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IL CASO. La presidente del Consiglio ha convocato un cdm durante la festa dei lavoratori. Dovrebbe varare il taglio al cuneo fiscale, giudicato da molti insufficiente anche per l'inflazione. E forse anche il taglio al reddito di cittadinanza e un'altra spinta alla precarietà con la fine del "decreto dignità"

 La presidente del Consiglio Giorgia Meloni - Ansa

Il governo userà il Primo maggio e dirà di avere fatto qualcosa per i lavoratori, ma non certo tutti. Tra otto giorni, durante la festa del (non)lavoro, il Consiglio dei ministri si riunirà per varare un taglio maggiore del cuneo fiscale. Lo ha annunciato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni secondo la quale «quelli come noi che, in fondo, sono dei privilegiati» «daranno l’esempio». Questo significa che «il governo dedicherà al lavoro, prendendo decisioni sul lavoro». «Tanti italiani», ha detto, saranno al lavoro «negli ospedali, nei trasporti, nei ristoranti, negli alberghi, compresi i tecnici impegnati in Piazza San Giovanni nel Concertone del Primo maggio».

Più esplicito nelle intenzioni polemiche è stato Maurizio Gasparri di Forza Italia. Ieri ha evidenziato l’opposizione tra «chi si diletta con tromboni e chitarre a spese della Rai» e chi invece «lavora» come il governo. Vecchia polemica destrorsa. Nella politica spettacolo conta il rimasticamento dei simboli. Fa parte di una «guerra culturale». Dopo il 25 aprile, ci sarà quella contro il Primo maggio.

Ciò che varerà il governo è il già previsto taglio del cuneo fiscale, dopo l’approvazione del Documento di Economia e Finanza (Def) da parte delle Camere. Il provvedimento stanzierà 3,4 miliardi di euro aggiuntivi ai quasi 5 già stanziati dalla legge di bilancio varata a dicembre 2022. Insieme finanzieranno un taglio dei contributi dei dipendenti di 4 punti per chi ha un reddito fino a 25 mila euro annui. Di tre per quelli tra 25 e 35 mila euro. Fino alla fine del 2023. Ci saranno aumenti da 11 euro al mese per i redditi da 20 mila euro, 14 euro mensili per quelli da 25 mila euro, 16 euro e mezzo fino a 35 mila euro. Cifre irrilevanti mangiate dall’inflazione. La prossima legge di bilancio dovrà raschiare il fondo del barile per rifinanziare l’operazione. Il problema è stato evidenziato più volte dagli stessi sindacati che chiedono un taglio «strutturale» del cuneo, oltre che più sostanzioso. Tali ristrettezze sono il risultato di un’austerità di ritorno dopo la pandemia. Nessun governo ha voluto modificare strutturalmente, e in maniera progressiva, il sistema fiscale. Né ha tassato gli extraprofitti: la causa del boom dell’inflazione. Altro che «spirale prezzi-salari», il fantasma usato per imporre la «moderazione salariale». Il governo lo ha scritto nel Def.

Al taglio del cuneo fiscale potrebbero aggiungersi due provvedimenti più significativi a livello politico e sociale. Voci dal sen fuggite dal Palazzo dicono che il primo maggio potrebbe essere varato anche un «decreto lavoro» che conterrà l’annunciatissimo «taglio del reddito di cittadinanza», in realtà una sua ridefinizione nel sistema di Workfare creato da Lega e Cinque Stelle nel 2019. A questo potrebbe aggiungersi una precarizzazione dei contratti di lavoro a termine con il superamento del «Decreto dignità» che non ha rallentato il boom del lavoro a breve termine. Si darebbero briciole ai dipendenti e un segnale devastante ai precari, ai poveri e ai disoccupati . Contrapporre chi ha poco e chi non ha niente. In nome del «lavoro». Il senso del primo maggio sarebbe parassitato. E stravolto.

Il varo del provvedimento per rifare il «reddito di cittadinanza» era stato annunciato «per fine gennaio». Da allora il governo lo ha spostato verso l’estate quando presume che non ci saranno proteste. Distillare bozze sui giornali serve a produrre confusione, neutralizzare e stigmatizzare. Poi ci sono ragioni tecniche. I fondi stanziati del Pnrr sulle «politiche attive del lavoro» hanno bisogno degli «occupabili» ai quali Meloni & Co. vogliono dimezzare il sussidio, cioè il «metadone di Stato», così lo hanno definito in campagna elettorale.

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25 APRILE. Appello ai senatori e alle senatrici

«Uscire dall’Aula quando presiede La Russa» Ignazio La russa durante una seduta del Senato - Ansa

Un appello che singoli cittadini, intellettuali, amministratori, personalità della sinistra rivolgono a senatori e senatrici antifascisti per sottolineare le responsabilità che il Presidente La Russa si sta assumendo, giorno dopo giorno, di delegittimazione della Resistenza.

La Russa è un cattivo scolaro. La Costituzione è essa stessa la Resistenza, come ha spiegato bene uno dei padri costituenti, Piero Calamandrei.

Nel nostro Paese la Resistenza è l’evento di popolo più importante del Novecento, a cui hanno partecipato tutti gli italiani: comunisti, socialisti, azionisti, repubblicani, liberali, cattolici, monarchici. Tutti, tranne i fascisti.

Dunque, la Resistenza è già memoria condivisa tra le culture politiche che hanno combattuto la dittatura e difeso in questi ottanta anni la democrazia italiana.

Sarebbe importante un’iniziativa forte da parte membri del Senato contro le prese di posizione di Ignazio La Russa, ormai sempre più insostenibili.

L’iniziativa più efficace sarebbe lasciare l’aula ogni volta che sarà lui a presiederla, finché non avrà finito di svilire le nostre istituzioni repubblicane e non avrà sciolto il nodo se stare dalla parte della democrazia o della dittatura. Ovvero dell’antifascismo o del fascismo.

PRIMI FIRMATARI

Pietro Bartolo, Fausto Bertinotti, Gianfranco Bettin, Selena Candia, Amedeo Ciaccheri, Michela Cicculli, Maura Cossutta, Gianni Cuperlo, Valentina Cuppi, Loredana De Petris, Donatella Di Cesare, Alfonso Gianni, Marilena Grassadonia, Claudio Marotta, Moni Ovadia, Anita Pirovano, Claudia Pratelli, Lidia Ravera, Massimiliano Smeriglio, Livia Turco, Nichi Vendola, Massimo Zedda

PER ADERIRE

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MEMORIA. Imbarazzo per Liliana Segre: tirata per la giacca, si sfila dalla guerra delle mozioni. La Russa dispensa interpretazioni della Costituzione: «Non cita mai la Resistenza»
Destra allergica all’antifascismo. Scontro sul 25 aprile al Senato La protesta dei senatori di Fratelli d'Italia in aula - Ansa

Lo scontro sul 25 aprile arriva a Palazzo Madama, con Ignazio La Russa regolarmente al suo posto sullo scranno più alto. La maggioranza decide di votare anche la mozione di Pd, M5S, Az-Iv, Autonomie e Alleanza Verdi Sinistra, ma è più una provocazione che una mossa ecumenica.

IL DOCUMENTO era stato concepito all’indomani delle gravi dichiarazioni del presidente del presidente del Senato sull’azione partigiana di via Rasella. Prende le mosse dal discorso col quale Liliana Segre aveva aperto la legislatura: la senatrice a vita si era chiesta chiedendosi per quale motivo il 25 aprile, il primo maggio e il 2 giugno siano considerate «divisive». Da qui nasce un equivoco non da poco. Perché il testo delle opposizioni viene battezzato «mozione Segre», tirando in ballo a sua insaputa la senatrice a vita che al momento della discussione non neppure è presente in aula. Questa operazione di restyling consente a Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia di uscire dall’imbarazzo e disinnescare l’insidia delle opposizioni. Decidono di votare il documento che viene ascritto alla senatrice a vita sopravvissuta ad Auschwitz, solo per questo considerandolo come bipartisan. La cosa strana è che pare che questa targhetta, dalla quale Segre è costretta a prendere le distanze con un comunicato stampa stringato ma palesemente piccato, pare sia stata appiccicata alla mozione da esponenti del centrosinistra. Al danno bisogna aggiungere la beffa: da Palazzo Madama trapela che la commissione Segre, quella sì legittimamente intestata alla senatrice, fino a oggi non ha potuto prendere il via perché la maggioranza non ha comunicato i nomi dei sui membri. L’organismo era stato votato all’unanimità ma pare incontrare una sorta di resistenza passiva dalle destre.

CHE LA MAGGIORANZA usi strumentalmente Segre è ancora più evidente quando mette sul tavolo il suo documento, che come da anticipazioni è un distillato di revisionismo e relativismo. Stigmatizza «ogni potere totalitario, a prescindere da qualunque ideologia’, e segnatamente contro il nazismo, il fascismo, il comunismo», e ripropone l’accostamento tra Olocausto e foibe. Alla fine passa anche questa mozione, con i 78 voti favorevoli delle forze che sostengono il governo, i 29 contrari di Partito democratico e Alleanza Verdi Sinistra, i 26 astenuti di M5S e Azione-Italia viva.

«NON ABBIAMO imbarazzo alcuno a ribadire giudizi drasticamente inequivocabili su tragedie della storia del Novecento – dice in aula Walter Verini del Pd presentando la mozione – I lager sovietici, i massacri staliniani. Abbiamo ogni anno reso omaggio alle persone massacrate nelle foibe, ai profughi giuliano-dalmati. Ma nel nostro paese c’è stato un regime fascista. E i comunisti italiani si sono battuti per la libertà. Se oggi tutti noi siamo qui, è perché in Italia ci sono stati la resistenza antifascista e il 25 aprile». Raffaele Speranzon di Fratelli d’Italia spiega in questo modo l’allergia della sua parte politica per l’antifascismo, non menzionato nella mozione delle destre: «Doveva essere il valore unificate tra destra e sinistra, ma è diventato un elemento divisivo. Non perché i moderati di centrodestra sono meno antifascisti, ma perché non sono antifascisti come vorrebbe la sinistra: impegnata a distribuire patenti di libertà. E che nella sua storia ha condotto ad atti di efferata violenza». Di fronte alle proteste da sinistra, La Russa ci mette ancora una volta del suo e sancisce: «Nella Costituzione non c’è alcun riferimento alla parola antifascismo». Peppe De Cristofaro di Alleanza Verdi Sinistra marca la distanza, evidenzia il senso di via Rasella e ricorda all’aula: «Furono solo i partigiani a riscattare l’onore e la dignità di tutto il paese. Ed è solo con questa solida consapevolezza alle spalle che possiamo incamminarci sul percorso che ci ha indicato la senatrice Segre»

 
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IL RAPPORTO BES. L’analisi Istat sul Benessere equo e sostenibile: alta percentuale di Neet, basso tasso di occupazione e forte rischio povertà collocano l'Italia al di sotto della media europea

La condizione economica è peggiorata per oltre un italiano su tre 

È peggiorata la percezione della situazione economica per le famiglie italiane. A dirlo è il rapporto Istat sul Benessere equo e sostenibile. La quota di coloro che dichiarano di aver visto un peggioramento rispetto all’anno precedente è di oltre uno su tre, un livello mai raggiunto in precedenza: «Questo indicatore tra il 2019 e il 2022 è peggiorato di 10 punti e ha raggiunto il 35,1% – ha spiegato Alessandra Tinto presentando i dati -. Si inverte la tendenza di progressiva crescita della visione ottimistica del futuro che si era mantenuta anche nei due anni di pandemia». Andamento analogo per la quota di persone che dichiarano di arrivare a fine mese con grande difficoltà, in aumento dall’8,2% del 2019 al 9,1% nel 2021.

Nel 2022 il reddito lordo disponibile delle famiglie è salito rispetto all’anno precedente ma il forte aumento della spesa per consumi finali ha rafforzato il trend di discesa della propensione al risparmio, che è calata a livelli inferiori rispetto al periodo pre pandemico. Negli anni precedenti la crisi Covid risultava in diminuzione la quota di individui che vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro (componenti tra i 18 e i 59 anni che hanno lavorato meno di un quinto del tempo) che ha portato l’indicatore a contrarsi fino al 10% nel 2019. Nel 2020 l’andamento positivo si è arrestato e la percentuale di individui che vivono in tale condizione è salita all’11% e ha continuato a salire nel 2021 (11,7%).

Alta percentuale di Neet, basso tasso di occupazione e forte rischio povertà collocano l’Italia al di sotto della media europea. La quota di giovani 15-29enni che non si formano e non lavorano in Italia raggiunge il 19% rispetto all’11,7% della media europea a 27 Stati; la quota di persone di 30-34 anni laureate è del 27,4% in Italia, il 42,8% in Ue. Il tasso di occupazione italiano nel 2022 è stato di circa 10 punti più basso rispetto a quello medio europeo (74,7%) con una distanza particolarmente accentuata tra le donne (55% in Italia rispetto al 69,4%). Uno degli indicatori per cui l’Italia, invece, si colloca su livelli migliori è il tasso di omicidi: 0,5 per 100mila abitanti nel 2020, al di sotto della media Ue (0,9). Inoltre, l’Italia si conferma ai vertici della graduatoria dei paesi per quanto riguarda la sopravvivenza, con valori della speranza di vita alla nascita pari a 82,5 anni (80,1 la media Ue nel 2021).

Male sulle disparità tra i sessi: «Su 86 indicatori complessivi, solo 26 fanno registrare una parità di genere. Al contrario, 34 evidenziano una condizione di svantaggio femminile e altri 26 di svantaggio maschile». In particolare, salute, istruzione e formazione sono i settori per i quali si evidenzia una condizione delle donne diffusamente migliore. «Più numerosi sono i domini in cui appare diffuso uno squilibrio di genere a favore degli uomini: lavoro e conciliazione dei tempi di vita, politica e istituzioni, relazioni sociali, benessere economico e benessere soggettivo».

Nel 2022 il mercato del lavoro ha mostrato un generale miglioramento rispetto all’anno precedente: gli occupati di 20-64 anni sono aumentati di 538mila unità (più 2,5% rispetto al 2021), il tasso di occupazione ha superato i livelli del 2019 recuperando il crollo registrato nel 2020. Tra i giovani (20-34 anni), il tasso di occupazione è pari al 56,2% e registra la crescita più intensa (più 3,5 punti sul 2021) superando i livelli pre-pandemia (era 53,3% nel 2019). I lavoratori a termine aumentano del 4,6% (3,3 milioni; più 146mila). L’aumento riguarda quasi esclusivamente gli occupati con lavoro a termine da meno di 5 anni (più 5,3%). Circa un occupato su quattro possiede un titolo di studio superiore a quello più frequente per svolgere la propria professione. Il fenomeno della sovraistruzione è più diffuso tra le donne (28,1%), e soprattutto tra gli occupati nelle professioni del commercio e servizi (43,7%) e nel settore dei Servizi alle famiglie (42,4%).

Nel 2021 sono risalite le emissioni di CO2 e di altri gas climalteranti raggiungendo il valore di 7 tonnellate di CO2 equivalente per abitante. Nel lungo periodo si osserva invece una diminuzione tendenziale avviata nel 2008. Con la ripresa economica del 2021 è tornata a crescere anche la produzione di rifiuti urbani (501 chilogrammi per abitante, erano 487 nel 2020) che pesa soprattutto per la parte che viene conferita in discarica (19% pari 5,6 milioni di tonnellate). Progressi sul fronte della sicurezza, qualità dei servizi, lavoro e conciliazione dei tempi di vita ma situazione in peggioramento per istruzione e formazione e benessere economico. Indicatori di benessere: per il Nord est il 60,5% degli indicatori ricade nei livelli di benessere medio-alto e alto e soltanto il 10,1% nei livelli di benessere basso e medio-basso; per il Sud e le Isole, invece, la maggior parte degli indicatori si trova nei livelli basso o medio-basso (62,0% per il Sud e 58,1% per le Isole) e solo una minoranza (19,4% per entrambe le ripartizioni) nei due livelli più virtuosi.

Sempre più evidenti gli effetti dei cambiamenti climatici in termini di temperature e precipitazioni. Nel 2022 c’è stata una media di 40 giorni di caldo intenso (più 34 giorni rispetto alla mediana 1981-2010). L’intensità dei giorni di caldo è ancora più marcata al Centro con 55 giorni di caldo durante l’anno. I giorni consecutivi non piovosi hanno raggiunto il valore di 27. L’incremento è più marcato nelle Isole (più 13 rispetto alla mediana del periodo climatico)

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GIOCO SPORCO. Palazzo Chigi impone la riscrittura dell’emendamento firmato da Lega, Fi e FdI. Tornano le divisioni. Oggi il voto finale al Senato

 Al senato si discute decreto migranti Ostellari, Nicola Molteni, Massimiliano Romeo, Lega - LaPresse

Doveva essere la bandierina piantata a suggellare il successo dell’esecutivo e in particolare della Lega di Matteo Salvini, la dimostrazione che il governo delle destre mantiene le promesse fatte agli elettori: in questo caso un taglio drastico alla protezione speciale definita per settimane come un’anomalia tutta italiana.

Ma è bastata una manciata di minuti per trasformare una vittoria che si pensava ormai già in tasca in una disfatta, imbarazzante per palazzo Chigi e la maggioranza. Al momento di votare gli emendamenti all’articolo 7 del decreto Cutro, il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni chiede a sorpresa di sospendere i lavori in corso nell’aula di palazzo Madama.

Quando si ricomincia tocca al senatore Maurizio Gasparri comunicare l’intenzione della maggioranza di rimettere mano all’emendamento che Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega avevano sottoscritto proprio per limitare la protezione speciale. Il motivo va cercato in una frase contenuta nel testo e che prevede lo stop agli obblighi costituzionali e internazionali sottoscritti dall’Italia nel valutare la concessione della protezione.

Non proprio una cosetta da poco, perché se

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CLIMA. Secondo il rapporto Ispra la situazione sembra destinata a proseguire negli anni a venire. Foschi gli scenari al 2030, a causa soprattutto di trasporti e riscaldamento

 Traffico di automobili nel centro di Torino foto LaPresse

Le emissioni di gas serra in Italia nel 2021 sono tornate a crescere in modo prepotente, dell’8,5%. E se è vero che l’anno precedente era quello del Covid, lo è anche che la riduzione registrata era solo una chimera, frutto dei lockdown. I dati emergono dalla lettura del National Inventory Report 2023, il rapporto Ispra che disegna il quadro globale e di dettaglio della situazione italiana sull’andamento dei gas serra dal 1990 al 2021, e dalla elaborazione effettuata dallo stesso istituto per monitorare gli effetti del Piano nazionale energia e clima. «Pur registrando una diminuzione del 20% rispetto al 1990, grazie alla crescita negli ultimi anni della produzione di energia da fonti rinnovabili (idroelettrico ed eolico), dell’efficienza energetica nei settori industriali e al passaggio all’uso di combustibili a minor contenuto di carbonio», registra Ispra, questa «riduzione non è sufficiente: le emissioni risultano di 11 milioni di tonnellate al di sopra dell’obiettivo stabilito per il 2021».

LA SITUAZIONE, SECONDO le stime, è destinata a proseguire non solo nel 2022 ma anche negli anni futuri. Poco promettenti, infatti, risultano anche gli scenari al 2030: è attesa, in particolare, una scarsa riduzione delle emissioni nei settori trasporti e riscaldamento e un disallineamento rispetto agli obiettivi stabiliti dall’Effort Sharing (condivisione dello sforzo) europeo: «Secondo gli obiettivi proposti dalla Commissione Ue, al 2030 le emissioni di gas serra dovrebbero ridursi del 43.7% rispetto ai livelli del 2005, mentre i nostri scenari ci indicano una riduzione di meno del 30%». Insufficienti, anche per rispondere agli appelli al fare presto lanciati dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) delle Nazioni Unite con la pubblicazione del Sesto Rapporto di Valutazione sui Cambiamenti Climatici, conclusasi il 20 marzo scorso.

RESPONSABILI DI CIRCA la metà delle emissioni nazionali di gas climalteranti rimangono i settori della produzione di energia e i trasporti, anche se il settore energetico (che comprende oltre alla produzione di energia elettrica anche le manifatture e le costruzioni) mostra una riduzione del 21,8% dal 1990 al 2021. Per quanto riguarda le sole industrie di produzione dell’energia, la riduzione è del 37% pur a fronte di un aumento della produzione di energia termoelettrica e dei consumi di energia. Merito delle rinnovabili, che nel 2021 hanno rappresentato il 19% del consumo finale lordo, un valore superiore all’obiettivo e più che triplicato rispetto al 2004, quando rappresentavano appena il 6,3% del consumo finale lordo di energia.

IL PROBLEMA CHE non possiamo nascondere sotto il tappeto è invece il settore dei trasporti, che contribuisce in maniera importante alle emissioni nazionali di gas serra: nel 2021 per il 24.7%. Rispetto al totale, il trasporto stradale costituisce la fonte maggioritaria di emissioni (93% del settore dei trasporti). Il dato relativo all’anno 2020 risentiva ovviamente dell’importante impatto della riduzione della mobilità dovuta alla pandemia globale, e nel nel 2021 le emissioni – riallineate con gli anni precedenti la pandemia – mostrano una crescita del 19% rispetto all’anno precedente.

Sulla base dei dati disponibili per il 2022, Ispra stima un leggero incremento dei livelli emissivi rispetto al 2021 (+0.1%) a fronte di un aumento previsto del Pil pari all’1,7%. L’andamento stimato è dovuto in particolare alla crescita delle emissioni del settore trasporti (+5,5%) e della produzione di energia (+9.6%, qualcuno ricorda il ritorno del carbone e la spinta al gas, di cui il governo s’è fatto promotore nei mesi scorsi?), mentre per gli altri settori si prevedono marcate riduzioni delle emissioni, in particolare per il riscaldamento (-11.3%) e per l’industria (-5.9%).

INTANTO, IN OCCASIONE della Giornata internazionale della Terra, in programma sabato 22 aprile, Italy for Climate, il centro studi sul clima della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, ha stimato in che anno l’Italia azzererà le proprie emissioni di gas serra: sarà il 2220, proseguendo di questo passo.

Le emissioni di gas serra in Italia nel 2022 sono state di circa 418 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, un valore praticamente uguale al 2021, nonostante il calo dei consumi di energia. Un dato legato all’aumento del carbone e al crollo della produzione idroelettrica (-38%), tornata ai livelli degli anni 50 a causa della siccità. È un circolo vizioso da cui non sappiamo uscire

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