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OPPOSIZIONE. Dibattito tra Pd, M5S e Sinistra italiana a Roma: Marta Bonafoni, neo-coordinatrice dei dem di Schlein, incontra a Esc il capogruppo pentastellato Francesco Silvestri e la deputata di Avs Elisabetta Piccolotti

 Marta Bonafoni - Ansa

 

Metti una sera a Roma in un centro sociale del quartiere San Lorenzo a parlare di politiche (anti)sociali del governo Meloni e reddito di cittadinanza la neo-coordinatrice della segreteria del Partito democratico Marta Bonafoni, la deputata di Sinistra italiana Elisabetta Piccolotti e il capogruppo del Movimento 5 Stelle alla camera Francesco Silvestri. Discutono tra di loro, e questa già sarebbe una notizia. Lo fanno di fronte a ricercatori sociali e attivisti.

Alberto De Nicola, a nome degli ospiti di Esc, ricorda ai convenuti che la progressiva cancellazione del Reddito di cittadinanza a opera della destra restituirà all’Italia l’anomalia già individuata dalla commissione Onofri nei lontani anni Novanta: uno dei pochi paesi Ue a non avere una misura universale di lotta alla povertà. La categoria della «occupabilità» reintroduce di fatto il concetto di poveri meritevoli e poveri da condannare. Il sociologo Andrea Ciarini, che ha fatto parte della commissione ministeriale che si è occupata nella scorsa legislatura di valutare il funzionamento della legge sul Reddito, ricorda che già il governo Draghi contraddicendo le indicazioni del rapporto, avesse introdotto misure di decalage sul sostegno economico.

«Il lavoro è dimenticato eccetto che per i tagli al cuneo fiscale che numerosi studi dimostrano vengano riassorbiti nel giro di poco tempo – dice Piccolotti – Noi invece dovremmo ingaggiare una grande battaglia sulla distribuzione della ricchezza». Propone un reddito di base universale per tutti perché non è vero che la ricchezza si produce «solo lavorando», ricordando come il dibattito tra lavoristi e non sul welfare avvenuto a sinistra negli anni scorsi si ripropone in forma parossistica nei tagli al Reddito e nei ricatti della destra, perché «il messaggio del governo è che si deve lavorare a qualsiasi condizione, in questa chiave bisogna togliere il reddito di cittadinanza che qualche contrappeso lo aveva introdotto».

Per Silvestri bisogna sfidare Meloni sul terreno dell’innovazione e del rapporto con la realtà di questi tempi. «Le politiche fiscali oltre che per la redistribuzione servono a spingere i settori produttivi a riconvertirsi – sostiene il pentastellato – Se ci poniamo in questa prospettiva riusciamo a far vedere alla gente i limiti dei conservatori. La destra provoca dal punto di vista mediatico su temi ideologici, bisogna riportarla sul terreno dei temi concreti. È facile attaccare i precettori del reddito o i ragazzi che imbrattano con vernice lavabile un muro, rispetto agli utili degli extraprofitti bancari che si stanno facendo sui mutui. Dobbiamo tenere la destra ancorata alla realtà che non riesce ad affrontare». Silvestri parla della coalizione da costruire: «Serve una visione alternativa che metta in rete tutte realtà sociali del paese. Non dobbiamo essere per forza identici ma avere la lealtà che ci consenta di andare avanti nonostante le differenze».

Bonafoni premette: ha accettato l’invito a questo dibattito quando era «solo una consigliera regionale». Ora conta «di portare la sua biografia politica nei movimenti e nell’associazionismo nella segreteria di Schlein». Punta il dito contro «la cultura dell’ideologia produttivista e quella familista». Cui si aggiunge »la discriminazione» testimoniata dallo stato di emergenza appena proclamato sui migranti. Di fronte a tutto ciò dice che bisogna ricostruire un rapporto tra le due sfere che definisce il »dentro» (ai partiti, alle istituzioni) e »fuori» (nella società e nei movimenti, come quelli che si apprestano a dare battaglia sul reddito e il salario minimo). Dunque, conclude, «l’alleanza va costruita sulle cose, a partire da astensionismo. Non votano i poveri: bisogna risintonizzarsi col paese. Ma nessuna alleanza è scontata, per questo bisogna reimparare a stare insieme»

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Gli elementi presenti nelle riprese ci fanno pensare a delle vittime ucraine, ma rimangono molti punti di domanda

La diffusione sui social di due video che mostrerebbero la decapitazione di alcuni soldati ucraini è stata ampiamente commentata sia dalle autorità di Kiev, sia da quelle di Mosca. Da una parte Volodymyr Zelensky e i sostenitori dell’Ucraina, i quali associano quanto mostrato nei video all’ISIS, dall’altra il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov mette le mani avanti valutando un’eventuale indagine se i filmati risultassero veri. Mosca, di fatto, non li etichetta subito come falsi e al momento non sta diffondendo materiale in propria difesa. Abbiamo visionato entrambi i filmati. In entrambi i video le vittime indossano la fascia gialla usata dai militari ucraini. Nella clip dell’esecuzione, un uomo mostra davanti alla telecamera i giubbotto della vittima e in particolare la toppa raffigurante il tridente ucraino e quella del teschio allungato, noto prima per il personaggio The Punisher della Marvel e successivamente per alcuni scandali negli Stati Uniti. A terra, accanto al giubbotto, è presente un passaporto ucraino che rimane chiuso per l’intera durata della clip. Nel video della decapitazione, il “boia” indossa la fascia bianca utilizzata dall’esercito russo. Nell’altra ripresa gli uomini in piedi non mostrano alcun segno identificativo, nessuna fascia o toppa che indichi a quale fazione appartengano. Non è possibile, al momento, sostenere con certezza che gli esecutori appartengano al gruppo Wagner.

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IL LIMITE IGNOTO. Egitto, Emirati, Corea del Sud e oltre. Il terremoto diplomatico degli alleati sorvegliati speciali s’allarga. E la Casa bianca tace. Il caso dei missili "occulti" prodotti di nascosto da Al-Sisi per Mosca nei nuovi file. E Parigi rettifica Macron: «La Cina resta rivale sistemica»

Escalation di segreti “ucraini” in fuga, al Pentagono cresce l’imbarazzo Una riunione in collegamento dal Pentagono con l'Ukraine Defense Contact Group - Ap

Doveva essere solo un piccolo incidente e si sta trasformando in un terremoto diplomatico. La fuga di notizie segrete dell’intelligence americana che è stata resa nota al grande pubblico dal New York Times la settimana scorsa ora mette in serio imbarazzo il Pentagono. Il quale promette punizioni esemplari e tenta di sminuire.

I VERTICI DELLA CASA BIANCA al momento si guardano bene dal commentare, anche perché si esporrebbero alla domanda fatidica che aleggia sulle prime pagine di tutti i media internazionali: perché gli Usa spiano gli alleati? O meglio, si sa che i servizi segreti sono inviati dai governi anche nel territorio dei Paesi amici ma trovarsi di fronte all’evidenza è diverso; in questo campo vale il detto «alcune cose si fanno ma non si dicono». Soprattutto se poi si è costretti anche a commentare giudizi molto duri sugli alleati in questione. Insomma, meglio tacere e aspettare che scemi l’attenzione. Il che dipenderà molto dai nuovi file che verranno pubblicati.

I CASI PIÙ ECLATANTI al momento sono 5, prescindendo dall’Ucraina. Partiamo dall’Egitto, che secondo un lungo articolo pubblicato dal Washington Post, avrebbe tramato per fornire armamenti alla Russia nel contesto della guerra contro l’Ucraina. Il presidente Al-Sisi stesso avrebbe ordinato, secondo quanto hanno potuto verificare in un documento datato 17 febbraio che riassume presunte conversazioni tra Sisi e alti funzionari militari egiziani, di mantenere segreta la produzione «per evitare problemi con l’Occidente». Nell’immagine si legge anche una cifra, 40 mila razzi, e si parla inoltre di munizioni e polvere da sparo.

«L’EGITTO È uno dei nostri più antichi alleati in Medio Oriente» ha dichiarato il senatore Chris Murphy, membro delle commissioni Esteri e Stanziamenti del Senato Usa, al Wp. «Se è vero che Al-Sisi sta costruendo segretamente missili per la Russia che potrebbero essere usati in Ucraina, dobbiamo fare un serio esame di coscienza sullo stato delle nostre relazioni». Anche queste indiscrezioni sul Cairo, come le prime riguardanti l’Ucraina, sono apparse sotto forma di immagini su Discord, una piattaforma di gioco on-line.

MA L’EGITTO NON È l’unico sorvegliato speciale nella regione. Su Israele sono uscite alcune informative riguardanti presunte manovre del Mossad per fomentare le rivolte contro la discussa riforma della giustizia voluta dal premier Netanyahu. In realtà, nel momento di massima intensità delle manifestazioni, era già risaputo che una parte dell’esercito fosse in disaccordo con la nuova norma e resta da capire se il leak sia una semplice raccolta di notizie o contenga informazioni più scottanti.

GLI EMIRATI ARABI invece sarebbero coinvolti in modo attivo con l’intelligence di Mosca. Secondo quanto apparso su internet con i timbri degli 007 statunitensi, Dubai avrebbe preso contatti «ad alti livelli» con la Russia, forse anche in virtù delle decine di oligarchi russi trasferitisi nel Golfo dopo l’invasione dell’Ucraina.

E POI C’È LA COREA DEL SUD. Lo scorso autunno si era parlato per qualche tempo di una presunta «triangolazione» tra Seul e Praga per far arrivare armamenti all’Ucraina. Poi, a inizio 2023, siamo venuti a sapere che gli Usa hanno requisito interi lotti di munizioni da 155 mm per fornirli a Kiev e ora i documenti trapelati rivelano alcune intercettazioni della Cia ai funzionari sudcoreani e palesano pressioni al piccolo Paese asiatico.

INTANTO, DA PARIGI, fonti interne all’Eliseo hanno cercato di placare le polemiche sull’intervento del presidente Macron sull’Europa che dovrebbe premunirsi dal diventare un «vassallo degli Usa» e tenere una posizione di «equidistanza» tra Pechino e Washington. Ieri, come riporta l’Ansa, si è ribadito che «gli Stati uniti sono i nostri alleati, condividiamo valori comuni» e la Cina resta «al tempo stesso partner, concorrente e rivale sistemico»

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«Prevenire una pericolosa spirale salari-prezzi». Saliranno solo i prezzi. Vaghezza sul Pnrr. 3 miliardi in deficit per i lavoratori dipendenti a reddito medio-basso

Mini-taglio al cuneo fiscale. Ma «moderazione salariale» 

Il Def proposto da Giancarlo Giorgetti è stato approvato dal consiglio dei ministri in un’ora, senza sorprese. La sola voce dissonante viene dal Fmi, le cui previsioni sono un po’ più pessimistiche di quelle del governo italiano. Nel documento la crescita del Pil di quest’anno è fissata, come già anticipato, allo 0,6% (pari a 1 nel Pil programmatico): tre decimali in meno delle stime di novembre. Per il Fondo monetario, invece, il miglioramento sarà di un solo decimale, 0,7%. Si vedrà nei prossimi mesi chi si è avvicinato di più al dato reale. Stime al ribasso invece per l’anno prossimo: dall’1,9% all’1,4%, mentre dovrebbero essere rispettati i calcoli di novembre per i due anni seguenti.

Non è mai successo, in decenni recenti, che le cifre del Def non fossero riviste e modificate anche profondamente dalla Nadef in settembre. Sarebbe dunque poco realistico azzardare anticipazioni sulla prossima legge di bilancio sulla base dei numeri sfornati ieri da Mef e governo. Una cosa però si può dire con certezza: ci sarà pochissimo da scialare. La prossima finanziaria sarà austera quanto la precedente.

Il ministro dell’Economia Giorgetti ha confermato il rapporto deficit/Pil al 4,5% indicato nello scorso novembre. Invariata anche la tabella di marcia per i prossimi anni: 3,7% nel 2024, 3% nel 2025, 2,5% nel 2026. Il governo ci tiene però a sottolineare col pennarello rosso «gli effetti di riduzione del rapporto debito/Pil che si sarebbero potuti registrare senza il superbonus». Il deficit tendenziale dovrebbe però essere più basso, al 4,35%. In questo modo il governo avrà a disposizione 3 miliardi in deficit da investire sul taglio del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti a reddito medio-basso già da quest’anno. Il governo punta a ristorare le fasce più povere garantendo però la «moderazione salariale per prevenire una pericolosa spirale salari-prezzi». Che poi sarebbe in realtà prezzi-salari: i prezzi saliranno, anche se in misura decrescente rispetto all’inflazione dei mesi scorsi (salvo spiacevoli sorprese), i salari invece no. Il documento fissa anche una progressiva riduzione della pressione fiscale, ma con massima prudenza. Quest’anno si attesterà al 43,3%. Nel 2026, se tutto va bene, sarà scesa di 6 decimali: 42,7%.

Anche il rapporto debito/Pil del 2022 è risultato migliore del previsto: è pari al 144,4%, dunque meno oneroso delle stime nella misura di 1,3 punti percentuali in meno. Su questo fronte, quello sul quale l’Unione europea è più occhiuta e la Germania chiede di stringere anche di più le maglie, la tabella di marcia è a tappe forzate: 142,1% quest’anno e poi via a scendere di corsa per toccare il 140,4% nel 2026. Per quanto la destra continui a promettere riforme epocali, con questi obiettivi l’austerità accompagnerà il cammino del governo Meloni ancora a lungo.

Al di là dei numeri lo stile è quello prudentissimo di Giancarlo Giorgetti. L’economia italiana «continua a dimostrare una notevole dose di resilienza e vitalità» però in un quadro che «rimane incerto e rischioso»: per la guerra, per le tensioni internazionali, per la stretta sui tassi d’interesse, per gli scricchiolii «localizzati» nel sistema bancario. E anche, anzi soprattutto, per il Pnrr, pur se questo il documento non lo dice apertamente.

Quando si arriva alla nota dolente, il testo partorito dal governo diventa vago e reticente: «Governo al lavoro per ottenere la terza rata» dei fondi europei, e ci mancherebbe altro, «interlocuzioni per la revisione e rimodulazione del Piano», necessità di «lavorare su un orizzonte temporale più esteso». Insomma nulla di concreto. Ma qualcosa di più potrebbe e dovrebbe dire oggi al Senato il ministro Raffaele Fitto

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In difficoltà nel gestire gli sbarchi dei migranti, il governo dichiara lo stato di emergenza per sei mesi. Ma è solo una misura spot per nascondere l’incapacità nel trovare soluzioni a una crisi che è solo umanitaria. Accordo nella maggioranza: giro di vite sulla protezione speciale

ALLARME FALSO. Durerà sei mesi. Meloni: «Servirà a dare risposte rapide alla gestione dei flussi». E Salvini ventila un possibile stop a Schengen

In difficoltà sui migranti il governo vara  lo stato di emergenza

 

Era il 29 giugno del 2017 quando Marco Minniti, all’epoca ministro dell’Interno, decise di interrompere un viaggio istituzionale in Irlanda e fare rapidamente rientro in Italia. Il motivo della decisione va ricercato su quanto stava accadendo lungo le coste siciliane: in sole 36 ore erano arrivati 12.500 migranti a bordo di 25 navi diverse. «Ho temuto che ci fosse un rischio per la tenuta democratica del paese», raccontò più tardi Minniti ricordando un anno che vide arrivare in Italia circa 180 mila persone.

Oggi in quattro giorni, da venerdì scorso a ieri, i migranti soccorsi a sbarcati tra Lampedusa e la Calabria sono stati circa 3.000, portando il totale degli arrivi dal primo gennaio a 31.292. Situazione sicuramente difficile, ma non certo paragonabile a quanto si è visto negli anni. Eppure sono bastati questi numeri, che fonti del governo ieri hanno definito «largamente superiore rispetto al passato», per permettere al consiglio dei ministri di dichiarare lo stato d’emergenza su tutto il territorio nazionale per far fonte agli sbarchi. Ad annunciarlo è stato il ministro per la Protezione civile e le politiche del Mare Nello Musumeci spiegando che sono stati stanziati 5 milioni di euro per i primi interventi da destinare principalmente all’accoglienza e che saranno proposti dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi una volta ascoltati Comuni e Regioni, e approvati dallo stesso Musumeci. Che ha voluto specificare: «Sia chiaro, non si risolve il problema, la cui soluzione è legata solo a un intervento consapevole e responsabile dell’Unione europea». Prossimo passo sarà

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MEDITERRANEO. In quattro giorni la guardia costiera italiana ha salvato 3.200 naufraghi tra il mar Ionio e le acque al largo di Lampedusa. Ieri 1.200 persone in pericolo su due pescherecci dalla Cirenaica. Intervengono la Diciotti e la Peluso. Domenica il veliero Nadir in aiuto di una barca affondata: 22 in salvo, altrettanti tra morti e dispersi. Nonostante i picchi di sbarchi, comunque, la popolazione straniera in Italia non aumenta da 10 anni

 Il salvataggio della guardia costiera del barcone con 800 migranti nel mar Ionio - Guardia costiera

Una ventina di persone sono annegate domenica nel tentativo di raggiungere l’Italia. Ieri la guardia costiera ne ha soccorse 1.200 in due grandi interventi. Intanto a Lampedusa gli sbarchi sono continuati senza sosta.

«PRIMA DI ARRIVARE sul punto indicato via radio da un peschereccio tunisino abbiamo sentito delle urla. Le persone erano in acqua. Abbiamo lanciato il mezzo di soccorso e iniziato la ricerca con quello in una direzione e la barca nell’altra», racconta Jasmine Iozzelli. Nella notte tra sabato e domenica era a bordo di Nadir, il veliero della Ong Resqship attivo lungo la rotta tunisina. A parte nei casi di emergenza estrema, «stabilizza» la situazione dei barchini: distribuisce giubbotti di salvataggio, calma le persone, chiama le autorità e ne attende l’arrivo. «Abbiamo recuperato 22 persone vive, tra cui tre donne incinte – continua Iozzelli – Una, in avanzato stato di gravidanza, all’inizio non rispondeva agli stimoli. Poi abbiamo trovato due corpi. Dai racconti dei sopravvissuti mancano all’appello una ventina di persone».

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Naufragi e morti lungo la rotta migratoria tunisina. Diversi arrivi a Lampedusa

LA SOCCORRITRICE aggiunge: «Al di là del dolore di tirare fuori dall’acqua dei cadaveri sono arrabbiata. Non è il primo naufragio e non sarà l’ultimo. I mezzi della guardia costiera stanno facendo tutti gli sforzi possibili per stare dietro allo sciame di barchini, ma non bastano. Ne servono altri e soprattutto servono canali di ingresso legale». A Lampedusa sono

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