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CONGRESSI CGIL. Prima giornata dell'assise Fiom. Il segretario: Bonomi vorrebbe salari bassi per tutti, serve il sindacato dell’industria

De Palma: «Una marcia della dignità per cambiare il paese» Il segretario della Fiom Cgil Michele De Palma

Ci sono ancora luoghi nei quali appena si nomina l’Anpi, parte spontanea “Bella ciao” cantata a squarciagola da mille persone. Succede al congresso della Fiom, aperto ieri pomeriggio alla Fiera di Padova dalla coraggiosa relazione del segretario Michele De Palma che lancia «una marcia della dignità con Fim e Uilm, associazioni e movimenti per costruire un’idea diversa del paese, da Sud e Nord attraverso città, luoghi di lavoro, scuole, piazze contro un governo che vuole dividerci».

SUL SOLCO TRACCIATO da Maurizio Landini usando più volte l’espressione «le persone che per vivere devono lavorare», in quasi due ore di discorso, De Palma non fa sconti a nessuno, in primis al sindacato. Parte dalle radici antifasciste dell’organizzazione che, come da slogan congressuale «da 121 anni produciamo futuro», per rivendicare «una storia plurale» e «combattere una destra al governo che mina gli equilibri costituzionali, vuole disarticolare e dividere con l’autonomia differenziata e presidenzialismo e in economia unisce corporativismo e nazionalismo».

A Fim e Uilm dico: mai più contratti separati. Su Fca e Stellantis la verità è che non abbiamo né il lavoro né gli stipendi tedeschi. Nel sindacato servono più giovani, donne e migranti

L’ATTACCO PIÙ DURO è per il presidente di Confindustria Carlo Bonomi: «Dice che i salari nell’industria non sono bassi. È vero ma solo perché quelli degli insegnanti sono inaccettabili e noi non abbiamo nessuna intenzione di partecipare a una gara al ribasso». La richiesta «a Confindustria di ritirare la firma dal contratto pirata sottoscritto con l’Ugl sugli artigiani metalmeccanici» (500 mila lavoratori), è il preludio a una richiesta salariale per il rinnovo del contratto dell’industria del 2024 che vada «oltre l’andamento dell’inflazione, superando l’Ipca», l’indice dei prezzi senza la componente energetica: «a giugno sarà erogato l’ultimo aumento di 80 euro, significativo frutto dell’ultimo contratto ma già divorato dall’inflazione». In più «riduzione di orario e più ore di formazione e più sicurezza e salute contro il numero impressionante di morti sul lavoro».

DOPO AVER ACCUSATO la sedicente sinistra di aver costruito «un manifesto contro il lavoro con il Jobs act, al governo Meloni De Palma imputa «l’assenza totale sulla transizione industriale» e di «trasparenza: «È accettabile che l’accordo tra Arcelor Mittal e stato è secretato?», si chiede polemico. Parte dalla situazione dell’ex Ilva per affermare che «il punto non è sostituire un amministratore delegato con un boiardo di stato, ma ragionare sugli investimenti necessari a una transizione che non metta in opposizione ambiente e lavoro». «Servono fabbriche verdi a dimensione umana, non per strappare un millesimo di secondo sulla linea, vanificato da un cargo bloccato per giorni a Suez», attacca.

LE TROPPE CRISI INDUSTRIALI irrisolte – Whirlpool, Gkn – sono il sintomo di come trattare con le multinazionali è impossibile a livello nazionale – «negoziamo con manager con zero autonomia» – e che serve un «sindacato europeo che diventi un soggetto contrattuale».

Ai cugini di Fim Cisl e Uilm, De Palma chiede «mai più accordi separati». E mentre in Stellantis si va verso il terzo contratto aziendale (Ccls) senza la Fiom, rivendica il ritorno nelle fabbriche ex Fiat: «A distanza di anni serve dirsi la verità: la maggior parte dei lavoratori è in Cig e i salari non sono tedeschi (come aveva promesso Marchionne, ndr), se 5 mila se ne sono andati negli ultimi 2 anni e se è in crisi tutta la componentistica, allora vuol dire che bisogna cambiare», sottolineando la richiesta di Palombella (Uilm) di «cambiare pagina e a Stellantis di tornare al contratto nazionale Confindustria».

MA È AL TEMA INTERNO della Cgil che De Palma riserva le innovazioni maggiori. In primis con l’annuncio del primo «passo del sindacato dell’industria»: «l’assemblea con i chimici della Filctem (che stanno tenendo il loro congresso a Torino) di una assemblea unitaria a Roma il 27 febbraio per riflettere assieme su rappresentanza, contrattazione e politiche industriali».
Per quanto riguarda «la Fiom del futuro», «il rischio di sentirci, in nome della storia, i primi della classe» va combattuto: «o siamo in grado di cambiare o è a rischio l’esistenza stessa». Dunque «più giovani, più donne e più migranti fra delegati, distacchi e segretari, rischiando incertezza ma avendo la certezza di una prospettiva futura»

 

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DAL FRONTE. Siamo due reporter freelance che dal 2014 seguono il conflitto in Ucraina. Il 6 febbraio, ovvero ormai dieci giorni fa, mentre eravamo di ritorno dal fronte di Bakhmut, dove abbiamo […]

Giornalisti italiani bloccati e «censurati» dalle autorità ucraine Andrea Sceresini e Alfredo Bosco

Siamo due reporter freelance che dal 2014 seguono il conflitto in Ucraina.

Il 6 febbraio, ovvero ormai dieci giorni fa, mentre eravamo di ritorno dal fronte di Bakhmut, dove abbiamo realizzato un reportage per Rai3, il ministero della Difesa ucraino ci ha notificato la sospensione degli accrediti giornalistici.

«Da dieci giorni aspettiamo un interrogatorio del Sbu, i Servizi di Kyiv e ci è stato tolto l’accredito. E circola la voce, pericolosa in piena guerra, che saremmo “collaboratori del nemico”»

La sospensione degli accrediti – che ci erano stati regolarmente rilasciati nel marzo 2022 – comporta l’impossibilità di muoversi liberamente nel Paese, specie nelle zone vicino al fronte, e il rischio concreto di essere arrestati al primo posto di blocco. Di fatto, questo provvedimento ci ha messo nella totale impossibilità di lavorare e ha posto seriamente a rischio la nostra incolumità.

Nessuno ci ha comunicato le ragioni del provvedimento (entrambi siamo accorsi in Ucraina il 24 febbraio 2022 per raccontare le conseguenze dell’invasione russa, Bosco è stato probabilmente il reporter italiano che ha trascorso più tempo in Ucraina dal 24 febbraio, Sceresini ha da poco realizzato un reportage undercover in Siberia per raccontare il malcontento della popolazione russa e le molte diserzioni che si stanno verificando – il documentario è andato in onda in prima serata su Rai2 ed è visibile qui:

 https://youtu.be/M6SmgXaxPgY

Da un anno i nostri servizi dall’Ucraina vengono pubblicati da Rai, LA7, Mediaset, il manifesto, la tv tedesca Rtl, l’Espressoil Fatto Quotidianole Figaro Magazinela Croix, eccetera).

Tuttavia, le voci che si sono sparse tra i fixer ucraini che lavorano nel Donbass – e di cui abbiamo prova scritta – ci indicano come «collaboratori del nemico» – un’accusa che in zona di guerra può avere conseguenze molto serie.

L’unica notizia ufficiale che ci è giunta, nonostante i molti solleciti effettuati anche tramite la nostra ambasciata, riguarda un ipotetico «interrogatorio» al quale dovremmo sottoporci, e che dovrebbe essere eseguito dagli uomini dell’Sbu, il

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PRIMARIE. Scontro dopo le dichiarazioni di Letta al New York Times: «Finora Giorgia ha governato meglio di quanto pensassimo»

«Meloni è capace». Bonaccini e Schlein litigano sulla premier Elly Schlein e Stefano Bonaccini - La Presse

Tutto nasce da un’intervista di Enrico Letta al New York Times. Nel contesto di un articolo in cui si sostiene che in fondo la nuova presidente del consiglio è meno pericolosa di quanto si potesse pensare fino a qualche mese fa, il segretario uscente spiega che Giorgia MelonI è stata «migliore di quanto ci aspettassimo».

PER LETTA Meloni ha il merito di aver abbandonato l’aggressività nei confronti dell’Ue, decidendo di «seguire le regole» ed evitando di «commettere errori». «La realtà è che lei è forte – prosegue Letta – È in piena luna di miele, senza un’alternativa all’interno della maggioranza e con l’opposizione divisa». Poi precisa però che c’è molto da preoccuparsi su questioni come l’immigrazione, la giustizia e i diritti degli omosessuali e dell’aborto», anche se in questi settori «finora non è stato fatto nulla di spettacolare, nulla di drammatico», evidenzia sempre il New York Times.

A QUESTO PUNTO si unisce Stefano Bonaccini: «Meloni non è una fascista – dice il presidente dell’Emilia Romagna e aspirante segretario – È una persona capace». C’è da dire che anche Bonaccini non risparmia critiche al governo di centrodestra: «Il fatto che l’Italia sia stata esclusa dal vertice dell’Eliseo non è un buon segnale». Nonostante questo, aggiunge, «mi pare che Meloni abbia tutto l’interesse a stare dentro il Patto atlantico e all’Eurozona». Quanto alla maggioranza, «voglio vedere come si comporteranno rispetto al tema Europa». Detto ciò, invita alla prudenza: «Serve misura».

LE DICHIARAZIONI di Bonaccini suscitano la protesta di Andrea Orlando. «C’è qualcosa che non va – dice l’ex ministro – Mettiamoci d’accordo compagni e amici. Se sosteniamo, io credo in modo sacrosanto, che la manovra di bilancio incentiva l’evasione, non aiuta l’economia reale e premia le rendite, colpisce i poveri e non affronta la crisi salariale. Se diciamo che il decreto Ong è contro la Costituzione, i trattati internazionali e il senso stesso di umanità. Se diciamo che esponenti del governo, coperti dalla premier, si sono resi responsabili di comportamenti gravi e di un utilizzo inaccettabile delle istituzioni contro l’opposizione. Come si fa a dire contemporaneamente che sono capaci (di cosa?) o che sono meglio di quanto ci aspettassimo?». A riprova che la questione è a pieno titolo entrata nel confronto congressuale, ecco Elly Schlein che aggiunge: «Credo che Giorgia Meloni non abbia ancora trovato la postura nel nuovo ruolo. Il governo sta facendo male e in Europa rischia di isolarci gettandosi tra le braccia del gruppo Visegrad». Il tutto avviene nel giorno in cui un sondaggio sostiene che Schlein sia in vantaggio nel gradimento dei non iscritti, che potranno esprimersi ai gazebo il prossimo 26 febbraio.

DAL NAZARENO accusano Orlando di «travisare completamente» le parole pronunciate da Letta. Il quale, dicono i suoi, «si è limitato ad esprimere al quotidiano statunitense un giudizio positivo, che peraltro conferma, sul fatto che la premier Giorgia Meloni non ha infranto le regole di bilancio e le regole dell’euro, a differenza di quanto negli anni aveva detto di fare». Anche Bonaccini sente il bisogno di precisare: «Bisognerebbe innanzitutto evitare polemiche strumentali, ho detto che Meloni è apparsa capace quando in Europa ha tenuto la posizione sul patto Atlantico, ad esempio sulla guerra in Ucraina. Si omette di ricordare che ho invece fatto critiche sul fatto che l’Italia sia stata estromessa dai principali vertici europei. Se ci fosse stato Mario Draghi non sarebbe successo». Bonaccini conclude: «Io la destra preferisco batterla nelle urne piuttosto che nelle interviste». L’ufficio stampa di Orlando si chiede invece se le fonti del Nazareno parlino «a nome di tutto il partito». Il sospetto è che il segretario uscente si sia di fatto schierato con Bonaccini, il che è un modo per ribaltare l’accusa del presidente emiliano, che rinfaccia da tempo a Schlein di essere espressione dell’apparato. I due contendenti, si apprende nel frattempo, si confronteranno lunedì 20 in prima serata su SkyTg24

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MEDITERRANEO. Associazioni, cattolici e Ong criticano la misura votata ieri alla Camera e la prassi introdotta a fine dicembre dal Viminale. Forti pressioni dall’Italia sulla Geo Barents: raggiunga Ancona a tutta velocità

«Questa legge è una vergogna per il nostro Paese» Gommone avvistato dalla nave Ocean Viking - Kevin Mc Elvaney / SosMediterranée

È un coro unanime quello di associazioni e Ong, impegnate nell’assistenza dei migranti a terra o nel loro soccorso in mare, contro la conversione in legge del «decreto Piantedosi». Votata ieri dalla Camera, sarà presto in Senato. «Il giorno in cui arriva l’ennesima notizia di un naufragio davanti alle coste libiche il parlamento italiano, con pessimo cinismo, approva l’ennesimo provvedimento con cui ostacolare i salvataggi delle persone in fuga da morte, violenze, schiavitù. Una vergogna per il nostro Paese», dice Filippo Miraglia, responsabile migranti Arci, nella conferenza del Tavolo asilo e immigrazione (Tai) che si è tenuta ieri a pochi metri da piazza Montecitorio. «La mancanza di vie legali di ingresso in Europa costringe migliaia di persone a rischiare la vita affidandosi ai trafficanti. Non si può continuare a lasciarle morire in mare rimanendo fermi e persino inasprendo le procedure per il soccorso e l’approdo in Italia», afferma invece padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli.

Duri anche i toni delle organizzazioni impegnate nel Mediterraneo centrale. «Dai tempi di Mare Nostrum non esiste un sistema di ricerca e soccorso proattivo e adeguato. Il decreto del governo non interviene su questa lacuna, ma ha come obiettivo limitare la capacità di soccorso delle navi umanitarie. A rimetterci non sono tanto le Ong, ma le persone che affrontano la rotta migratoria più letale al mondo», afferma Juan Matías Gil, capomissione di Msf. Gil si trova a bordo della Geo Barents e denuncia le pressioni che il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo di Roma (Imrcc) sta facendo sulla nave affinché si diriga a tutta velocità e senza deviazioni verso il porto di Ancona, assegnato lunedì scorso dopo il soccorso di 48 persone. «Non hanno alcuna considerazione per il benessere dei naufraghi a bordo», dice Gil, che sottolinea la contraddizione tra la richiesta di fare presto e l’indicazione di un porto lontanissimo.

L’Ong Sos Humanity chiede un intervento dell’Ue perché «la nuova legge è contraria al diritto internazionale ed europeo. La Commissione, in qualità di custode della legge, agisca contro queste violazioni di uno Stato membro». Per Sea-Watch si tratta di una «legge propaganda» che «causerà più vittime». «Le morti in mare sono la diretta conseguenza di scelte politiche», accusa la presidente di Emergency Rossella Miccio.

Nella sua presa di posizione Sos Mediterranée pone l’accento anche su un altro aspetto della vicenda: «il “combinato disposto” del decreto e delle prassi di coordinamento applicate alle navi Ong si traduce in una mortale riduzione della capacità di soccorso nel Mediterraneo». La prassi di assegnare porti subito dopo il primo soccorso ma lontani centinaia di miglia nautiche è infatti indipendente dal decreto (e lo precede di due settimane, con le Sea-Eye 4 e Life Support spedite a fine dicembre nella città di Livorno). Le sanzioni previste dalla norma dovrebbero servire a scoraggiare potenziali forme di disobbedienza a queste indicazioni di dubbia legittimità. Finora non ce ne sono state e nemmeno nei casi di soccorsi multipli sono stati applicati fermi o multe. «La legge ha l’obiettivo di svuotare il Mediterraneo dai dissidenti, da coloro che non accettano la logica di morte del regime dei confini – afferma Luca Casarini di Mediterranea – La prassi, però, è molto più avanti: i porti lontani ne sono un esempio. Le vittime di questa guerra sono sempre le stesse: i civili. Donne, uomini e bambini».

Secondo Vittorio Alessandro, ammiraglio in congedo della guardia costiera e membro del comitato per il diritto al soccorso, «questa norma ha una scarsissima valenza applicativa perché dichiara ciò che le leggi italiane e le convenzioni internazionali già prevedono: la necessità di concludere i soccorsi in maniera rapida e tempestiva, l’obbligatorietà delle comunicazioni alle autorità e la possibilità di informare i naufraghi sulle procedure d’asilo». I principali effetti, continua Alessandro, vengono da ciò che non è scritto, come le assegnazioni di porti lontani, e dal piano simbolico, perché «si aggiunge un carico di diffidenza e rancore verso chi esercita attività di soccorso nel Mediterraneo».

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Più di 70 morti in un naufragio al largo della Libia. Altri 70 sulla rotta spagnola. È sempre più un viaggio senza speranza quello dei migranti che cercano di raggiungere l’Europa. Intanto in Italia il primo sì della Camera al decreto che ostacola i salvataggi delle Ong

IL TESTO ATTESO AL SENATO PER L'APPROVAZIONE DEFINITIVA. 187 voti a favore, 139 contrari e 3 astenuti. Le opposizioni: «Decreto naufragi»

Via libera della Camera  alle norme anti ong 

Tutto come previsto. Il decreto Piantedosi, che renderà più difficile il lavoro delle ong impegnate a salvare i migranti nel Mediterraneo, ha fatto il primo passo verso la sua trasformazione in legge. Con 187 voti a favore, 139 contrari e 3 astenuti la Camera ha licenziato ieri il testo che passa adesso al Senato per il via libera definitivo, che dovrà avvenire entro il 3 marzo prossimo. Inutili gli appelli a un ripensamento rivolti al parlamento dalle organizzazioni umanitarie, che anche ieri hanno denunciato come le nuove norme rischiano di avere «effetti mortali» sulle persone in fuga lungo quella che è considerata una delle rotte più pericolose al mondo. Inutile anche il richiamo del Consiglio d’Europa che per gli stessi motivi nelle scorse settimane all’esecutivo aveva chiesto di ritirare o almeno modificare il testo. Niente da fare.

Inascoltato di fatto in Europa per quanto riguarda l’immigrazione, il governo ha fatto del decreto ong una bandiera alla quale a tutti i costi non intende rinunciare, un risultato

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GERMANIA. Il candidato sindaco dei democristiani al 28,2%, ma a vincere è l’astensione crollata al 63%

La Cdu sfonda a Berlino nella replica del voto locale Un seggio a Berlino - Ap

Dopo un ventennio di dominio socialdemocratico i democristiani conquistano il Rotes Rathaus, il municipio rosso di Berlino, anche se non riescono a far crollare i tre partiti della coalizione rosso-rosso-verde che resta la prima di tre maggioranze possibili.
A vincere davvero, in modo netto, è stata invece l’astensione come certifica la partecipazione passata dal 75% del 2021 al 63%, mentre fra i perdenti al primo posto ci sono i liberali dimezzati dalle urne ed esclusi dal Parlamento. Proprio il loro flop fa mancare alla Cdu la stampella imprescindibile per sconfiggere il fronte social-ambientalista.

Infatti lo spitzkandidat cristiano-democratico, Kai Wegner, celebra lo storico 28,2% incassato dal suo partito (+10,2% rispetto all’anno scorso) ma fa sapere di voler intavolare già da oggi le trattative per il futuro governo sia con i Verdi che con la Spd, arrivati secondi a pari merito. Appena 105 voti separano il 18,4% raccolto dalla sindaca Spd Franziska Giffey (-3%) dal 18,4% incassato dalla leader dei Verdi, Bettina Jarasch (-0,5%).
«IL MANDATO ESPLORATIVO spetta alla Cdu» rivendica Wegner, supportato dal segretario dell’Union, Friedrich Merz, pronto a usare la ripetizione del voto locale per scardinare il Bundestag. «Spd, Verdi e Linke possono avere ancora la maggioranza matematica, ma quella politica se la sono giocata con il voto di domenica» è la frecciata al cancelliere Scholz. Si conferma invece il “voto-inutile” per Afd: nonostante la lieve crescita (+1,1%) l’estrema destra non supera il 9,1% e si mantiene dietro alla Linke (12,2%; -1,9%), diretto avversario nei quartieri operai di Berlino-Est.

«Abbiamo tenuto, nonostante il focus dei media concentrato solo su Spd, Verdi e Cdu. Ovviamente il risultato non è ciò che volevamo» sintetizza il leader della Sinistra, Klaus Lederer, rilanciando l’alleanza con Spd e Verdi: «Abbiamo ancora la maggioranza dei seggi. Siamo pronti ai colloqui per rifare il governo».
PER LA CO-SEGRETARIA nazionale Janine Wissler l’esito delle urne è in ogni caso un buon segnale. «Dimostra che un partito di sinistra, quando pone l’attenzione sul problema degli alloggi accessibili e del carovita riesce a convincere molte persone. La Linke ha fatto bene a mettere in primo piano la questione abitativa con il sostegno al referendum sull’esproprio delle grandi società immobiliari».

Esattamente il mancato esproprio è stato il punto dolente di Giffey che ha rimandato la questione alle calende greche. «I berlinesi hanno fatto sapere di non essere soddisfatti del mio governo» ammette la borgomastra Spd costretta, come prevede la liturgia post-elettorale, a sondare comunque il terreno per un’eventuale Grosse Koalition con la Cdu.

È la seconda alternativa teorica prima dell’asse nero-verde fra Cdu e Grünen, a imitazione del modello Baden-Württemberg, di cui da oggi discuteranno Wegner e Jarasch (dopo che quest’ultima ha ricevuto il via libera dal partito) nonostante i Verdi preferiscano l’alleanza con Spd e Linke.

Ma conta anche l’aritmetica dei programmi politici: «Come faranno Verdi e Cdu a stare insieme?» chiede polemicamente Giffey alla luce dell’opposta posizione sulla mobilità, per i primi pubblica e sostenibile, per i secondi privata e con motore termico. Il ragionamento vale per tutti esclusa la Linke: la geometria cambia di fronte all’elettorato mobile.
VALE LA PENA analizzare il flusso di voti dietro al boom della Cdu al pari della provenienza geografica del consenso. I quartieri fuori dal “Ring” di binari della metropolitana hanno scelto i democristiani segnalando come la città al di là di ciò che viene considerato il centro fosse un’altra realtà rispetto alla «Berlino Inclusiva» decantata da Giffey.

NON È BASTATO dare il voto ai 16enni né estendere il diritto agli stranieri per costruire la partecipazione della «città di tutti». Non significa solo i rioni disagiati ma anche le ricche periferie dell’Ovest egualmente distanti e distinte dal Municipio Rosso.
Oltre 52.000 berlinesi che nel 2021 avevano votato Spd hanno scelto la Cdu, così come 29.000 ex elettori dei liberali, 14.000 dei Verdi, 10.000 della Linke e 5.000 di Afd.

Pesca a strascico, eccetto per la riserva degli astensionisti. Perfino sul successo dell’Union pesano ben 23.000 suoi simpatizzanti che domenica sono rimasti a casa.

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