare altre richieste di soccorso nell’area se hanno già delle persone a bordo». Se i comandanti delle navi dovessero rispettarla, scrive Mijatovic, «verrebbero di fatto meno ai loro obblighi di salvataggio sanciti dal diritto internazionale».

Altra questione messa in evidenza riguarda l’estrema distanza dei porti che ogni volta vengono assegnati alle navi. «Luoghi lontani nel centro e nel nord Italia», scrive Mijatovic, per la quale la scelta «prolunga le sofferenze delle persone salvate in mare e ritarda indebitamente la fornitura di un’assistenza adeguata a soddisfare i loro bisogni primari».
E a nulla valgono le giustificazioni fornite finora dal governo, secondo le quali la scelta di porti distanti servirebbe a decongestionare i centri del Sud Italia permettendo una migliore distribuzione dei migranti: «Questo obiettivo – scrive infatti la commissaria potrebbe essere raggiunto sbarcando rapidamente le persone soccorse e assicurandosi che ci siano accordi pratici alternativi per redistribuirle in altre zone del Paese».

Alle osservazioni della commissaria il governo replica respingendo ogni addebito: Per quanto riguarda l’obbligo di raggiungere subito il porto indicato per lo sbarco «ciò che la nuova norma intende evitare – è scritto il governo nella risposta a Mijatovic – è piuttosto la sistematica attività di recupero dei migranti nelle acque antistanti le coste libiche e tunisine al fine di condurli esclusivamente in Italia, senza alcuna forma di coordinamento». Quanto all’assegnazione dei porti «lo scopo di questa scelta è piuttosto quello di redistribuire tra le regioni gli oneri organizzativi e logistici legati alla gestione degli sbarchi, alleggerendo così il peso su Lampedusa, la Sicilia e la Calabria». Insomma, chiusura totale

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Il consiglio dei ministri dà il via libera al Ddl Calderoli sull’Autonomia differenziata. La Lega esulta e pensa alle regionali in Lombardia. Il no dei governatori del sud. Pd e Cgil promettono barricate: «Spacca l’Italia». Il Gimbe: «Colpo di grazia al Sistema sanitario nazionale»

LO SPACCONE. Il governo Meloni vara il progetto di«autonomia differenziata», la Lega pensa alle regionali in Lombardia. Tempi lunghi per la misura-bandiera di Roberto Calderoli e di Matteo Salvini. A giugno in arrivo un decreto sul presidenzialismo. Contro lo spezzatino delle destre opposizioni e Cgil sulle barricate e annunciano mobilitazioni. Cuperlo: (Pd): "Ora siamo tutti contro questo progetto, Bene. Ma ricordiamoci che nel 2001 la riforma del Titolo V della Costituzione l'ha votata il centro-sinistra. Cerchiamo di non fare più pasticci"

Via alla secessione dei ricchi, per ora è un lancio elettorale Il ministro per gli affari regionali Roberto Calderoli (Lega) - Ansa

Il primo passo per la creazione di un paese arlecchino è stato fatto ieri dal governo Meloni che ha approvato, tra gli applausi degli astanti in consiglio dei ministri, il ddl Calderoli sull’autonomia differenziata. Il cammino del provvedimento sarà lungo, accidentato e non scontato. Produrrà urti e frizioni in una maggioranza a vocazione nazionalista che, con Fratelli d’Italia, aspira a dare il colpo finale alla forma di governo parlamentare e a istituire il presidenzialismo, anche se non ha ancora capito quale. La ministra per le riforme Casellati ha promesso ieri un testo entro giugno. Il presidenzialismo è il pegno da pagare a Fratelli d’Italia all’autonomia differenziata concessa alla Lega.

UN ANNUNCIO delle difficoltà è stato visto ieri alla conferenza stampa organizzata al termine del Consiglio dei ministri. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni non

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BUFERA SOCIALE. Cinquecentomila i lavoratori in agitazione, tra ferrovie, autobus, insegnanti e impiegati: chiedono salari al passo con l’inflazione. Chiuse del tutto il 40% delle scuole di Inghilterra e Galles

 Londra, la protesta dei dipendenti pubblici - Ansa

Scuole chiuse, treni fermi, aule universitarie semideserte, uffici pubblici silenziosi. Ieri è stata l’ennesima giornata di uno sciopero che ormai è generale, e continuerà a febbraio e a marzo a meno che il governo non ceda alle richieste di aumenti salariali in linea con l’inflazione dietro la stragrande maggioranza delle lotte.

Cinquecentomila i lavoratori in agitazione, tra ferrovie, autobus, insegnanti e impiegati pubblici, di cui centomila insegnanti erano il gruppo più ragguardevole. Molti sono affluiti a Londra già dal mattino per una manifestazione conclusasi nel pomeriggio, a pochi passi da Downing Street. Con tutte le scuole di Inghilterra e Galles coinvolte e almeno ventimila – il 40% – rimaste chiuse del tutto, è il massimo sciopero dal 2016. Il 14 febbraio sciopereranno gli insegnanti gallesi e altre giornate di lotta sono state indette alternatamente in altre regioni del paese per il 28 febbraio e per l’1, il 2, il 15 e il 16 marzo prossimi.

In circa trentamila sono sfilati lungo il centro di Londra fino ai palazzi del potere a Whitehall, dove hanno ascoltato i vari leader sindacali, compresa Jo Grady (Ucu), Mark Serwotka (Pcs) e Paul Novak (Tuc). Ultimo a parlare, il segretario della Rmt Mick Lynch, distintosi ultimamente come figura di riferimento grazie anche alle sue ferme e puntuali uscite mediatiche. Lynch, i cui lavoratori non erano – e vistosamente – tra gli scioperanti perché riuniti in discussione sull’ultima controproposta del governo, ha invitato a continuare lo sciopero fin quando le richieste non saranno accolte.

Cosa vogliono gli insegnanti? La stessa cosa di tutte le altre categorie in sciopero: un salario al passo con l’inflazione, e che non sia ricavato da altri tagli al già consunto budget per l’istruzione. La categoria, orribilmente sottopagata come molti lavoratori del settore pubblico, gravata in automatico da straordinari non retribuiti (presidi e maestri hanno sul groppone anche il lavoro burocratico un tempo riservato alle segreterie, la stessa cosa è accaduta ai medici di famiglia) si è sentita ripetere dalla ministra dell’istruzione Gillian Keegan – il cui polso è leggiadramente appesantito da un Rolex da diecimila sterline – di essere «realistici» quanto alle proprie richieste e che il governo ha già stanziato fondi extra per la scuola, 2 miliardi «che porteranno la spesa reale sulla scuola ai suoi massimi storici».

La canzone resta zeppelinianamente la stessa. Nessun margine negoziabile, bisogna abbassare l’inflazione, con la ben nota spirale prezzi-salari come “pretesto scientifico” per il rifiuto di cacciare fuori i soldi. Il solito rimedio della nonna che gabella una scelta politica e ideologica bella e buona per necessità economica. Lo scontro non può che intensificarsi, soprattutto dovesse il governo continuare nella sua proposta di legge che precetterebbe un numero di lavoratori a recarsi comunque al lavoro nelle giornate di sciopero, onde garantire un livello minimo di servizi. Per giustificare ulteriormente il proprio niet agli aumenti salariali, il governo afferma inoltre di seguire le direttive in materia contrattuale di quello che ammonta essenzialmente a uno dei tanti think-tank dietro i quali si nasconde, il Pay review independent body, un organismo indipendente nella misura in cui è una sua (del governo) stessa emanazione.

Non che gli scioperi solletichino nemmeno vagamente le meningi politiche dei laburisti. Durante il Prime Minister questions Keir Starmer ha cercato disperatamente di evitare di parlarne. Troppo rischioso

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