Giunta al secondo giro di bozze, non smentite dal ministero dell’Economia né rettificate da quello del lavoro, la «riforma» del «reddito di cittadinanza» non porterà alla sua abolizione, ma a una trasformazione in senso più punitivo e restrittivo del sistema immaginato dai Cinque Stelle e dalla Lega nel 2018. Ad oggi si sa solo che gli «occupabili» non perderanno il sussidio. Diversamente da quanto spergiurato dalle destre in campagna elettorale, sarà il sussidio a cambiare il nome e ad essere dimezzato.
Si tratta di capire che tipo di sistema si intende confermare. Diversamente da come è stato già impostato il dibattito, il punto non è il nome da dare alla singola misura, ma è il sistema che gira attorno alla misura. Il sistema si chiama Workfare, cioè uno stato sociale conservatore e punitivo che considera l’assistenza sociale vincolato all’incrocio della «domanda e dell’offerta del lavoro». Se i populisti e gran parte della «sinistra» pensano che avrebbe dovuto essere lo Stato a gestire direttamente l’«incrocio della domanda e dell’offerta di lavoro» Meloni & Co. lo vogliono vincolare di più al mercato, nell’illusione che la povertà sia un problema dovuto solo alla disoccupazione che va «curato» con il mercato e i soldi agli imprenditori che assumono «occupabili» spesso lontani da anni dal lavoro (fino a 8 mila euro di sgravi per 24 mesi).
È in questa irrealistica cornice che andrà compresa l’annunciata moltiplicazione degli acronimi. Sembra che non ci sarà più un unico sussidio, falsamente universalistico come il «reddito di cittadinanza» (che ha raggiunto solo il 44% dei soli «poveri assoluti»). Ce ne saranno tre: «Gil», «Gal», e «Pal». Cioè la «Garanzia di inclusione» («Gil»): potranno chiederla le famiglie in povertà assoluta al cui interno ci sia almeno un minore, un over 60 o un «disabile». Riguarderà i poveri «inabili al lavoro», ritenuti meritevoli perché rientrano, ad esempio, nell’Indicatore della situazione economica equivalente (Isee) ridotto dai già insufficienti 9.360 euro a 7.200. Ciò dovrebbe equivalere a un taglio dei beneficiari: a gennaio era destinato a 1,04 milioni di famiglie, e 2,33 milioni di individui. Ora si parla di 700 mila famiglie.
Poi ci sarà la «Garanzia per l’attivazione lavorativa» («Gal») e riguarderà i cosiddetti «occupabili», cioè i poveri «abili al lavoro». Questo sussidio durerà fino a un anno, non sarà rinnovabile, a differenza di oggi che dura al massimo 36 mesi. L’indennità sarà di massimo 350 euro medi (contro gli attuali 580). Prevista anche un’indennità per l’affitto pari a un massimo di 280 euro. Poi ci sarà la «prestazione di accompagnamento al lavoro» («Pal»), sarà rivolta a chi, tra agosto e dicembre, dovrà coprire gli ultimi mesi dell’anno (dicono 213 mila persone). Poi potrà fare domanda per la «Gil», se avrà sottoscritto un «patto per il lavoro». Sarà accentuata la distinzione tra poveri meritevoli e non, tra «abili al lavoro» e «inabili». Solo nel 2026 sarà previsto il recupero dell’inflazione. Il sussidio sarà spolpato dall’aumento dei prezzi. L’impatto sarà trascurabile. È un invito al lavoro nero.
Resterà la stigmatizzazione. Confermate le pene fino a sei anni per dichiarazioni mendaci. Un populismo penale già presente nel «reddito di cittadinanza». Sarà dimezzato a 5 anni il requisito della residenza per gli extracomunitari. Per evitare la procedura di infrazione dell’Ue. Nelle bozze non sembra risolto uno dei problemi della «scala di equivalenza» per le famiglie numerose. I figli maggiorenni non daranno diritto al nucleo di avere una maggiorazione. Dovrebbero andare a lavorare. Come, non si sa. Né è chiaro se resterà l’idea di un’offerta congrua, e quale. Agli occupabili saranno fatte offerte che non potranno rifiutare pena la perdita del magro sussidio?
Queste e altre domande non hanno ancora una risposta univoca alla luce degli annunci. Ciò potrebbe valere per le modifiche al meccanismo della «causale» per i contratti a termine che scompare per quelli sotto i 12 mesi e si semplifica per quelli fino a 24 mesi. Il provvedimento rientrerà nello schema pensato dal governo Prima o poi le bozze finiranno. E la stampa forse finirà di fare da cassa di risonanza a questa strategia. In generale, si punta a diluire l’impatto. E a neutralizzare le proteste