Nell’affaire Arianna Meloni c’è qualcosa che lascia sbigottiti. Si era abituati, da tempo, ad avvisi di garanzia che uscivano sui giornali prima di arrivare ai diretti interessati, e alla reazione di questi ultimi che gridavano al complotto giudiziario. Schema visto e rivisto dai tempi di Mani Pulite e poi proseguito negli anni della guerra di Berlusconi alla magistratura.
Uno spettacolo poco edificante (soprattutto da parte dei politici indagati) ma almeno comprensibile. Questo caso sembra invece un teatro dell’assurdo: la first sister si dice «scossa» perché un giornale amico ha scritto che forse qualcuno potrebbe indagarla.
L’avviso di garanzia non c’è, neppure il Giornale di Sallusti ne ha notizia. Eppure Arianna Meloni denuncia di essere «vittima di un metodo». Di chi? Non certo di Sallusti, che prima di sollevare il polverone sulla falsa indagine l’ha avvertita. Dunque quale sarebbe il metodo? Quello dei giornalisti che raccontano la sua legittima attività di dirigente di primo piano di Fdi, da lei ampiamente rivendicata? E perché mai sulla sua azione dovrebbe scendere la nebbia?
C’è un’altra domanda che resta senza risposta. Perché la premier di fronte alla notizia di una indagine che non c’è si premura di definirla «molto verosimile», parlando di uno «schema visto e rivisto con Berlusconi? Il Cavaliere di processi ne ha avuti tanti, le sorelle Meloni nessuno. È forse a conoscenza di indagini segrete, o di reati ancora non commessi, come gli infelici sensitivi di Minority Report?
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