VERSO LE PRIMARIE. Da Gori a Nardella. Alla convention di Bonaccini i rottamatori del 2013 si fingono nuovi. Spunta l’ex 5S Giarrusso e scoppia la polemica: «Prima ci chieda scusa»
Alla convention milanese di Stefano Bonaccini, in un «talent garden» a pochi passi da porta Romana, sembra di precipitare nel 2013. In un format che fa tanto Leopolda, decine di interventi da tre minuti a testa col gong finale (tanto che Irene Tinagli sbuffa: «sembra di essere alla corrida»), stacchetti musicali by Cesare Cremonini, tutta la prima fila del renzismo sfila per l’intera giornata per dire che «bisogna cambiare la classe dirigente».
Da Pina Picierno, vicesegretaria in pectore che fa la padrona di casa, a Simona Bonafè, Dario Nardella, Giorgio Gori, Simona Malpezzi, Debora Serracchiani, i renziani non pentiti si preparano a scalare il partito dietro i rayban fiammanti di Bonaccini, che fu uno dei primi sostenitori di Renzi. In prima fila Lorenzo Guerini, burattinaio nell’ombra di tutta l’operazione: da settimane non dice una parola sul congresso, la sua influenza è opposta alla sua visibilità.
MANCANO SOLO MATTEO e Maria Elena, col primo che da casa ironizza sui social sulla presenza in sala dell’ex grillino Dino Giarrusso, improvvisamente convertito sulla via di Bonaccini dopo essere passato dall’alleanza con Cateno De Luca in Sicilia, accolto dal gelo della platea e dalle proteste di Gori: «Siamo troppo inclusivi, serve un limite».
E Renzi fa finta di arrabbiarsi: «Giarrusso? Finalmente smetteranno di dire che Bonaccini è renziano, sono felice per lui». Il fiorentino in realtà è un po’ arrabbiato perché l’amico Stefano, venerdì davanti ai cancelli di Mirafiori, ha osato dire che «intervenire sull’articolo 18 è stato un errore» e che «è tempo di superare il Jobs Act».
PICCOLI BUFFETTI, CHE NON scalfiscono la sostanziale identità delle piattaforme, all’insegna di quel «riformismo» che si limite a evocare genericamente la «lotta alle diseguaglianze», senza mettere in discussione le scelte di questi 15 anni. A partire dalla vocazione maggioritaria e dall’equidistanza tra lavoratori e imprenditori.
E così spunta Gori che grida «ricchezza, ricchezza», e non si capisce se sia un dato autobiografico o un programma politico. Arriva l’assessore di Roma Alessandro Onorato (sembra uscito da una convention di Forza Italia), e scomoda a sproposito Giuseppe Di Vittorio per dire che «è necessaria la collaborazione tra lavoratori e imprenditori». E aggiunge: «Certo che vanno messe da parte le persone che hanno fallito, qualunque azienda lo farebbe».
Ancora Gori: «Nel nuovo manifesto del Pd non c’è la parola crescita, ma guardate che non è una parolaccia». Serracchiani si infervora: «Siamo partiti con una fase costituente e siamo arrivati a alla liquidazione del Pd, questo è inaccettabile». Poi una stilettata a Schlein: «L’idea che il primo che passa possa fare il leader non mi convince».
I DIECI ANNI PASSATI sembrano una fastidiosa polvere da mettere sotto il tappeto. Il cuore del dibattito è la selezione della classe dirigente: «Ho fatto uno studio: più i nostri parlamentari sono produttivi, meno sono rieleggibili, bisogna cambiare i criteri», dice Irene Tinagli. Il sindaco di Bari Antonio Decaro è ancora più duro: «In questi anni ho visto persone assolutamente incapaci che hanno fatto i ministri grazie alla corrente giusta. La gente ci vota nei comuni nonostante siamo del Pd. Stefano aiutaci a cambiare questo partito!».
E via sfuriate contro il «partito romano» contrapposto a sindaci e amministratori. «Non ne possiamo più, noi le elezioni le sappiamo vincere, governiamo il 70% dei comuni, ma nessuno è mai venuto a chiederci come si fa». Sarcastica la replica di Orlando: «Almeno ai tempi di Renzi la rottamazione era invocata da giovani. Adesso sono persone tra i 50 e i 60 anni, è abbastanza comico».
IL LEIT MOTIV DI FONDO è questo: «Sui territori sappiamo coniugare il sogno e i fatti concreti, noi abbiamo la semplicità di parlare alla gente al bar», dice Nardella. «Siamo il popolo di chi si rimbocca le maniche per parlare con la gente». Cercando qualcosa di progressista, si trovano scuola e sanità pubbliche, difese a oltranza, e anche la transizione ecologica che però non deve disturbare troppo la crescita.
SECCA LA RETROMARCIA sull’autonomia differenziata, che pure è uno dei talloni d’Achille di Bonaccini, tra i primi a proporla con i colleghi leghisti Zaia e Fontana. «La Lega vuole dividere l’Italia, questo paese deve essere ricucito», tuona Matteo Ricci. E Piero De Luca, responsabile mezzogiorno della mozione: «Il progetto di Calderoli è irricevibile».
A METÀ MATTINA SUL PALCO si materializza Dino Giarrusso, l’ex jena tv che ha lasciato da pochi mesi il M5S di Conte al grido di «è diventato lo zerbino del Pd». «Entro in punta di piedi, negli anni ho criticato la sinistra perché le voglio bene. Credo nel progetto di Bonaccini». E cita De Gregori: «Sempre dalla stessa parte mi troverai..».
La platea è sbalordita, parte qualche fischio. «Prima dovrebbe scusa», s’infuria Fassino. «Ci ha infangato fino a ieri», gli fa eco Paola De Micheli. Nardella prima dice che «se c’è una persona che ci ha attaccato per anni e poi viene qui, è una nostra vittoria. Noi non abbiamo cambiato idea e non portiamo rancore». Poi si corregge: «Guai se qualcuno volesse salire sul carro del vincitore».
Ovazione per Gori che invita a metterlo alla porta. Provenzano, sostenitore di Schlein, è gelido: «Forse Bonaccini è stato mal consigliato». Secca anche Schlein: «Ognuno sceglie la sua squadra». Calenda si dice «allibito»: «Un sincero ringraziamento da parte del terzo polo…». Oggi gran chiusura col governatore emiliano
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BENZINA SUL FUOCO. Nuovo colpo di scena nella farsa sul decreto «anti-speculazione». Per l'Antitrust non solo è inutile, ma peggiora la situazione e non è «trasparente». I cartelli che espongono il prezzo medio regionale dei carburanti inducono in confusione gli automobilisti e contribuiscono ad aumentare i prezzi
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni - LaPresse
Il governo Meloni è un pugile suonato. Al centro del ring continua a prendere sberle sul decreto «trasparenza» che avrebbe dovuto rimediare all’aumento dei prezzi dei carburanti provocato dalla sua decisione di rimuovere il bonus sulle accise nella legge di bilancio.
IERI, durante le audizioni alla commissione Attività produttiva della Camera il provvedimento è stato demolito dal presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Antitrust), Roberto Rustichelli. A finire nel mirino è stata una delle misure principali che, secondo l’esecutivo, avrebbe dovuto fermare la «speculazione» fatta dai benzinai: i cartelli che dovrebbero esporre il prezzo medio regionale dei carburanti. La trovata è inutile, indurrebbe in confusione gli automobilisti, è tutt’altro che «trasparente» e contribuisce ad aumentare ancora di più i prezzi.
PREOCCUPATI di rilanciare la palla avvelenata nel campo del governo Assopetroli e Unione Energie per la Mobilità (Unem) la pensano allo stesso modo . I petrolieri e i raffinatori sostengono che gli aumenti dei carburanti «sono contenuti nell’ambito dell’aumento dell’accisa» ripristinata dal primo gennaio. Per l’Unione nazionale consumatori la pubblicazione del prezzo medio regionale sarebbe dannosa e avrebbe più senso «ritirare il decreto» perché la nuova formulazione è «annacquata», a cominciare dalle multe salate subito ritrattate ai benzinai che non espongono i famosi cartelli. L’associazione dei consumatori Adoc ha invece contestato l’Antitrust: non farebbe l’arbitro, ma giocherebbe con i petrolieri. Per eliminare questi dubbi teologici l’Antitrust ha annunciato un’«indagine conoscitiva» sulla filiera dei carburanti. In attesa dell’enigmatico responso resta il caos prodotto da chi, ignaro dei misteri gloriosi della «concorrenza» e dei suoi effetti sui prezzi, ha pensato di trovare un capro espiatorio nei benzinai da denunciare in diretta Tv.
MELONI & CO. hanno fatto una manovra diversiva. Accade non solo alle destre, ma anche alle sinistre neoliberali. Fanno di tutto per spostare l’attenzione dalla responsabilità del capitale. E dalle proprie. La «speculazione» avviene all’origine della rete, e non solo e non tanto a valle. È strutturale al mercato delle multinazionali interconnesso con quello finanziario. Non si riflette tanto nelle differenze dei prezzi in una zona, ma soprattutto sul differenziale fra il prezzo internazionale del petrolio ora in calo e il prezzo del carburante alla pompa che invece sta aumentando.
PER ANNI il differenziale è costato 14-15 centesimi in più ai «consumatori» a bordo delle quattro e delle due ruote. E, con la guerra russa in Ucraina ha fatto un balzo, attutito dal governo Draghi con i bonus pagati comunque dai contribuenti. E non è finita. Gli auto e moto-muniti sentiranno di più il costo della guerra, cioè la speculazione, dal 5 febbraio, quando entrerà in vigore le sanzioni al gas russo.
IL GOVERNO potrebbe avere due strade chiuse da percorrere, cercando di evitare di schiantarsi. La prima è cercare i fondi dal bilancio per tornare a pagare gli sconti sulla benzina e il diesel (variante Draghi), ma ha già detto di non avere trovato soldi a sufficienza nel fondo-cassa lasciato dall’ex banchiere. Inoltre, il nuovo ciclo dell’austerità impedirebbe di fare extra-deficit. Oppure potrà ingegnarsi a cercare altri capri espiatori. Dopo i benzinai potrebbe pensare agli alieni. Del resto la pubblica opinione, che un tempo si diceva votasse con il portafoglio, oggi sembra addormentata sugli altari dei feticci «identitari» e paccottiglia varia. Aspettarsi da questa politica una critica dell’economia capitalistica è francamente grottesco. Ma il senso del ridicolo potrebbe aiutare a non esagerare dal prenderla troppo sul serio
Commenta (0 Commenti)Ricorso contro il 41bis, la Cassazione anticipa l’udienza al 7 marzo. Il medico: «Non basta». Mauro Palma: «La tutela della salute di chi è nella disponibilità dello Stato, in quanto privato della libertà personale, è responsabilità della Amministrazione che lo ha in carico»
Dopo l’appello lanciato dalla dottoressa Angelica Milia sulla gravità delle condizioni di salute cui è ormai giunto il suo paziente, l’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame dal 20 ottobre come forma di protesta contro il regime di 41bis con il quale è recluso nel carcere di Bancali, a Sassari, ieri la Cassazione ha anticipato dal 20 aprile al 7 marzo l’udienza nella quale tratterà il ricorso contro il carcere duro disposto nei confronti del detenuto per altri tre anni e quattro mesi. Il ricorso ai giudici del Palazzaccio è stato presentato dall’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini dopo che il Tribunale di Sorveglianza di Roma aveva rigettato la richiesta di revoca del 41bis imposto otto mesi fa dall’allora ministra Cartabia perché l’uomo è stato giudicato ancora un ideologo del Fai, l’organizzazione anarchica in nome della quale nel 2012 Cospito gambizzò l’Ad di Ansaldo, Roberto Adinolfi, e nel 2006, insieme alla sua compagna Anna Beniamino, piazzò un ordigno davanti alla caserma allievi carabinieri di Fossano senza produrre vittime. Recentemente il legale ha depositato una nuova istanza al Guardasigilli Nordio sulla base di «nuovi fatti emersi dalla sentenza di assoluzione della Corte d’Assise di Roma sulla cosiddetta operazione Bialystok» riguardante una cellula eversiva anarco-insurrezionalista e i presunti (ma dichiarati inesistenti dai giudici) legami fattuali con il detenuto Cospito.
«UN FATTO POSITIVO – ha commentato Milia, la dottoressa che lo tiene in cura – ma si tratta di aspettare ancora 30 giorni, e nelle condizioni di Cospito può succedere di tutto. Stiamo camminando sul filo del rasoio e si può cadere da un minuto all’altro». Per questo, rompendo il riserbo con il quale il Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà ha trattato questa vicenda fin dall’inizio, pur visitando Cospito in carcere in questi mesi, Mauro Palma è intervenuto ieri pubblicamente per chiedere che l’uomo venga «trasferito con urgenza in una struttura in grado di garantire un immediato intervento di carattere sanitario in caso di situazioni di acuzie, rischio peraltro elevato dato il forte stress a cui è sottoposto da mesi il suo organismo».
IL CARCERE DI SASSARI infatti, spiega Palma, «non è dotato di un centro clinico interno e nel territorio limitrofo non vi sono strutture sanitarie in grado di assicurare eventuali interventi urgenti con la dovuta sicurezza». Il Garante, inoltre, «ricorda che la tutela della salute di chi è nella disponibilità dello Stato, in quanto privato della libertà personale, è responsabilità dell’Amministrazione che lo ha in carico e ritiene che un trasferimento di Alfredo Cospito non sia più procrastinabile». Infine Palma auspica «che – nel pieno rispetto delle Istituzioni che si stanno occupando della vicenda – si giunga in tempi rapidi a una soluzione che permetta che sia posto fine allo sciopero della fame che prosegue ormai ininterrotto da cento giorni».
TRA I TANTI APPELLI che in questi giorni si levano in favore dell’anarchico da ogni parte politica – perfino dall’ex leader di Forza Nuova Giuliano Castellino, fondatore di Italia Libera – c’è chi come Luigi Manconi dalle colonne de La Stampa si rivolge direttamente a Papa Francesco per chiedergli di dedicare con umana compassione «una sua parola», «utile affinché la vicenda di quest’uomo, oggi ridotto alla “nuda vita”, non cada nell’oblio». Mentre i capogruppo di Senato e Camera dell’Alleanza Verdi e Sinistra, Peppe De Cristofaro e Luana Zanella, avvertono: «È in gioco non solo la vita di una persona, di per sé importantissima, ma l’umanità e la forza delle istituzioni e del Paese». E Carlo Calenda, leader di Azione: «Il 41 bis è un carcere particolarmente duro e questo signore, anche se ha commesso atti gravi, non ha nulla a che vedere con quel regime carcerario ed è malato, va trasferito».
PIÙ ATTENTI AL MESSAGGIO politico e meno all’aspetto umanitario, alcuni attivisti hanno manifestato ieri pomeriggio davanti al ministero di Giustizia per supportare la lotta nonviolenta di Cospito e dire che «41 bis e ergastolo sono torture di Stato»
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Tra le macerie di una casa fatta saltare in aria ieri dall’esercito israeliano a Jenin - Ap/Ayman Nobani
Erano passate da poco le 7 ieri mattina quando un autocarro per il trasporto del latte è entrato lentamente nel campo profughi di Jenin che cominciava a svegliarsi. Dal veicolo sono scesi dei soldati di unità scelte israeliane e hanno messo sotto assedio una casa.
In pochi attimi, tra lo sbigottimento dei passanti, sono sopraggiunti altri militari, a decine, a bordo di jeep corazzate. Uno spiegamento di forze enorme per catturare o eliminare i fratelli Mohammad e Nureddin Ghneim e un terzo membro del Jihad Islami. Colti di sorpresa, i tre all’intimazione di arrendersi hanno risposto scegliendo di combattere fino alla morte.
LA LORO FINE è arrivata poco dopo. I militari hanno piazzato esplosivi nell’edificio contro il quale hanno anche sparato un razzo anticarro. In un comunicato diffuso dall’esercito su Twitter si afferma che l’operazione ha preso di mira una cellula del Jihad responsabile di attacchi armati e di aver progettato un attentato.
Ma quella che Israele descrive come «operazione» preventiva contro «una cellula di terroristi» è stata una strage, un bagno di sangue per i palestinesi di Jenin che hanno vissuto una giornata tra le più drammatiche degli ultimi anni.
Ore di morte e violenza che ha riportato alla memoria collettiva palestinese l’offensiva «Muraglia di Difesa» del 2002 quando l’esercito israeliano distrusse più della metà del campo profughi al termine di settimane di assedio costate le vita a decine di palestinesi (e a 15 soldati) nella città che, assieme a Nablus, è la roccaforte della militanza armata contro l’occupazione israeliana cominciata oltre 55 anni.
La reazione degli abitanti del campo è stata immediata. I primi ad affrontare in armi i soldati israeliani sono stati gli uomini del Battaglione Jenin, poi nelle strade decine di giovani con sassi e bottiglie. Sotto i colpi dei cecchini sono caduti altri cinque palestinesi: Abdullah al Ghul, Moatasem al Hassan, Wassim al Jass, Mohammed Sobh e Yassin Salahat.
Una donna di 61 anni, Magda Obaid, è stata colpita e uccisa da un proiettile nella sua abitazione. Altri 20 palestinesi sono stati feriti: quattro sono in condizioni critiche all’ospedale Ibn Sina di Jenin.
Lo stesso nosocomio sotto tiro con il fumo acre dei candelotti lacrimogeni che invadevano alcuni dei reparti. La ministra della sanità palestinese Mai al Kaileh ha denunciato: gli operatori della Mezzaluna rossa non sono stati in grado di evacuare i feriti perché i soldati israeliani hanno chiuso l’accesso al campo profughi e «sparato lacrimogeni contro il reparto pediatrico dell’ospedale».
UN ABITANTE del campo, Maher Natur, ha raccontato al manifesto: «Si sono vissute ore di terrore. Il sibilo dei proiettili era incessante. I nostri ragazzi dietro copertoni in fiamme hanno affrontato con le pietre i soldati». Prima del raid nel campo, ha aggiunto Maher, «(le forze israeliane) hanno interrotto l’elettricità, internet e la rete dei cellulari».
In quei momenti, sempre nel campo profughi, la famiglia al Sabbagh ha vissuto le stesse scene del 2002 quando la sua casa fu circondata e distrutta dall’esercito, che in quella occasione uccise Alaa al Sabbagh delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. Le ruspe militari ieri hanno distrutto la nuova abitazione. In serata le tv israeliane hanno mandato in onda i video girati dai soldati entrati a Jenin. Nei social sono diventati virali quelli postati dai palestinesi con i corpi insanguinati sull’asfalto.
A JENIN IN SERATA è stato annunciato il divieto di ingresso ai veicoli commerciali nel campo profughi. La strage di Jenin ha acceso un incendio che nei prossimi giorni potrebbe avvolgere i Territori palestinesi occupati. Ieri manifestazioni e raduni di protesta contro Israele hanno occupato i centri di città e villaggi palestinesi.
Scontri sono divampati a Ramallah, Nablus e a Ram, a nord di Gerusalemme, dove un giovane di 22 anni, Yusef Mohaisen, è stato ucciso da militari israeliani facendo salire a dieci il bilancio di morti in una sola giornata e a 29 quello dall’inizio dell’anno.
OGGI, SECONDO GIORNO di lutto nazionale proclamato dall’Autorità nazionale palestinese (Anp), si annunciano manifestazioni ovunque che potrebbero coinvolgere Gerusalemme e la Spianata delle moschee nel giorno delle preghiere del venerdì. Barbara Leaf, funzionaria del Dipartimento di Stato Usa per il Medio Oriente, ha definito le uccisioni di civili a Jenin «deplorevoli». Ha poi aggiunto che Washington sta «raccogliendo ulteriori informazioni sul raid».
Una condanna netta della strage è giunta dall’Egitto ma il Cairo, secondo media locali, allo stesso tempo preme su Jihad e soprattutto su Hamas affinché non si vada all’escalation minacciata da uno dei leader, Saleh Arouri.
«Sono estremamente allarmata dalla notizia della rinnovata violenza letale a Jenin – ha scritto su Twitter Francesca Albanese, relatrice Onu per i diritti umani nei Territori occupati – Mentre i fatti e le circostanze devono essere accertati, ricordo l’obbligo della potenza occupante di garantire che le persone civili siano sempre protette da ogni forma di violenza».
«Il coordinamento di sicurezza con Israele non esiste più da questo momento», ha annunciato ieri pomeriggio l’Autorità nazionale palestinese per bocca di Nabil Abu Rudeinah, portavoce del presidente Abu Mazen, raccogliendo il consenso della popolazione.
ANNUNCI SIMILI però sono stati fatti tante volte in passato senza trovare mai riscontro sul terreno. Il premier israeliano Netanyahu ha replicato sostenendo di «non puntare a una escalation. Ma le forze di sicurezza sono pronte ad affrontare ogni sviluppo sui vari fronti»
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Quattro prigionere, nel 1944, fecero esplodere un crematorio del campo di sterminio. Ricordiamo la forza e il coraggio di quella rivolta
L'ideologia nazista teorizzava la necessità di sterminare tutti gli ebrei, senza differenza di genere o di età. Alcuni campi di concentramento furono destinati appositamente alle donne: a Ravensbrück ne furono incarcerate più di 100 mila, ad Auschwitz II si trovavano principalmente prigioniere e una zona femminile era presente anche a Bergen-Belsen. Ma benché sia drammaticamente noto che anche le donne furono vittime della persecuzione e dello sterminio nazista, quello che molte e molti ignorano è la brutalità che fu loro riservata e che, in parte, derivava dalla possibilità a loro concessa di concepire e generare figli ebrei. Per questa stessa ragione, le donne ebree in gravidanza venivano quasi sempre destinate ai campi di sterminio, dove erano condotte prontamente nelle camere a gas: questo trattamento le obbligava a nascondere il loro stato, per non essere costrette ad abortire o per non essere uccise.
Leggi tutto: Le donne che fecero esplodere Auschwitz - di Lara Ghiglione
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IL CASO. Il ministro dell’Istruzione "e del merito" Giuseppe Valditara sonda il terreno sulle aziende in classe e la concorrenza tra i docenti. L’aumento dei salari? Un miraggio. Non occorre aspettare l’«autonomia differenziata» Basta dare un’altra spinta alla disgregazione attuale
Il ministro dell’Istruzione "e del merito" Giuseppe Valditara - Ansa
«Alla scuola pubblica mancano finanziamenti che potrebbero arrivare dal privato. E al nord il costo della vita è più alto: vanno trovate soluzioni per il personale scolastico di quei territori – dove è forte la mancanza di docenti – con i sindacati e le regioni». Lo ha detto Il ministro dell’«istruzione e del merito» Giuseppe Valditara, prima di ritrattare. Gabbie salariali? Ma quando mai. Fare entrare i privati nelle scuole? Mai detto. Bisogna abituarsi agli annunci del governo Meloni. È una tattica ed è quello che gli resta. Producono rumore mediatico, scandiscono le giornate all’inizio della settimana, durano il tempo del sottopancia in un talk show e non arrivano al week-end. Basta un «non l’ho mai detto così come dite voi» per ricominciare di nuovo, aprendo un altro file, la settimana successiva.
VALDITARA È UNO SPECIALISTA della materia. Sembra avere ricevuto la delega ai discorsi diffusi prematuramente, in maniera imprecisa o decontestualizzata, comunque ad arte attraverso discorsi improvvisati. O circolari ai docenti e agli studenti. Ricordiamo la rimozione del nazi-fascismo e il revisionismo storico sul comunismo prima, la pedagogia dell’umiliazione poi. Un altro esempio è la differenziazione degli stipendi per i docenti e il personale scolastico in base al costo della vita più alto al Nord che al Sud, oltre che al rendimento e alla funzione svolta, oppure il finanziamento della scuola da parte dei privati. Gli ultimi due annunci sono stati fatti mercoledì scorso.
TANTO RUMORE PER NULLA? Non proprio. Per due ragioni. La prima: queste uscite servono a saggiare le reazioni dell’opinione pubblica. A cominciare dagli oppositori. E a modulare l’ispirazione ideologica che guida l’azione del governo a seconda degli obiettivi. Nel caso di Valditara una solida impostazione conservatrice e reazionaria con il culto dell’impresa e del capitale. Elementi costitutivi delle nuove destre leghiste e post-fasciste, la sintesi di quello che è stato chiamato «neoliberalismo autoritario». Questa politica è marketing e la comunicazione veicola un posizionamento sul mercato elettorale.
GLI ANNUNCI di Valditara fanno parte di un progetto. Lui lo chiama «meritocrazia». Per ingraziarsi la divinità ha cambiato persino la dizione del suo ministero. Differenziare gli stipendi, in ciascuna scuola e non solo tra le regioni, significa valorizzare le «competenze», promuovere le «eccellenze», mettere in competizione gli «esperti» e i «non esperti». Pur di non aumentare i salari più bassi d’Europa si divide il mondo tra «meritevoli» e «non meritevoli».
QUESTA PERÒ non è una prerogativa solo del governo attuale. È l’uovo di colombo che rispunta da trent’anni. Prendiamo il contratto nazionale della scuola, peraltro non rifinanziato per il prossimo triennio. Valditara sostiene di non volerlo modificare. È sufficiente cambiarlo dall’interno, agevolando la politica attuale. Lo ha fatto Patrizio Bianchi, ex ministro del Pd nel governo Draghi. Ricordiamo il suo maldestro tentativo di creare i «docenti esperti»: nozione inventata per differenziare gli stipendi, in base sia al «merito» che all’autonomia di ogni scuola. In questa scia si inserisce anche un’altra proposta di Valditara sul «docente tutor»: «Saranno formati e pagati di più». La tentazione che attraversa la destra e la sinistra neoliberale è nata dallo stesso ceppo: l’«autonomia» scolastica di vent’anni fa ha incubato il processo di trasformazione della scuola in un «quasi mercato». La scuola è un laboratorio. Ciò che viene sperimentato qui vale per tutto il pubblico impiego. E non solo, evidentemente.
IN QUESTA CORNICE si spiegano le velleità di Valditara sui «professionisti aziendali» in classe, sulle «sponsorizzazioni», sulle «sinergie con il sistema produttivo». Sempre che esista un interesse imprenditoriale a partecipare alla vita di un istituto con la «società civile». Idee ricorrenti sin dai tempi di Luigi Berlinguer, smentite da anni. Cortine fumogene che nascondo l’elefante nella stanza. Invece di rifinanziare gli otto miliardi di euro tagliati da un governo Berlusconi nel 2008, in cui sono cresciuti i post-fascisti attuali, si cercano i soldi nelle imprese. Mentre i presidi dell’Anp chiedono di trasformare le scuole in fondazioni. Un altro modo per dividere le regioni, e gli istituti, «ricchi» da quelli «poveri».
NON OCCORRE aspettare la realizzazione del progetto leghista dell’«autonomia differenziata». Basta assecondare il processo di disgregazione, a cominciare da quello in corso nella scuola. Il paese è già a pezzi. Basta dargli un’altra spinta. Ancora uno sforzo
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