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MURO A MARE. Con un subemendamento al decreto Cutro in discussione al Senato Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia tentano il (quasi) colpo di spugna
 

Evitata fino all’ultimo dal governo per timore di uno scontro con il Quirinale, alla fine la stretta sulla protezione speciale è arrivata sotto forma di un subemendamento della maggioranza al decreto Cutro in discussione nella commissione Affari costituzionali del Senato. La proposta di modifica, firmata dai senatori Gasparri (Fi), Lisei (FdI) e Pirovano (Lega) cancella la convertibilità del permesso di soggiorno in permesso di lavoro non solo per chi si è visto riconoscere la forma di protezione introdotta nel 2020 dal governo Conte 2, ma anche per coloro che hanno ottenuto il permesso di rimanere in Italia per calamità naturali o per cure mediche. Con lo stesso subemendamento, inoltre, si limita il divieto di espellere persone affette da gravi patologie solo se queste non sono adeguatamente curabili nel paese di origine.

Almeno per il momento la Lega può cantare vittoria dopo aver visto i propri emendamenti ignorati dal governo. Del resto che per il Carroccio la battaglia fosse tutt’altro che finita lo aveva fatto capire fin da ieri mattina Nicola Molteni. «La protezione speciale ha creato problemi a tribunali e questure e verrà tolta con la conversione del decreto immigrazione. Daremo un giro di vite e verrà azzerata», aveva annunciato il sottosegretario leghista all’Interno.

Parole che in serata si sono trasformate nel subemendamento che suona però come una forzatura nei confronti dell’esecutivo. Interpretazione smentita da Marco Lisei. «Si tratta di una proposta di modifica corposa, alla quale abbiamo lavorato a più mani», spiega il senatore di Fratelli d’Italia che ricorda come l’abolizione della protezione speciale trovi d’accordo anche la premier Giorgia Meloni. E dalla maggioranza assicurano anche che le modifiche proposte tengono contro dei rilievi sollevati dal Quirinale nei giorni in cui il decreto è stato varato, dopo la tragedia di Cutro.

Bisogna vedere adesso cosa accadrà nei prossimi giorni. Lunedì la commissione Affari costituzionali tornerà a riunirsi con le opposizioni che hanno preparato 430 emendamenti, 250 dei quali del Pd, alle modifiche presentate giovedì dal governo. Resta però ancora in sospeso il parere dell’esecutivo sui 21 emendamenti del Carroccio, finora accantonati, e da ieri sera anche al subemedamnto della maggioranza. A questo punto è quasi scontato che la commissione interromperà i lavori e consenta al decreto di arrivare in aula senza relatore martedì 18, come del resto era previsto. Sarà lì che si capirà se l’iniziativa avrà l’avallo del governo e porterà a una drastica riduzione della protezione speciale.

La mossa della maggioranza è stata duramente criticata dalle opposizioni, con capogruppo dem in commissione Affari costituzionali Andrea Giorgis che parla di « scelta irresponsabile e dannosa per tutti». «Il principale effetto di una riduzione o, peggio, di una abrogazione della protezione speciale – prosegue Giorgis – sarebbe quello di aumentare il numero delle persone irregolari (con tutto ciò che comporta la condizione di irregolarità) e contemporaneamente il contenzioso, perché la protezione speciale gode di una copertura costituzionale (art 10) e internazionale (art 8 Cedu e art 18 Carta di Nizza).

«La maggioranza, succube della Lega, presenta emendamenti a quel decreto che stravolgono e aboliscono la protezione speciale», attacca anche il capogruppo dem in Senato, Francesco Boccia, per il quale quelle della maggioranza sono «scelte che nulla hanno a che fare con l’umanità ma sono figlie di una pericolosa demagogia».

«La maggioranza – afferma invece il segretario di +Europa, Riccardo magi – svela la volontà di colpire le vittime del traffico e di non dare protezione anche a chi rischia la propria sicurezza e la vita se dovesse essere espulso». Anche per Magi «eliminare la protezione speciale porterà ad aumentare il numero di irregolari, l’opposto di quello che servirebbe al nostro Paese»

 
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L'INCONTRO DI XI E IL PRESIDENTE BRASILIANO. Pochi risultati sull’Ucraina, molti sul fronte commerciale e della «dedollarizzazione» del mondo

 

Meno di 24 ore e profilo piuttosto basso negli Stati uniti. Oltre 72 ore, accoglienza con tutti gli onori e coreografia studiata nei minimi dettagli in Cina. I dettagli che fanno la differenza nelle visite di Lula a Washington e Pechino non sono poi così piccoli. Il presidente brasiliano ha rilanciato il ruolo globale del paese sudamericano dopo il protezionismo di Jair Bolsonaro, mentre Xi Jinping ha incassato l’esplicito sostegno di un pilastro di quel sud globale di cui si immagina guida. «Cina e Brasile sono i più grandi paesi in via di sviluppo e importanti mercati emergenti nei due emisferi», esordisce non a caso il comunicato finale in cinese dopo l’incontro tra i due leader. Prima del summit, il presidente brasiliano ha posto un mazzo di fiori ai piedi del monumento per gli eroi del popolo di piazza Tiananmen, per poi essere accolto dal leader cinese sul tappeto rosso di fronte alla Grande Sala del Popolo. Tutt’intorno, un picchetto d’onore con oltre 400 militari e una folla di bambini con bandierine dei due paesi. Sullo sfondo, gli inni nazionali e la celebre Novo Tempo di Ivan Lins, canzone del 1980 che prefigurava la fine della dittatura militare. Presenti anche le consorti, Rosangela Lula da Silva e Peng Liyuan.

L’INCONTRO ha subito avuto un tono confidenziale, con Lula che si è detto «commosso dello spettacolo dei bambini» e Xi che lo ha definito «un buon amico di lunga data». Il presidente brasiliano ha detto che i rapporti tra i due paesi vanno oltre la sfera commerciale e mirano anche a «cambiare la governance globale» e «bilanciare la geopolitica mondiale». Avviso ancora più esplicito: «Nessuno vieterà al Brasile di migliorare le sue relazioni con la Cina».
Pochi risultati sull’Ucraina. «Le due parti hanno convenuto che il dialogo e il negoziato sono l’unica via d’uscita praticabile per risolvere la crisi e che tutti gli sforzi per risolverla pacificamente dovrebbero essere incoraggiati e sostenuti», si legge nel comunicato finale. Nessuna menzione del «club della pace» ipotizzato da Lula e della sua proposta di ritiro russo dai nuovi territori invasi ma mantenimento della Crimea.

MOLTO PIÙ SPAZIO al fronte commerciale, con la firma di circa 20 accordi dal valore totale di circa 9 miliardi di euro in investimenti. Coinvolti agricoltura, allevamento, infrastrutture e lo sviluppo dei satelliti Cbers-6. Altro segnale significativo lanciato da Lula la visita a uno showroom di Huawei, il colosso tecnologico soggetto da tempo a dure restrizioni imposte da Washington ma ancora ben presente in America latina. Lula ha lodato i progressi dell’azienda sulle infrastrutture di rete 5G, uno dei settori più critici nel mirino della Casa bianca.
La manifestazione più concreta del rilancio del sodalizio arriva dalla finanza e in ambito Brics. A capo della Nuova banca di sviluppo del gruppo si è insediata Dilma Rousseff. A margine della cerimonia di Shanghai, Lula si è pronunciato di nuovo a favore della dedollarizzazione: «Ogni sera mi chiedo perché tutti i paesi debbano basare il loro commercio sul dollaro. Perché non possiamo commerciare in base alle nostre valute? Chi è stato a decidere che il dollaro fosse la valuta dopo la scomparsa dello standard aureo?».

LE STESSE COSE Lula le diceva anche nel 2010 a Brasilia, ospitando il summit dei Bric (doveva ancora entrare il Sudafrica), ma ora si stanno iniziando a fare passi concreti. A fine marzo, Brasile e Cina hanno raggiunto un accordo per il pagamento degli acquisti di beni con le rispettive monete nazionali. Lula ha poi criticato il Fondo monetario internazionale per i tagli alla spesa troppo severi. «Nessun leader può lavorare con un coltello alla gola perché il paese deve dei soldi», ha detto alludendo alla situazione dell’Argentina, che potrebbe presto entrare nei Brics insieme all’Iran.

MACRON è stato individuato dalla Cina come il suo «vero interlocutore» in Europa, unico in grado di promuovere una reale «autonomia strategica» della politica estera comunitaria, Lula viene invece identificato come il principale connettore con l’America latina. Non a caso il leader brasiliano ha rilanciato l’idea di un accordo di libero scambio tra la Repubblica popolare e il Mercosur. Di recente, Pechino ha avuto diverse soddisfazioni dalla regione. Oltre al rilancio dei rapporti col Brasile, ha avviato quelli con l’Honduras, che qualche settimana fa ha interrotto le relazioni diplomatiche con Taiwan. La stessa scelta potrebbe farla il Paraguay, nel caso di una vittoria di Efrain Alegre alle presidenziali del prossimo 30 aprile. Nel frattempo, Pechino estende la presa sulle miniere di litio in Bolivia, risorsa fondamentale per lo sviluppo delle auto elettriche di cui la Cina mira alla leadership globale. Non a caso, presto Byd potrebbe acquistare l’ex stabilimento di Ford a Bahia.

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FRANCIA. Il Consiglio Costituzionale approva nella sostanza la riforma delle pensioni e boccia il referendum. Il 1 maggio si annuncia bollente

Francia, la decisione dei «saggi» è una bomba sociale Ieri in corteo sotto L'Hotel de Ville - foto Ap

La riforma delle pensioni a 64 anni è approvata nella sostanza, mentre la domanda di referendum è respinta. È la sentenza del Consiglio Costituzionale, presieduto dall’ex primo ministro socialista Laurent Fabius.

La decisione dei saggi è una bomba sociale, come benzina per l’Atto II della protesta. Più di 130 manifestazioni erano in corso ieri pomeriggio in tutta la Francia, in attesa del Consiglio Costituzionale. Alla comunicazione della decisione, le piazze sono esplose, con alcuni scontri in serata in varie città e repressione della polizia.

Per il Rip (referendum di iniziativa condivisa, presentato dalla sinistra) resta aperto uno spiraglio: una seconda domanda di referendum è stata presentata giovedì, giuridicamente redatta meglio della prima, il Consiglio Costituzionale ha fatto sapere che la decisione sarà resa nota il 3 maggio prossimo.

«La lotta continua» ha reagito Jean-Luc Mélenchon della France Insoumise, il Consiglio Costituzionale «mostra che è più attento ai bisogni della monarchia presidenziale che a quelli del popolo sovrano». Mathilde Panot, presidente del gruppo all’Assemblée nationale, aggiunge che si tratta di «un precedente pericoloso». Per Marine Le Pen, «la sorte della riforma non è decisa» e ha promesso che una volta al potere l’abrogherà. Per Fabien Roussel del Pcf è «una sberla», adesso «siamo su un vulcano». Marine Tondelier, segretaria di Europa-Ecologia, parla di «impasse democratica», dopo la sentenza dei saggi «la riforma è legale ma più che mai illegittima». Per Olivier Faure segretario del Partito socialista, è «delusione, ma non resa», la battaglia continua, anche se la seconda domanda di Rip verrà respinta la sinistra pensa a una petizione con raccolta di firme per chiedere un referendum.

La prima ministra, Elisabeth Borne, ha reagito con un tweet: non ci sono «né vincitori né vinti», il testo di legge «arriva alla fine del processo democratico». Eric Ciotti, capo della destra dei Républicain, ha lanciato un appello ad accettare la sentenza. Macron dovrebbe promulgare la legge in tempi brevissimi. La Nupes ha chiesto ufficialmente ieri a Macron di ritirare una legge «cattiva, ingiusta, illegittima». «Uno scandalo, la crisi democratica si intensifica» afferma il sindacato dei liceali.

I SINDACATI, DELUSI dalla sentenza del Consiglio Costituzionale, anche se non avevano illusioni, preparano ora le manifestazioni del primo maggio, che saranno

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SETE D'ACQUA. In Pianura padana la situazione è drammatica spiega Bratti, segretario generale dell’Autorità distrettuale del Fiume Po

 Il ponte delle Barche sul fiume Ticino. Bereguardo (Pavia) - Ansa

«Non siamo di fronte a un terremoto, non dobbiamo affrontare oggi una situazione emergenziale sperando che la situazione si ripeta tra mille anni. Tutti gli scenari e i modelli che ho visto, anche in sede europea, ci dicono che questa situazione di temperature mediamente più alte e precipitazioni più scarse è una costante, se non altro destinata a peggiorare. Di fronte a tutto questo, esiste una strategia per la gestione della risorsa idrica? Al momento, a me non sembra», spiega al manifesto Alessandro Bratti, segretario generale dell’Autorità distrettuale del Fiume Po e vicepresidente dell’Agenzia europea per l’Ambiente. «Una strategia non c’è – ripete – e si fatica a capire che questa non è un’emergenza».

UNA SITUAZIONE che sta diventando normalità è quella fotografata nel bollettino diffuso ieri dall’Osservatorio sulle risorse idriche dell’Anbi, l’Associazione Nazionale Consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue: «Al rilevamento finale di Pontelagoscuro la portata del fiume Po è scesa a toccare 338,38 metri cubi al secondo, cioè oltre 100 mc/s in meno del minimo storico di aprile e ben al disotto dei 450 mc/s, considerati il limite sotto cui il fiume è inerme di fronte alla risalita del cuneo salino. Non solo: nel siccitosissimo 2022 questi dati vennero registrati il 4 giugno, vale a dire che il più importante corso d’acqua italiano vive una condizione di crisi idrica estrema, da monte a valle, con ben 40 giorni di anticipo sul drammatico anno scorso».

Il bollettino del Cnr di marzo certifica che il 35,3% delle aree agricole irrigue, negli scorsi 24 mesi, ha sofferto di siccità severa-estrema: inoltre, in Piemonte, Lombardia, Trentino ed Emilia, la combinazione «anomalia termica-deficit pluviometrico» ha raggiunto il livello massimo. Anche il Lago di Garda è ai minimi storici con un riempimento al 25,9% il 9 aprile.

L’altro ieri Bratti aveva lanciato un ulteriore allarme: «L’attuale prolungata condizione di siccità diffusa nel distretto del fiume Po rappresenta oggi la situazione di maggiore urgenza nel comprensorio padano, ma è fuori di dubbio che proprio gli stravolgimenti idro-meteo-climatici possono alternare a questi scenari anche possibili periodi in cui l’accumulo di risorsa idrica negli alvei del Grande Fiume e dei suoi 141 affluenti, a causa di precipitazioni copiose e improvvise, può mettere seriamente a repentaglio la sicurezza idraulica delle comunità rivierasche e dell’ambiente circostante».

Il 16% delle arginature del Grande Fiume sarebbe potenzialmente a rischio, in particolare nei comprensori di Pavia, Piacenza, Mantova, Ferrara e Rovigo. «Oggi pare che il tema non ci sia, ma basta che piova tanto in poco tempo, che ci troveremo ad affrontare, come un’emergenza, un altro problema, che è lì, nascosto dietro l’angolo anche se tutti fingono di dimenticarlo» sottolinea Bratti.

È COSÌ: IN AGENDA il tema dissesto idrogeologico è autunnale, mentre di siccità dovremmo parlare d’estate. Purtroppo, però, lo stiamo già facendo da alcuni anni a primavera e questo è di per sé indicativo degli effetti del cambiamento climatico.

BRATTI COMMENTA il decreto siccità da poco approvato dal governo che istituisce una cabina di regia, che fa capo al ministro delle infrastrutture Salvini. «Questa cabina di regia, da cui deriva anche la nomina di un commissario per contrastare gli effetti della siccità, è meglio di niente e può avere un senso per rendere più rapido lo sfangamento delle dighe o per completare qualche opera, ma questi interventi – posto che un anno e mezzo è davvero poco tempo – dovrebbero essere accompagnati dalla costruzione di una strategia che preveda una pianificazione sulla gestione della risorse idrica. È da studiare – spiega il segretario generale dell’Autorità distrettuale del Fiume Po, che è stato anche direttore generale dell’Ispra – ovviamente coinvolgendo il mondo agricolo, come attuare un vero risparmio idrico, favorendo l’utilizzo di tecnologie innovative ma anche capendo se ha senso proporre un modello sempre uguale o se serve iniziare a ragionare su colture diverse, meno idroesigenti».

Traduciamo: in Pianura Padana, nella valle assetata del fiume Po, ha ancora senso seminare mais per l’alimentazione animale, da destinare agli allevamenti intensivi? Che poi il problema non è solo del Po.

NEL NORD-EST, la situazione non è migliore, come rileva il bollettino mensile dell’Agenzia regionale veneta per l’ambiente (Arpav). Gli apporti meteorici mensili sul territorio regionale sono inferiori alla media (-43%) e sono stimabili in circa 683 milioni di metri cubi di acqua. Tra ottobre e marzo sono caduti sul Veneto mediamente 344 millimetri di precipitazioni, contro una media 1994-2022 di 513. Marzo è stato anche scarsamente nevoso: il deficit è stato di circa 100 centimetri a 2.000 metri, 60 a 1.600 e 30-40 nei fondovalle delle Dolomiti a 1.200 metri di quota.

La sommatoria di neve fresca dal primo ottobre al 31 marzo evidenzia un deficit del 40% circa, pari a 180 cm di neve a 2.000 metri, 130 cm a 1.600 m e 60-100 cm nei fondovalle. La risorsa idrica nivale è scarsa, simile all’inverno scorso, in calo da metà gennaio e pari a 82-88 millimetri cubi nel bacino del Piave, 57-68 nel Cordevole e a 56-54 nel Brenta. Rispetto alla media 2005-2022, nel Piave il deficit è del 64%.

È TEMPO DI RENDERE operativo il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. Pichetto Fratin lo ha pubblicato a dicembre 2022, dopo l’inazione di Roberto Cingolani, però il tempo per affrontare seriamente la questione è quasi scaduto, come hanno ricordato il mese scorso i ricercatori del Centro euromediterraneo dei cambiamenti climatici presentando l’ultimo rapporto Ipcc

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IL PRESIDENTE BRASILIANO IN VISITA. La sfida consiste nel rafforzare i legami con Pechino senza irritare troppo gli Usa: linea rossa, la guerra. Ma la sua proposta di pace è hià stata cestinata da Kiev. Domani vede Xi Jinping, oggi è a Shangai per l'insediamento di Dilma Rousseff alla guida della nuova banca di sviluppo dei paesi Brics

Commerci (senza dollari), tecnologie e questione ucraina per Lula in Cina Pechino, le bandiere di Cina e Brasile ieri sulla Città Proibita - Ap

È finalmente cominciata ieri l’avventura di Lula in Cina, dopo il rinvio a cui il presidente era stato obbligato a marzo per una broncopolmonite. Accompagnato da una quarantina di autorità tra ministri, governatori e parlamentari, a cui si aggiungono circa 300 imprenditori, Lula si aspetta moltissimo dalla visita – riprogrammata in tempi record – a quello che dal 2009 è il principale socio commerciale del Brasile.

ALMENO 20 GLI ACCORDI bilaterali, commerciali e tecnologici, che verranno firmati, tra cui la costruzione del Cbers-6, il sesto di una serie di satelliti realizzati in collaborazione tra i due paesi, che consentirà di monitorare la foresta amazzonica.

«La Cina è un partner oggi essenziale per il Brasile e per l’America Latina. Noi intendiamo consolidare questa relazione», ha dichiarato Lula prima della partenza, annunciando di voler invitare Xi Jinping in Brasile. «Quello che vogliamo è costruire una collaborazione con i cinesi, perché possano investire in cose che non esistono: autostrade, ferrovie, centrali idroelettriche, un qualunque progetto che significhi qualcosa di nuovo per il Brasile».

E SE IN TALE AUSPICIO c’è chi vede un’ulteriore minaccia ai già devastati ecosistemi del paese, quello che Lula persegue attraverso la cooperazione con la Cina è in realtà la reindustrializzazione dell’economia brasiliana, andando oltre l’attuale esportazione, in particolare, di minerale di ferro, petrolio e soprattutto soia (la cui produzione è legata al latifondo, ai transgenici e all’uso estensivo di pesticidi). Con un obiettivo prioritario: lo sviluppo nel paese di un’ormai imprescindibile industria di semiconduttori, un settore su cui le principali potenze mondiali investono centinaia di miliardi di dollari.

Nel quadro della cooperazione con la Cina si inscrive tuttavia anche la possibile adesione del gigante latinoamericano – fortemente caldeggiata dai cinesi – alla Belt and Road Initiative (Bri), la nuova Via della seta: l’immenso programma di costruzione di infrastrutture di cui fanno già parte una ventina di paesi latinoamericani.

E intanto, mentre il commercio tra Brasile e Cina ha superato i 171 miliardi di dollari nel 2022, con un aumento annuale del 4,9%, ci si attende molto dall’accordo in base a cui gli scambi commerciali tra i due paesi saranno condotti nelle rispettive valute, in reais e yuan, senza utilizzare il dollaro statunitense, la valuta impiegata normalmente nelle transazioni internazionali.

CHE QUESTE SIANO TUTTE brutte notizie per gli Stati uniti, non è sfuggito al quotidiano O Globo, che, in un editoriale pubblicato lunedì scorso, ha messo in guardia Lula dal rischio di irritare Washington: «Quando atterrerà nel paese, Lula avrà di fronte a sé una grande sfida: tenersi in equilibrio tra i giganti globali, Stati uniti e Cina, dichiaratamente in rotta di collisione. Al Brasile non interessa scontentare nessuno dei due. Dimenticarsene è il principale pericolo per Lula».

Ma a preoccupare O Globo è soprattutto il ruolo del Brasile in relazione alla guerra in Ucraina, «il tema in cui il Brasile ha più da perdere»: «Gli americani accetterebbero qualunque tipo di accordo commerciale o di scambio tecnologico e turistico tra Brasile e Cina. Ma una posizione favorevole all’asse sino-russo nella questione ucraina verrebbe interpretata come una sfida».

Di sicuro, però, la proposta di dar vita a un gruppo di paesi neutrali impegnato a mediare per porre fine alla guerra sarà uno dei punti che il presidente brasiliano discuterà venerdì con Xi Jinping, per quanto pochi al momento appaiano gli spiragli di pace: non a caso le recenti dichiarazioni di Lula riguardo all’opportunità che l’Ucraina ceda la sovranità della Crimea per facilitare un’intesa sono state respinte con decisione dal portavoce del ministero degli Esteri ucraino Oleg Nikolenko, convinto che non vi sia «alcuna ragione legale, politica o morale» per cui l’Ucraina debba cedere «anche un solo centimetro di territorio».

Con il presidente cinese Lula parlerà naturalmente anche di molti altri temi: dal commercio agli investimenti, dalla transizione energetica ai cambiamenti climatici.

OGGI, PERÒ, IL PRESIDENTE brasiliano parteciperà a Shanghai alla cerimonia di insediamento dell’ex presidente Dilma Rousseff alla guida della Nuova Banca di Sviluppo dei Brics (il gruppo composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), considerata un importante strumento per la costruzione di un mondo multipolare. E a Shanghai Lula visiterà anche lo stabilimento della Huawei, il gigante delle telecomunicazioni oggetto delle sanzioni Usa, alla cui tecnologia il Brasile ha già attinto per le reti 4G e 5G. L’agenda prevede infine un incontro con gli imprenditori e riunioni con il presidente dell’Assemblea nazionale del popolo Zhao Leji e con il primo ministro Li Qiang

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INTERVISTA . Dany Cohen, SciencesPo, sui limiti istituzionali della V Repubblica «Macron è in difficoltà, la riforma delle pensioni non è legittimata»

Semipresidenzialismo. Ecco com’è diventato un peso per la Francia Emmanuel Macron - Ap

In Italia la maggioranza discute del semi presidenzialismo. In questi mesi, il “modello” francese mostra segni di crisi. Il presidente Emmanuel Macron è in difficoltà a far passare la riforma delle pensioni, contestata dalla piazza – già 11 giornate di mobilitazione da gennaio, con cortei e scioperi, una dodicesima ci sarà oggi – perché non ha ottenuto la maggioranza assoluta dell’Assemblée nationale alle legislative che hanno seguito l’elezione presidenziale del 2022. Dany Cohen, professore di Diritto a SciencesPo, ci aiuta a capire come funziona il sistema istituzionale francese.

La V Repubblica nel 1958 è nata per consentire un decisionismo di governo. Che cosa succede adesso con il blocco sulle pensioni?
In un regime come il nostro, più presidenziale che parlamentare, ci sono grandi difficoltà se manca la maggioranza a sostegno del presidente. Ma per rovesciare il governo ci vuole una maggioranza contraria. Ci vuole una maggioranza che appoggi il voto di censura. La prima mozione di censura votata in Francia è stata nel 1962, contro il governo Pompidou. Un fatto paradossale, tenendo conto che, dopo una IV Repubblica dove i governi cadevano spesso, con la V il presidente era stato dotato di un’arma di ritorsione, il potere di sciogliere l’Assemblée nationale. Una concentrazione di poteri che non esiste negli Usa, per esempio, dove il presidente non può sciogliere il Congresso.

Oggi in Francia tutte le critiche sono rivolte a Macron, non tanto al governo. Come mai?
Questo non dipende dal regime politico formale, ma dalla sua applicazione in chiave di monarchia repubblicana. In parte è la tendenza naturale delle istituzioni della V Repubblica, ma la monarchia repubblicana dipende molto dalla forte mediatizzazione della vita politica. Ci siamo allontanati dallo spirito della Costituzione della V Repubblica e il presidente oggi è in prima linea, più esposto. Alle origini, con De Gaulle, il primo ministro aveva libertà e potere più ampi di oggi. Le cose hanno cominciato a cambiare con Pompidou, che era stato primo ministro prima di essere presidente. E il fenomeno si è accentuato con Giscard nel 1974, anche se Chirac primo ministro conservava maggiori libertà perché il suo partito aveva molti più deputati che il partito del presidente dopo le elezioni del 1973, situazione unica nella V Repubblica.

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I socialisti rappresentano una situazione particolare, erano stati fuori dal potere per un quarto di secolo, non avevano mai gestito le istituzioni. Poi Chirac ha convinto Jospin a rovesciare il calendario, mettendo prima le elezioni presidenziali e dopo le legislative. La conseguenza è stata la preminenza dell’elezione del presidente. Con Sarkozy il potere del presidente è ancora cresciuto. Per esempio, mentre prima ogni ministro aveva la libertà di nominare il proprio capo di gabinetto, con Sarkozy è lui a scegliere, imponendo così una sorta di controllore ai ministri. Macron ha fatto lo stesso, con la sola eccezione di Edouard Philippe.

Chi difende il presidenzialismo ne esalta la velocità nelle decisioni.
Non è automatico. Succede che sia sempre più utilizzata la procedura d’urgenza: le leggi passano in prima lettura all’Assemblée nationale e al Senato, poi il testo torna in seconda lettura nelle due camere, ma se si impone l’urgenza c’è una sola lettura all’Assemblée nationale. L’inconveniente è anche la riduzione della qualità nella redazione dei testi legislativi. Le leggi sono fatte per fare sensazione: sotto Sarkozy, per quasi il 90% delle leggi non erano stati pubblicati i decreti attuativi a due anni di distanza dal voto d’urgenza. Sono leggi fatte per esigenze di comunicazione. Ma questo non dipende dal regime istituzionale.

Si parla di uno scontro di legittimità: quella del presidente eletto, quella del Parlamento, che non ha votato la legge ma ha bocciato la censura, e infine quella della piazza.
In effetti la riforma delle pensioni non ha legittimità, è respinta da una grossa maggioranza della popolazione. Ma è una questione distinta dalla V Repubblica ed è indipendente dal tipo di regime. La crisi attuale assomiglia a quella dei tempi di Alain Juppé primo ministro, che nel 1997 ha portato allo scioglimento dell’Assemblée nationale e a nuove elezioni, senza passare però per un voto di censura. C’è chi ne deduce che in Francia non si possono fare riforme, che la popolazione è legata ai vantaggi sociali e che reagisce se si cerca di toccare qualcosa. Ma nei due casi, nel ’97 e oggi, si è verificato uno strappo tra quello che il candidato ha detto e quello che poi ha fatto.

Com’è andata?
Prendiamo Macron, che oggi dice: la riforma era nel mio programma del 2022. Ma nel 2017 lo stesso Macron aveva un programma con una riforma più giusta, preparata da economisti progressisti, che non prevedeva di modificare l’età pensionabile. La gente se lo ricorda. È vero che anche allora c’erano stati scioperi, ma perché oltre a passare a un regime pensionistico uguale per tutti abolendo i regimi speciali, il primo ministro, Edouard Philippe, più a destra, ne aveva approfittato per infilare un parametro sull’età, perdendo così l’appoggio del sindacato Cfdt. L’aumento dell’età pensionabile confermava infatti l’ingiustizia: chi ha cominciato a lavorare prima lavora più a lungo. Così, con la ricerca di un piccolo vantaggio, Philippe aveva reso fragile tutto l’edificio.

E nel 1997?
Allora Jacques Chirac, sfidato a destra da Edouard Balladur che era dato vincente, aveva vinto con una campagna elettorale più a sinistra, contro la frattura sociale. Ma poi con la riforma Juppé aveva fatto esattamente il contrario. I francesi hanno avuto l’impressione di essere stati imbrogliati, come oggi. I francesi dell’era Mitterrand ricordano soprattutto l’abbassamento dell’età della pensione da 65 a 60 anni. Così il progetto dei 64 anni è vissuto come un passo indietro sociale, un ritorno alla situazione di prima di Mitterrand.

Sulle pensioni adesso tutto è in mano al Consiglio costituzionale che deve dare un parere sul testo di legge, atteso per il 14 aprile?
Il Consiglio costituzionale è stato concepito per non funzionare, anche se poi le cose sono un po’ cambiate. Sotto De Gaulle era agli ordini del potere politico, poi ha preso maggiore importanza dopo la morte del generale. Ma è diverso dalla Corte di Karlsruhe in Germania, non ha la sua indipendenza, qui in Francia membri sono designati politicamente. Solo con Robert Badinter c’è stato un professore di diritto alla sua presidenza

 

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