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IL CASO. Trattative sul "nuovo" patto di stabilità in Europa. Cresce lo scontro sulle "regole" nella crisi dell'inflazione e dei tassi di interesse alti delle banche centrali. Il ministro tedesco delle finanze, l'ordoliberale Lindner, ha ripreso la frusta di Wolfgang Schäuble e vuole che i paesi indebitati taglino un punto di Pil di debito pubblico. Brividi tra i neoliberali di destra italiani: per loro equivale a un taglio di 19 miliardi di euro all'anno. Tornerà l'austerità?

 Il ministro tedesco delle Finanze Christian Lindner - Ap

Gli entusiasmi della Commissione Europea, e del governo Meloni, sollevati dall’Ecofin di metà marzo su una bozza di massima del «nuovo» patto di stabilità che dovrebbe entrare in vigore a partire dal 2024, sono stati congelati ieri da un documento pubblicato sul quotidiano «Die Welt». Lo ha fatto pubblicare il liberale Christian Lindner, ministro tedesco delle Finanze, austeritario e ordoliberale esponente del variopinto esecutivo guidato dal socialdemocratico Scholz (nella foto). A suo avviso i paesi come l’Italia che devono tagliare ogni anno un punto di prodotto interno lordo (Pil), pari a 19 miliardi di euro. Un modo per avvicinare il debito pubblico record al 60% nel rapporto con il Pil.

Nelle tre paginette del documento informale è stato recapitato un avvertimento alla Commissione Ue, e al Commissario all’Economia, l’italiano Paolo Gentiloni, impegnato a cercare un’applicazione «politica» del testo sacro. Dalla procedura di Bruxelles per debito eccessivo un paese come l’Italia avrebbe all’incirca sette anni di tempo per rientrare. Per i tedeschi il rientro dev’essere automatico e annuale. Tutto questo in mancanza di politiche economiche comuni.
Torna d’attualità una favola moralistica. Gli ordoliberali tedeschi, i «falchi», contro i neoliberali dei cosiddetti «paesi cicala» «mediterranei», le «colombe». Dietro la finzione ornitologica c’è un’idea specifica di politica economica: la spesa deve crescere più lentamente del Pil che, tra l’altro tornerà ad essere dello zero virgola. Il modo di misurare questa «crescita» è ancora confuso: ad oggi si parla di «crescita potenziale», un parametro controverso che la Commissione Ue vorrebbe semplificare. Per Berlino la differenza tra crescita potenziale e quella della spesa primaria netta, escluse entrate una tantum, interessi o spese per disoccupazione, dovrà essere come minimo dell’1% per gli Stati più indebitati. Il saldo strutturale, cioè il saldo del bilancio pubblico senza entrate o uscite imputabili al ciclo economico «tra -0,5% e -1% del Pil».

Se ne riparla a fine mese in un Ecofin informale a Stoccolma. Lindner, sembra per motivi elettorali interni, indosserà i panni Wolfgang Schäuble, che una volta il premio Nobel dell’Economia Paul Krugman rappresentò nei panni di un pastore protestante con la frusta. Per il governo Meloni, molto affaticato dopo i primi sei mesi, il travestimento di Lindner è un altro pessimo segnale. C’è sempre uno più «sovranista» di te

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MORRA CINESE. Visita di Von der Leyen e Macron: «Riporti la Russia alla ragione» Il leader cinese: «Chiamerò Zelensky, ma al momento opportuno»

Morra cinese Vieni avanti Pechino, l’Europa chiede a Xi di premere su Putin von der Leyen arriva al Palazzo dell’Assemblea Nazionale dei Rappresentanti del Popolo - Ap

Tra Pechino e la Simi Valley c’è di mezzo l’oceano Pacifico. Ma in una giornata di diplomazia, discussioni e segnali incrociati, Cina e California non sembravano così lontane. Da una parte Xi Jinping che riceve Emmanuel Macron e Ursula Von der Leyen, per provare a intravedere una possibile soluzione politica della guerra in Ucraina. Dall’altra la presidente taiwanese Tsai Ing-wen che incontra lo speaker della camera Usa Kevin McCarthy, con qualcuno che teme l’apertura di una nuova crisi sullo Stretto di Taiwan.

IN REALTÀ, Pechino ha finora mostrato di volersi concentrare esclusivamente sul rilancio o meglio mantenimento dei rapporti con l’Unione europea. Xi ha riservato a Macron un’accoglienza da grandi occasioni:

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EDITORIA. Staffetta nel gruppo Romeo: Sansonetti guiderà il quotidiano di Gramsci. Gelo di Calenda

Dopo aver affondato l’Unità Renzi prende il timone del Riformista Matteo Renzi - Ansa

Matteo Renzi ha il triste primato di aver chiuso il quotidiano l’Unità due volte: la prima nel 2014, quando da neo segretario del Pd favorì la liquidazione della società editrice per costituirne una nuova di zecca in cui la fondazione del partito – Eyu – era socia di minoranza insieme al gruppo Pessina. La seconda nel 2017: quando l’Unità renziana tracollò a causa di una linea turboriformista sdraiata sul “caro leader”, lui battezzò una nuova testata di partito, Democratica, diretta da Andrea Romano, solo online e presto affondata.

Con questo brillante curriculum da editore, ora Renzi torna vicino al luogo del delitto. Ieri infatti l’editore Alfredo Romeo, che il 18 aprile riporterà l’ex organo del Pci in edicola, gli ha affidato la guida del Riformista. Mentre l’Unità sarà diretta da Piero Sansonetti che da alcuni anni dirige il Riformista. Che ieri ha aperto con un titolo a tutta pagina sul presunto «golpe» dei magistrati di Mani Pulite nel 1992. E il gioco di prestigio è servito. Alla faccia dei giornalisti e dei dipendenti dell’Unità (21 in totale), in cassa integrazione e poi disoccupazione dal 2017, che si sono visti sbattere la porta in faccia da Sansonetti: nessuno tornerà al lavoro all’Unità, il quotidiano sarà realizzato dall’attuale redazione del Riformista. Chi lavorerà al fianco di Renzi è ancora top secret. In particolare non si sa ancora chi sarà il direttore responsabile, visto che il leader di Iv non è giornalista e, come parlamentare con immunità, non può assumere quel ruolo.

Renzi, ieri in conferenza stampa con Sansonetti per lanciare il pacco doppio, si è immodestamente paragonato a Mattarella e Veltroni, che come lui furono direttori-parlamentari del Popolo e dell’Unità. E ha rassicurato i fans del terzo polo: «Non lascio, ma raddoppio, continuerò a fare il parlamentare, ma ci metto sopra un carico da novanta». Consapevole del flop del terzo polo (di cui ha ribadito di essere «leale collaboratore»), l’ex premier ha spiegato di guardare all’area più moderata del centrodestra, in primis Forza Italia, e a quella parte del Pd che «non si riconosce in Schlein». «Saremo voce di tutti i riformisti, anche del terzo polo. Fra i sovranisti e una sinistra radicale c’è una maggioranza silenziosa che quando è andata bene ha preso il 40%», ha spiegato. Alla domanda sul fatto che Romeo sia coimputato del padre Tiziano nel processo Consip, ha risposto: «Conosco Romeo come un galantuomo: quello che è accaduto con Consip è uno scandalo da parte di alcuni pezzi deviati delle istituzioni». L’editore ha detto che con i suoi due quotidiani «la sinistra italiana potrà avere nuovo ossigeno». Sansonetti ha ironizzato sul passaggio di testimone alla guida del Riformista: «Renzi mi ha fatto fuori, del resto l’altro giorno l’ho incontrato e mi ha detto “stai sereno”». E ha definito «geniale» la scelta di Romeo. «Al momento gli equilibri editoriali sono spostati a destra. Ora le cose cambiano».

La prima telefonata del neo direttore a Giorgia Meloni. Fnsi e cdr dell’Unità protestano: «Una mera speculazione editoriale». E ricordano le colpe di Renzi «nel periodo più buio per l’Unità». Il direttore del Corriere Luciano Fontana punge: «Mi stupisce che voglia fare tremila mestieri e non l’unico per cui è stato eletto dal popolo italiano». E Calenda mette subito le mani avanti: «Non sarà il nostro giornale»

 

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Prove «eclatanti» contro Licio Gelli e le formazioni neofasciste, nelle motivazioni della condanna di Bellini per la strage di Bologna. «All’attuazione della Strage contribuirono in modi non definiti, ma di cui vi è precisa ed eclatante prova nel documento Bologna, Licio Gelli e il vertice di una sorta di servizio segreto occulto che vede in D’Amato la figura di riferimento in ambito atlantico ed europeo»

2 agosto: «Destra e P2 nel progetto eversivo» Licio Gelli - Ansa

Lo spontaneismo armato è solo un’«ipocrisia»: «I gruppi terroristici erano a disposizione di chiunque riuscisse a dare loro una prospettiva politica». La strage di Bologna fu (lo sappiamo) «di natura politica», e «l’ipotesi sui “mandanti” non è un’esigenza di tipo logico-investigativo, ma un punto fermo». In particolare, poi: «Gli elementi di prova ravvisabili a carico di Paolo Bellini si palesano, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, come di gran lunga maggiori e più incisivi rispetto a quelli ravvisati a carico di altri soggetti che sono stati condannati per lo stesso fatto». E soprattutto sul ruolo della P2: «All’attuazione della Strage contribuirono in modi non definiti, ma di cui vi è precisa ed eclatante prova nel documento Bologna, Licio Gelli e il vertice di una sorta di servizio segreto occulto che vede in D’Amato la figura di riferimento in ambito atlantico ed europeo».

Sono solo alcuni dei passaggi più significativi delle motivazioni (1742 pagine), depositate ieri dalla Corte di Assise di Bologna, della sentenza di primo grado di condanna dell’ex militante di Avanguardia nazionale, Paolo Bellini (con la pena dell’ergastolo) e di Piergiorgio Segatel e Domenico Catracchia, per la strage del 2 agosto 1980, in ipotesi commessa in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, tutti deceduti.

«LE NUOVE FORMAZIONI neofasciste degli anni 1978-80 – scrive la Corte presieduta dal giudice Francesco Caruso – altro non erano che l’espressione e la continuazione del progetto eversivo sorto nella stagione precedente ed evidentemente mai sopito, con riferimenti politici peraltro diversi da quelli che avevano indirizzato il periodo della prima parte della strategia della tensione nel 1969-1974, ma con obiettivi che miravano pur sempre ad un rafforzamento autoritario dello Stato stretto nella morsa degli opposti terrorismi di destra e sinistra». In sostanza, secondo i giudici bolognesi, l’esistenza di mandanti non è «una generica indicazione concettuale, ma nomi e cognomi nei confronti dei quali il quadro indiziario e talmente corposo da giustificare l’assunzione di uno scenario politico, caratterizzato dalle attività e dai ruoli svolti nella politica internazionale da quelle figure, quale contesto operativo della Strage di Bologna».

IN QUESTO QUADRO, non si può parlare di «spontaneismo armato» dei gruppi terroristici come quello dei Nar, di cui facevano parte Fioravanti, Mambro, Ciavardini e Cavallini, condannati per la Strage del 2 agosto 1980, anche se non tutti i militanti neofascisti si resero conto di «ciò che avveniva alle loro spalle, nella segretezza delle relazioni con i servizi deviati o con elementi della massoneria, riservate probabilmente soltanto a coloro che occupavano posizioni di vertice».

EPPURE, scrivono i giudici, «anche un terrorista della nuova generazione come Fioravanti, nella sua smania di protagonismo, si avvicinò progressivamente ad elementi di spicco del neocostituito gruppo “Costruiamo l’Azione” come Paolo Signorelli e Fabio De Felice, i quali a loro volta erano strettamente legati ai servizi segreti e a Licio Gelli».

SU FIORAVANTI e sua moglie Francesca Mambro, la Corte d’Assise considera che non ci siano prove certe di un passaggio effettivo di denaro a favore degli esecutori materiali della strage della stazione di Bologna: «Se i silenzi, le contraddizioni e i repentini mutamenti di versione di Fioravanti e Mambro lasciano intendere che essi avessero sicuramente qualcosa da nascondere in relazione ai loro spostamenti nelle giornate del 30 e 31 luglio 1980 – e ciò avvalora la tesi della loro responsabilità per la strage – tuttavia, un simile contegno non può ritenersi sufficiente a provare anche la ricezione della predetta somma di denaro da parte dei terroristi, in ordine alla quale non consta la sussistenza di prove dirette». Resta tuttavia, «come dato indiziante grave, la considerazione che a partire da un certo momento nella loro difesa, Mambro e Fioravanti hanno cercato di trovare un modo per spostarsi lontano proprio nella giornata del 31 luglio, che è quella in cui ragionevolmente potrebbe essere stata loro consegnata una somma di denaro in contanti».

C’È POI IL CASO di tre tecnici della Polizia scientifica di Roma che hanno lavorato su un’intercettazione ambientale in cui il leader veneto di Ordine nuovo Carlo Maria Maggi affermava tra l’altro di essere sicuro del coinvolgimento di Mambro e Fioravanti nell’attentato, e che rischiano di essere indagati per «frode in processo penale» e falsa testimonianza

 

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Tutti si aspettavano i nazionalisti messianici, ma è arrivata prima la polizia israeliana. Notte di violenze a Gerusalemme: granate, lacrimogeni e manganelli dentro la moschea di al-Aqsa. 200 palestinesi feriti, 350 arrestati. Condanna globale, l’Onu: «Siamo scioccati»

GERUSALEMME. Duecento palestinesi feriti, 350 arrestati. La Spianata era piena di donne e bambini. Lo sgombero per permettere la visita dei nazionalisti. Condanna globale dall'Onu in giù

 Agenti israeliani arrestano una donna palestinese sulla Spianata delle Moschee - Mahmoud Illean/Ap

La versione di Benyamin Netanyahu è che, martedì notte, a Gerusalemme Est la polizia sarebbe stata costretta ad intervenire con pugno di ferro sulla Spianata di Al Aqsa per fare un favore ai palestinesi musulmani. Proprio così. Perché, ha detto ieri il premier israeliano respingendo le proteste arabe e internazionali che grandinavano su Israele, «estremisti islamici si sono barricati nella Moschea (di Al Aqsa)» dove «avevano rinchiuso fedeli musulmani e impedito ad altri fedeli di raggiungere la Moschea per pregare». E, ha concluso, «Israele opera per mantenere lo status quo e calmare gli animi sul Monte del Tempio», ossia la Spianata. Una versione che fa a pugni con i racconti dei testimoni, con i video e le foto dell’accaduto che girano nei social e anche con quanto riferito dal più autorevole dei giornali israeliani, Haaretz.

In un articolo dal titolo «Gli attivisti ebrei hanno alimentato le fiamme ma la polizia israeliana ha acceso l’incendio del Monte del Tempio», Nir Hasson, corrispondente del

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REPUBBLICHINI DI STATO. Il testo verrà discusso in aula, al Senato, il prossimo 12 aprile. La palla ora passa alla maggioranza

La mozione delle opposizioni sfida il governo: «Rispetti la verità storica e il 25 aprile» L'aula del Senato - La Presse

La mozione è stata proposta dal Pd ed è appoggiata da tutti i partiti di opposizione: ne sono firmatari i capigruppo al senato Boccia, Floridia, Paita, Unterberger, De Cristofaro. Invita il governo ad «adottare le iniziative necessarie affinché le commemorazioni delle date fondative della nostra storia antifascista si svolgano nel rispetto della verità storica». Il testo cita il discorso tenuto dalla senatrice Liliana Segre nel giorno di insediamento della legislatura. Richiama alcune giornate decisive: «Il 25 aprile, festa della Liberazione, il primo maggio, festa del lavoro, il 2 giugno, festa della Repubblica».

Si tratta di «date che scandiscono un patto tra le generazioni, tra memoria e futuro» E ci si augura che siano «oggetto di condivisione, di riflessione, di monito e di insegnamento non solo per i giovani, ma per tutti i cittadini, è necessario che le istituzioni in primis si adoperino per la trasmissione della conoscenza della storia».
La palla ora passa alla destra: la mozione è stata calendarizzata per il prossimo 12 aprile.

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