«Ci servono 300 tank tedeschi, non dieci o venti». L’Ucraina reclama i Leopard, in Germania un ministro dice sì e un altro forse, Polonia e paesi baltici intanto spediranno i loro, quasi come una sub-Nato. E il russo Lavrov avverte: la guerra con l’Occidente è quasi realtà
ARMI . La ministra degli esteri tedesca apre, quello alla difesa chiude, Varsavia spinge
Olaf Scholz e Mateusz Morawiecki - Ap
Prove di coesione in corso tra i paesi Ue sulla fornitura di carri armati Leopard 2 all’Ucraina. Non sarà facile dopo il ni della Germania e la fumata nera di venerdì scorso al summit di Ramstein. A quanto pare Berlino sperava che l’amministrazione Biden mostrasse di voler fare il suo mettendo a disposizione di Kiev i propri M1 Abrams. Secondo una notizia data dalla Reuters e riportata dalla Süddeutsche Zeitung, a Washington avrebbe dato fastidio il tentativo fatto dai tedeschi di imporre un contributo in carri armati agli Stati Uniti da dispiegare sul fronte ucraino.
DA QUI ANCHE la scelta di rinviare una decisione «che non dovrà essere presa in modo affrettato», come suggerito dal ministro della difesa tedesco, Boris Pistorius, interpellato ieri sull’argomento dalla tv pubblica tedesca Ard. Si tratta di un chiaro invito alla prudenza: «Il Leopard è un mezzo armato pesante che può essere utilizzato anche a scopo offensivo. Bisogna riflettere con molta attenzione prima di decidere di
Leggi tutto: La Polonia e il “patto baltico”: manderemo i nostri Leopard - di Giuseppe Sedia
Commenta (0 Commenti)CRISI UCRAINA. I servizi segreti tedeschi: perdite ucraine «a tre cifre». Bundeswehr senza risorse. In Germania frenano anche i sondaggi, per il 41% la armi inviate vanno bene così, il 26% vuole ridurle
Soldati ucraini fanno fuoco vicino a Bakhmut - Ap
Il giorno dopo il vertice di Ramstein emerge il rapporto riservato trasmesso dai servizi segreti federali ai deputati della commissione sicurezza del Bundestag.
Alla luce delle informazioni raccolte sul campo il Bundesnachrichtendiesnt (Bnd), l’agenzia di intelligence esterna, riassume così la situazione militare sul fronte del Donbass: «Le perdite quotidiane dei soldati ucraini nella battaglia in difesa di Bakhmut si aggirano su numeri a tre cifre» e l’eventuale «caduta della città provocherebbe conseguenze estremamente negative per l’Ucraina, poiché permetterebbe ai russi di penetrare ulteriormente all’interno del Paese».
DUE SCENARI TATTICI da incubo all’attenzione di chi a Berlino deve decidere la strategia della Germania non solo sul caso Leopard. Per la prima volta vengono messi nero su bianco sull’informativa ufficiale di un servizio Nato, immune dall’accusa di disfattismo.
Nonostante i report sulla mutazione del conflitto da guerra di manovra a scontro di trincea non siano certo una novità assoluta: a dicembre la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen si era lasciata sfuggire la stima di 100mila militari ucraini caduti, non così distante dalla proiezione del capo di Stato maggiore della Difesa Usa.
Ma rimbombano a Berlino anche le parole di André Würstner, presidente dell’Associazione forze armate, tutt’altro che anti-atlantista, invitato a parlare di Leopard nel più popolare talk-show della tv pubblica. «La Bundeswehr è nuda. Ci aspettiamo una drastica riduzione di armi fino al 2025 a causa della crisi energetica. Ma quale invio di carri armati a un altro Paese possiamo mai fare?» è il plateale sfogo della “voce” dell’ambiente militare tedesco.
Mentre il segretario generale Spd, Kevin Kühnert, chiede «più artiglieria agli ucraini» prima di ammettere che «i Leopard non saranno comunque le “Wunderwaffen” che permetteranno di vincere la guerra».
SEMBRANO INTUIRLO i tedeschi fotografati nell’ultima rilevazione dell’istituto “Infrastest-Dimap” che restituisce l’opinione pubblica a dieci mesi dall’invasione russa.
Soltanto il 41% dei cittadini approva le attuali consegne di armi all’Ucraina, mentre il 26% chiede addirittura di ridurre gli stock. Fa il paio con il 58% che non crede alla fine della guerra entro il 2023, contrapposto al 23% convinto invece della pace più o meno imminente.
Secondo il 52%, gli sforzi diplomatici del governo Scholz non si stanno rilevando sufficienti per fermare il conflitto, per il 34% vanno bene così, ma appena il 4% chiede di ridurli per lasciare posto allo scontro frontale.
Infine, oltre un terzo dei tedeschi resta dubbioso sull’efficacia delle sanzioni, con il 19% che le considera troppo severe.
Non esattamente un paese pronto a rispondere all’appello di Ramstein. Proprio come lo Stato che prova a districarsi su due piani.
Da una parte, l’impedimento strettamente tecnico del revamping dei Leopard ex Bundeswehr, ribadito dal costruttore Rheinmetall che stima tempi lunghissimi la consegna; dall’altra, lo stop tutto politico su chi deve mettere per primo i cingoli sul terreno, che investe direttamente gli Abrams, i tank degli Usa che secondo la Germania devono essere spediti in Ucraina come minimo insieme ai Leopard.
DOMANI LA BUNDESWEHR trasferirà le prime due delle tre batterie antiaeree Patriot, da Rostock a Zamość (Polonia) con l’obiettivo di proteggere lo spazio aereo del sud-est del Paese e rafforzare il fianco Est della Nato. Da lì il confine ucraino dista solo 60 chilometri e la capitale regionale di Lviv appena 110.
Secondo le indiscrezioni dello “Spiegel” i Patriot tedeschi andranno a proteggere un importante stazione di trasbordo dei convogli di armi all’Ucraina
L’assemblea Pd approva il nuovo manifesto dei valori e accoglie il rientro di Speranza. Il nuovo testo vira a sinistra e piace a Schlein. Gelo di Bonaccini: «Sbagliato ignorare le imprese». L’addio senza rancori di Letta: «Non ho abbandonato la nave nella tempesta»
SPARTITI. Approvato il manifesto dei valori più di sinistra. Il nuovo testo critico sul neoliberismo piace a Schlein, Orlando e Speranza. Che sigilla il rientro di Art.1. Il governatore: «Quello del 2008 è attuale»
Stefano Bonaccini, Paola De Micheli, Gianni Cuperlo, Elly Schlein all’Assemblea nazionale costituente del Partito democratico - Roberto Monaldo / LaPresse
Stefano Bonaccini parla per ultimo, dopo quasi sei ore di assemblea del Pd: «Oggi non ho mai sentito risuonare la parola impresa. Per me è inconcepibile per una forza progressista e riformista perché senza impresa non c’è lavoro». E ancora: «Mai più discussioni incomprensibili tra noi sulle regole del congresso». La costituente? «Quella la faremo dopo le primarie, provando a capire come parliamo al paese per farci comprendere in 30 secondi». Il nuovo manifesto dei valori? «A me quello del 2007 pare ancora attuale». C’è n’è anche per Speranza e quelli di Articolo 1, che proprio ieri hanno festeggiato il rientro
Leggi tutto: A battesimo il nuovo Pd. Ma Bonaccini lo smonta subito - di Andrea Carugati, Roma
Commenta (0 Commenti)PARIGI. Manifestazioni in tutto il Paese, «Siamo più di due milioni» dice Philippe Martinez (Cgt)
Una manifestante durante la protesta contro il governo francese - Ap
Corteo impressionante da République a Nation passando per Bastille, ieri pomeriggio, i manifestanti sono rimasti bloccati per ore nella piazza di partenza, non riuscivano a passare nel boulevard Beaumarchais, altri cortei si sono così formati nelle strade vicine, poi convogliati in una seconda marcia parallela. Una prova di forza enorme nella capitale contro la riforma delle pensioni – 400mila secondo la Cgt (80mila per la Prefettura) – che ha fatto seguito a manifestazioni molto consistenti nelle città di provincia, più di 200 cortei in tutto il paese, 50mila a Nantes e Bordeaux, 40mila a Lione, a Marsiglia tra 146mila (dati Cgt) e 26mila (Prefettura), migliaia in una miriade di centri più piccoli. Scioperi partecipati nei trasporti, nel settore energia, nelle scuole, nella funzione pubblica.
I sindacati, tutti uniti, seguiti dall’opposizione di sinistra, hanno vinto la prima battaglia contro il governo: più di 2 milioni di persone per la Cgt, un record, anche se in serata c’è stata la solita battaglia delle cifre con i dati ufficiali (1,12 milioni). Cortei più fitti di quelli che nel 2019 si erano opposti alla prima stesura della riforma delle pensioni, un sistema a punti poi ritirato causa Covid.
LA LOTTA CONTRO la riforma delle pensioni, che per i cittadini si riassume nell’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, nella prima giornata di protesta si è subito trasformata nel catalizzatore di tutto quello che non funziona e preoccupa in questo momento difficile: il carovita, con l’inflazione che mangia i salari che non aumentano, le condizioni del lavoro, sempre più stressanti in molte attività, la tensione dei lunghi mesi del Covid, la paura del futuro con la guerra in Europa e la mancanza di visibilità sugli anni a venire. Di qui la forte presenza di giovani nei cortei, per esprimere un dissenso che va ben al di là delle pensioni. La situazione sociale può essere esplosiva. I gilet gialli sono tornati nei cortei, la benzina oggi è molto più cara di quanto lo fosse nel 2018, quando il prezzo del carburante era stata la scintilla che aveva fatto divampare il fuoco della protesta.
Macron, ieri a Barcellona con una decina di ministri per firmare il Trattato Francia-Spagna (simile a quello dell’Eliseo con la Germania e del Quirinale con l’Italia), era presente come bersaglio nei cortei, raffigurato come Napoleone o un console romano. La preoccupazione domina, gli slogan hanno un fondo tragico: «Pensione/Miseria/cimitero», l’allegra invenzione del Maggio ’68 – «Sous les pavés, la plage» (sotto i pavé, la spiaggia) – è diventato «sous les pavés, la rage» (la rabbia).
Parigi punta a 3 anni in meno della Fornero e resta al retributivo
«La riforma delle pensioni canalizza tutti gli scontenti» ha commentato il segretario della Cgt, Philippe Martinez. Laurent Berger, alla testa della Cfdt riformista (che aveva accompagnato altre riforme precedenti delle pensioni) si è rallegrato della partecipazione, «al di là di quanto pensavamo». I sindacati pensano al seguito: la prossima giornata di protesta sarà il 31 gennaio. Domani scende in piazza la France Insoumise con le organizzazioni dei giovani a Parigi, per la “marcia” di protesta. Il leader Jean-Luc Mélenchon, che ieri mattina era al corteo di Marsiglia, ritiene che con la giornata di ieri è «già una battaglia persa per il governo». Sullo sfondo, c’è una rivalità strisciante tra sindacati e France Insoumise, le altre componenti della Nupes (Verdi, Pcf, Ps) non aderiscono ufficialmente alla marcia di sabato (anche se ci saranno esponenti a titolo individuale), per non camminare sui piedi dei sindacati.
PER IL GOVERNO, l’obiettivo è evitare il blocco del paese. A rischio le forniture di carburanti e l’erogazione dell’energia, oltre ai trasporti. La tattica governativa da anni è sempre la stessa: lasciar “marcire” la protesta, aspettando un cambiamento di umore dell’opinione pubblica. Oggi, l’opinione pubblica è ampiamente dalla parte della protesta, contro la riforma.
Il governo ha perso questa manche, nessuno si entusiasma per le pensioni minime a 1.200 euro o per qualche miglioramento sul calcolo dei “trimestri” di contributi per lavori usuranti o congedi di maternità/paternità, visto che comunque si dovrà lavorare per 43 anni entro la fine della presidenza Macron. Ma l’unità sindacale può essere fratturata dall’emergenza di comitati di base ai margini delle grandi centrali, come è successo a Natale con i controllori dei treni: questo sciopero è stato molto impopolare e se si amplierà questo fenomeno c’è il rischio che l’opinione pubblica cambi posizione.
Francia, sul fine vita decidono i cittadini estratti a sorte
IERI, A PARIGI ci sono stati momenti di tensione nella manifestazione, la Prefettura non è riuscita a evitare qualche scontro, non ha funzionato la formazione di un corteo parallelo. C’è stata qualche decina di fermi, lacrimogeni, vetrine rotte. Il governo presenta il 23 gennaio in Consiglio dei ministri la nuova versione della riforma (20 articoli, 10 di più della prima stesura), poi lo scontro passa al Parlamento, il Rassemblement national promette battaglia all’Assemblée nationale, e non in piazza, e punta a incassare il merito dell’opposizione (aiutata dall’eventuale crescita della violenza nelle piazze).
Ma il governo per il momento tira dritto: ha i numeri per far passare la legge (con i voti, anche se non tutti, dei Républicains). Dalla Spagna, Macron, in difesa della riforma «giusta e responsabile», ha dichiarato: «Perché il patto tra generazioni sia rispettato, la riforma va fatta», l’argomento è l’equilibrio per il sistema per ripartizione, con oggi 1,7 lavoratori per un pensionato, una ratio che peggiorerà nel futuro. Per l’opposizione, ci sono altre strade, a cominciare dal far pagare i più ricchi
Commenta (0 Commenti)Si pagherà di più il pieno di benzina e diesel per la mancata conferma degli sconti sulle accise e ci sarà lo sciopero dei distributori, compresi i self service, di due giorni dal 24 al 26 gennaio. È l’esito delle prime tre settimane dell’anno per il governo Meloni. Prima si è fatto cogliere di sorpresa dalla risposta delle rappresentanze di categoria alle quali non è piaciuta l’idea di diventare il capro espiatorio di un aumento causato dalla decisione governativa di non rifinanziare lo sconto sui carburanti voluti da Draghi. Poi ha cercato di mettere una toppa ricevendo le rappresentanze in un tentativo di mediazione inutile visto che, poche ore dopo, ha varato il decreto che negava ogni possibilità di accordo. E infine ha dovuto incassare, di nuovo, una serrata nonostante un allentamento della stretta sulle multe ai benzinai. Questi ultimi si sono detti «profondamente delusi». «Il messaggio che rimane è che siamo una categoria da tenere sotto controllo perché speculiamo» ha detto il presidente nazionale di Figisc Confcommercio Bruno Bearzi.
Contro una «speculazione» che non è il problema principale, almeno non più del caos creato dal governo che ha cancellato gli sconti sulle accise, il dibattito resta confinato alla sanzione dei singoli distributori. Si ritiene cioè che esista solo un problema di trasparenza dei prezzi. E che sia tutta colpa dei singoli che vogliono truffare i clienti. Per questa ragione, oltre ai cartelloni dei prezzi ai distributori, è stata proposta un’App gratuita dove sarà possibile conoscere il prezzo medio regionale settimanale e, grazie alla geolocalizzazione, il prezzo praticato da ciascun distributore nelle vicinanze.
LO SCIOPERO È la dimostrazione dell’incapacità di prevedere le conseguenze di decisioni e di trovare una soluzione a un problema provocato a una platea che, in linea teorica, potrebbe essere più sensibile agli interessi di bottega elettorale. Un disastro, per le destre. Un momento politicamente interessante per chi si oppone. Ed è l’antipasto di ciò che aspetta il governo in primavera quando dovrà rinnovare i bonus per tamponare gli effetti del record inflazione. In Italia resta tra le più alte d’Europa. Nella legge di bilancio sono stati stanziati 21 miliardi di euro (su 35 complessivi). La discesa dei prezzi del gas fa sperare di bruciare meno risorse. Resta l’impressione che il governo sia strozzato dalla crisi. Lo confermano Faib Confesercenti, Fegica e Figisc-Anisa Confcommercio (dicono di rappresentare il 60-70% di circa 22 mila gestori). Per loro l’esecutivo sembra avere «le mani legate» e ha rimandato le decisioni al parlamento dov’è incardinato il decreto.
QUELLO DEI BENZINAI non sarà il primo sciopero contro il governo Meloni. Diversamente da quanto è girato ieri online, prontamente ripreso da dichiarazioni di politici particolarmente disattenti, il primo sciopero è stato quello dei sindacati di base del 2 dicembre, seguito da quello di Cgil e Uil il 16 dicembre. I temi delle mobilitazioni erano paragonabili: contro il caro vita, alzare i salari, ripensare il fisco. Questione del tutto rimossa in questi primi giorni dell’anno in cui simili questioni fondamentali sembrano tramontate a favore di un astratto straparlare di percentuali dell’inflazione.
LA RISTRETTEZZA delle risorse non permette di trovare una soluzione al problema dei prezzi, come ad esempio una riduzione dell’Iva sulle accise che potrebbe abbassare di almeno il 10 per cento il costo del carburante. Né si discute su misure per sostenere i salari. Il taglio del cuneo fiscale contenuto nella legge di bilancio porterà a più che modesti benefici per i dipendenti. Gli stessi che, in molti casi, hanno il contratto nazionale scaduto. E pagano la tassa più ingiusta, l’inflazione da profitti e non da salari, con le loro tasche
CONGRESSO DEM. Spariti i peana alla flessibilità del lavoro e al mercato globale. Ora lo Stato diventa «regolatore» e c’è la lotta alle diseguaglianze
Se nel 2008 il Pd nasceva festeggiando la «nuova epoca» della globalizzazione, e proponendosi di modernizzare l’Italia per sfruttare al meglio le grandi potenzialità del mercato globale, 15 anni dopo sembra aver cambiato idea. Oggi l’obiettivo è mettere in salvo gli italiani, soprattutto quelli più deboli e i lavoratori, dai cataclismi e dalle crisi che hanno sfregiato le società occidentali.
Questo il succo del nuovo manifesto dei valori, scritto in queste settimane dal comitato dei 100 saggi guidato da Enrico Letta e Roberto Speranza, che dovrebbe essere votato dall’assemblea costituente. Il condizionale è d’obbligo, perché Letta ieri sera era ancora impegnato a far digerire il nuovo testo a tutti e 4 i candidati (soprattutto a Bonaccini) , e il risultato potrebbe essere quello di un voto «salvo intese»: in sostanza il sì definitivo dovrebbe arrivare dalla nuova assemblea che sarà eletta alle primarie del 26 febbraio.
NELLA BOZZA, CHE ABBIAMO potuto visionare, le novità non mancano. Già dal preambolo, che si intitola «il filo rosso», formula che allora sarebbe parsa pericolosamente comunista. Se 15 anni fa l’obiettivo era un partito a vocazione maggioritaria che pensava se stesso «non in termini di rappresentanza parziale di segmenti sociali», ma come partito interclassista e della nazione, il nuovo manifesto impugna l’art.3 della Costituzione e dice che «disuguaglianze, povertà, discriminazioni e marginalità sociali sono il più grande impedimento a ogni forma di coinvolgimento collettivo e di emancipazione».
Se allora si salutava il «mercato aperto» come «essenziale per la crescita» e il ruolo dello Stato era solo «fissare le regole per il buon funzionamento del mercato» e «non interferire nelle attività economiche», oggi la mission cambia: e si parla di «nuove modalità di intervento pubblico», di uno «stato regolatore e innovatore in grado di far risaltare la capacità trasformativa delle imprese, correggendo ed evitando al tempo stesso i fallimenti di mercato».
NOVITÀ ANCHE SUL LAVORO: nel 2008 i dem sostenevano che «la velocità dei processi innovativi impone flessibilità e frequenti cambiamenti nel corso della vita lavorativa», vedendo dunque il precariato come un effetto collaterale inevitabile, nel 2023 si impegnano «a difendere sempre i diritti di chi lavora, a partire dal diritto a un salario minimo e a una retribuzione che permetta di vivere una vita libera e dignitosa, come sancito anche dall’articolo 36 della Costituzione».
Di qui la dichiarazione di lotta «contro precariato, sfruttamento, lavoro nero e lavoro svolto in condizioni non sicure». E ancora: c’è l’impegno a «valorizzare quelle forme di impresa che riconoscono il ruolo attivo e protagonista di lavoratrici e lavoratori, a partire dalla forma cooperativa». E l’obiettivo di «sviluppare forme di partecipazione di lavoratrici e lavoratori nella gestione delle imprese».
Numerosi i riferimenti alla lotta ai cambiamenti climatici e alla necessità di un «approccio integrato fondato sulle tre dimensioni della sostenibilità: economica, sociale e ambientale». Lo sguardo verso la globalizzazione è dunque cambiato: dalle potenzialità da sfruttare si è passati alla necessità di «proteggere i sistemi di welfare e i mercati del lavoro nazionali». E spunta l’ambizione a un «più deciso cambiamento del nostro modello di sviluppo», con uno stato in grado di «orientare la dinamica dei mercati, inclusi quelli finanziari, verso gli obiettivi di uno sviluppo sostenibile».
SPARISCE L’IMPIANTO ideologico che fu anche dell’Ulivo, che vedeva il Pd come perno del bipolarismo e della democrazia maggioritaria. E con esso l’ambizione di una grande riforma delle istituzioni: ora per i dem la Costituzione va applicata nei suoi aspetti sociali, non più cambiata nella forma di governo.
Anche la vocazione federalista svanisce a favore di un’Italia «indivisibile» e « uguale da nord a sud». Entrano con più forza temi come i diritti Lgbtqi+ e dei nuovi italiani, con il riconoscimento della cittadinanza e «politiche lungimiranti di accoglienza». Su scuola e sanità l’accento torna sul ruolo del «pubblico». E sparisce tutta la paccottiglia sul «merito», tema ormai fagocitato da Meloni.
LETTA SI DICE SODDISFATTO del lavoro svolto che ha seguito personalmente in una quindicina di incontri. E che considera in linea con il programma delle politiche che «abbiamo approvato all’unanimità». E auspica «un’ampia condivisione del testo». Ma i dubbi dell’ala liberal che si è riunita intorno a Bonaccini e non vorrebbe toccare «l’impianto del Lingotto» non mancano.
Soddisfatti anche quelli di Articolo 1: il coordinatore Arturo Scotto parla di «archiviazione dell’impianto neoliberista del centrosinistra degli anni 90». Di «risultato positivo» parla anche Gianni Cuperlo, che ieri ha presentato la sua mozione. «Sarebbe assolutamente ragionevole approvarlo sabato in assemblea»
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