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La lezione. Una, due, dieci volte, a Gaza City, a Nuseirat, a Rafah...lo schema-Netanyahu: ogni volta che si riapre il tavolo negoziale, un feroce bombardamento lo cristalizza. L’ultradestra ha un peso, ma a decidere è sempre il premier che rifugge l’accordo

 La scuola dell'Unrwa distrutta da un attacco aereo israeliano nel campo profughi di Al Nuseirat - Mohammed Saber/Ansa

Lo schema si ripete da mesi, modello rintracciabile anche in offensive del passato, in Libano nel 2006, nella Cisgiordania della seconda Intifada: quando un cessate il fuoco sembra concretizzarsi, quando il dialogo procede seppur a tentoni, quando i mediatori internazionali a Parigi, al Cairo, a Doha limano dettagli e misurano al millimetro le concessioni all’una o all’altra parte, il governo israeliano sgancia la sua bomba.

Bombarda Gaza e bombarda il tavolo negoziale: due in uno, con una sola azione eclatante, mortifera e umiliante. Il triplo raid sulla scuola al-Tabin a Gaza City ne è l’ultimo esempio, poche ore dopo che lo stesso Netanyahu aveva annunciato l’invio del suo team negoziale al tavolo del 15 agosto, riaperto sull’onda di una rinnovata e disperata impellenza globale.

PARTIAMO dalla fine. Il 13 luglio nella «zona sicura» di Mawasi, lungo la costa sud, una serie di missili ha centrato le tende degli sfollati. Novanta uccisi, un bagno di sangue che Israele ha giustificato con un obiettivo: il capo militare di Hamas, Mohammed Deif. Colpirne uno. Dei 300 feriti molti moriranno nei giorni successivi.

Solo il giorno prima, il 12 luglio, il presidente Usa Joe Biden dava la tregua per «quasi fatta»: «Ci sono questioni complesse da affrontare, ma sia Israele che Hamas hanno concordato sull’impianto generale dell’intesa». Boom.

Il 4 luglio, Netanyahu aveva inviato la sua delegazione al Cairo: secondo indiscrezioni, Hamas sarebbe stato intenzionato a ritirare la sua richiesta principe, il cessate il fuoco permanente come condizione per il rilascio degli ostaggi israeliani. Indiscrezioni confermate il 6 giugno: il movimento islamico rinunciava alla fine definitiva della guerra. Poche ore dopo, i caccia israeliani bombardavano una scuola dell’Onu, la Al-Jaouni di Nuseirat, 16 uccisi.

Il mese prima, l’8 giugno, la strage più efferata: nell’operazione per liberare quattro ostaggi, soldati camuffati da sfollati penetrano nel campo rifugiati di Nuseirat, l’aviazione copre la fuga bombardando a tappeto. Gli uccisi saranno 276. Era trascorsa appena una settimana dalla mossa a sorpresa di Biden: un accordo in tre fasi, proposto secondo il presidente dallo stesso Israele. Netanyahu smentiva, ma gli Stati uniti tenevano il punto, sperando nello scacco matto con la copertura delle cancellerie globali che si erano accodate al piano fino a votarlo al Palazzo di Vetro.

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Il mese di maggio si era aperto con Gaza in bilico: da una parte l’annunciata offensiva su Rafah, casa a 1,5 milioni di sfollati, dall’altra le speranze di un accordo. Il 4 maggio la delegazione di Hamas era al Cairo per discutere la proposta israeliana e aveva avanzato l’idea di un accordo in tre fasi di 40 giorni l’una (spiccavano la richiesta di liberazione di Marwan Barghouti, leader di Fatah, e il rilascio dei primi 33 ostaggi anche senza ritiro delle truppe israeliane). 48 ore dopo, il 6 maggio, Israele lanciava l’operazione di terra su Rafah, occupava il valico, lo dava alle fiamme e lo rendeva da allora inutilizzabile.

Il 31 marzo al Cairo riprendevano i negoziati, sullo sfondo di manifestazioni oceaniche in tutto il mondo e accampamenti nelle università che urlavano quanto la fine della carneficina fosse un obbligo morale. Il 2 aprile l’aviazione israeliana centrava il convoglio dell’ong statunitense World Central Kitchen: sette uccisi, sei stranieri e un palestinese. Le auto, ben riconoscibili, erano state prese di mira in due attacchi distinti, a distanza di un centinaio di metri.

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QUALCHE settimana prima, con il Ramadan alle porte, la rinnovata pressione globale si era arenata su due attacchi consecutivi contro i palestinesi accalcati sui camion di aiuti in transito. Stragi degli affamati che seguivano alla più terribile: il 28 febbraio 114 uccisi mentre cercavano di accaparrarsi sacchi di farina dal fuoco aperto dalle truppe di terra. Prima le pallottole, poi la calca e il sangue che macchiava i sacchi di iuta.

Quella che sarà poi definita «la strage della farina» giungeva dopo un mese intenso, la tregua a un passo. L’apice era stato raggiunto a Parigi il 23 febbraio: si annunciavano «progressi» da giorni, non scalfiti dalla strage di 74 palestinesi a Rafah in un’operazione per liberare due ostaggi.

Il 22 gennaio era stata Tel Aviv a offrire un piano di tregua: due mesi di pausa in cambio di tutti e 130 gli ostaggi in mano ad Hamas. Tempo tre giorni e Israele ha bombardato la sua stessa proposta. O meglio gli ha sparato addosso: fuoco alla rotonda Kuwaiti, nel nord isolato e alla fame, durante la distribuzione di cibo. 25 ammazzati. Il 2 gennaio l’uccisione del numero 2 dell’ufficio politico di Hamas, Saleh Aruri, cristallizzava il dialogo, ripreso appena dieci giorni prima.

NON SONO pochi quelli che leggono nei costanti deragliamenti il modo per compiacere l’ultradestra, fondamentale a tenere in piedi la coalizione di governo guidata dal Likud. Il ministro delle finanze Smotrich, due giorni fa, ha minacciato di far saltare l’esecutivo se Netanyahu fosse giunto a patti con Hamas. Se la pressione dell’ultradestra sovranista ha un peso nelle decisioni del premier (peso che le migliaia di israeliani in piazza da mesi per chiedere uno scambio di ostaggi con Hamas non hanno), è vero anche che il decisore ultimo è lui, Benyamin Netanyahu.

E Netanyahu vuole la guerra per salvare se stesso e portare a termine la missione di una vita, il conflitto aperto con Teheran e la distruzione del suo progetto nucleare. Lo dice il suo ministero della difesa, lo dicono da settimane i suoi negoziatori, costretti a presentare ai mediatori (Egitto, Qatar e Stati uniti) richieste sempre nuove e improvvisate: a far deragliare il dialogo è sempre Mr. Sicurezza

 

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Sotto scacco. In autunno rischiamo di trovare un’università meno finanziata, meno capace di far crescere le competenze dei giovani, più gerarchizzata

Un messaggio ai giovani: andatevene

 

Al rientro dalle vacanze studenti e professori troveranno le università cambiate. Un mese fa un decreto ha tagliato 513 milioni in corso d’anno, in particolare le spese non vincolate, sollevando le proteste della Conferenza dei rettori (Crui) e del Consiglio universitario nazionale (Cun).

Ieri il governo ha approvato un disegno di legge che cambia profondamente le figure previste per i giovani ricercatori e per i docenti esterni. A fare ricerca (e, spesso, lezione) potranno esserci neolaureati magistrali (assistenti di ricerca junior), neodottorati (assistenti di ricerca senior), contrattisti post-doc (che rimpiazzano gli attuali assegnisti di ricerca), mentre resta congelato il contratto di ricerca che offriva tutele e remunerazioni dignitose, a costi maggiori per gli atenei. Per di più, i corsi universitari potranno avere come docenti «professori aggiunti»: esperti esterni incaricati direttamente dai rettori.

Il disegno di legge lascia grande incertezza – forse in attesa di verificare le reazioni che verranno – sulle procedure di selezione, sui compensi e sulle regole. Altri interventi sono stati annunciati dalla ministra Anna Maria Bernini, che ha ricevuto nei mesi scorsi un’ampia delega per la riforma dell’università all’interno del disegno di legge «Semplificazione». Molte cose potranno ancora cambiare prima della riapertura.

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Le misure prese finora dal governo si scontrano con tre nodi di fondo. Il primo è il sottofinanziamento strutturale dell’università e della ricerca in Italia. Il «Tavolo tecnico» insediato dal governo Draghi due anni fa chiedeva di stabilizzare la ricerca pubblica allo 0,75% del Pil, sfiorato nel 2023 grazie ai finanziamenti straordinari e temporanei del Pnrr. Da quest’anno, con il Pnrr ancora in piedi, stiamo scivolando indietro, in un quadro europeo in cui siamo tra i paesi con la più bassa percentuale di laureati sulla forza lavoro.

La seconda questione è la moltiplicazione del precariato. Le nuove figure coinvolgono già i neolaureati in forme di collaborazione poco precisate e trasparenti, ampliano le modalità con cui si si prolunga il limbo della ricerca instabile. Tutto ciò va a complicare una situazione già difficile: nel 2022 c’erano in Italia 12mila ricercatori a tempo determinato (A e B) e 19mila assegnisti: il 40% di tutto il personale di ricerca. Si è scelto di infittire il sottobosco del precariato, anziché offrire prospettive di crescita professionale ai giovani che tengono in piedi le attività universitarie, ed evitare la «fuga dei cervelli», visto che in un decennio 15mila giovani ricercatori italiani hanno trovato lavoro all’estero.

Per di più tra il 2022 e il 2027 c’è il pensionamento del 18% dei professori ordinari e associati: senza un piano adeguato di nuovi concorsi, c’è un rischio concreto di svuotamento degli atenei, sostituendo magari i docenti con «professori aggiunti» pescati dall’esterno.

La terza contraddizione riguarda l’enfasi sul merito e sulla valutazione della qualità della ricerca che ha segnato gli ultimi 15 anni delle politiche universitarie, a partire dall’Abilitazione scientifica nazionale, che ha orientato fortemente le traiettorie professionali dei giovani ricercatori. Tutto questo ora sembra dimenticato: le forme di reclutamento – sia dei nuovi precari della ricerca, sia dei «professori aggiunti» – prevedono di evitare in molti casi i concorsi. In cattedra potremmo avere sempre più persone scelte dai vertici degli atenei, ma che non sono passate attraverso alcuna verifica delle loro competenze.

In autunno rischiamo di trovare un’università meno finanziata, meno capace di far crescere le competenze dei giovani, più gerarchizzata tra grandi atenei, premiati dai fondi speciali da un lato, e, dall’altro, le università piccole e periferiche, colpite dai tagli e indebolite dal calo delle iscrizioni. È anche questa – a modo suo – una riforma delle istituzioni del paese che ci allontana dai maggiori paesi europei, aggrava i divari interni, riduce gli spazi di mobilità e partecipazione sociale

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Una serie di indizi indicano che il premier Netanyahu potrebbe essere tentato dall'escalation con l'Iran. Anche contro il volere degli Stati Uniti. Sarebbe un disastro per tutti

 

Si tratta di un’ipotesi remota. Non c’è però dubbio che, all’interno dello Stato ebraico, c’è chi vorrebbe farla finita con l’Iran (come d’altronde c’è chi vorrebbe farla finita coi palestinesi)

Manlio Graziano

 

Il giorno della morte del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, a Teheran, ho scritto su queste pagine che la sua uccisione non aveva alcun senso politico, come nessun senso politico avevano il pogrom del 7 ottobre e la guerra a Gaza che ne è seguita. 

Il seguito degli eventi da mercoledì scorso – giorno dell’assassinio di Haniyeh – parrebbe però aprire uno spiraglio a un’altra ipotesi: che Israele voglia provocare una guerra contro l’Iran, e trascinarvi gli Stati Uniti. Che un calcolo politico dunque esista; un calcolo che acuirebbe il disordine mondiale e aggraverebbe la situazione di tutti, compreso Israele. Ma almeno un calcolo.

Si tratta di un’ipotesi remota, anche perché si apparenterebbe a un delirio di onnipotenza che Israele non si può permettere, né materialmente né politicamente, e forse nemmeno militarmente. 

Non c’è però dubbio che, all’interno dello Stato ebraico, c’è chi vorrebbe farla finita con l’Iran (come d’altronde c’è chi vorrebbe farla finita coi palestinesi). 

   

 

Che fare dell’Iran

Nei circoli politici locali, tutti sanno che gli Stati Uniti non vogliono essere trascinati in un altro conflitto in Medio Oriente; tanto meno un conflitto con l’Iran. 

A questo proposito, è opportuno ricordare che, nel 2001, Henry Kissinger si era speso a favore di una riconciliazione con Teheran, invocando ragioni geopolitiche, cioè “l’importanza dell’insieme di geografia, risorse e talenti della popolazione iraniana”. 

“Ci sono pochi paesi al mondo – scriveva l’ex-segretario alla Difesa – con cui gli Stati Uniti hanno meno ragioni per essere in disaccordo o interessi più compatibili dell’Iran”; e queste compatibilità, aggiungeva, non dipendono da chi è al potere a Teheran, ma “riflettono realtà politiche e strategiche che continuano ancora oggi”. E concludeva: “Non c’è alcuna motivazione geopolitica americana all’ostilità tra l’Iran e gli Stati Uniti [e] un governo americano prudente non ha bisogno di istruzioni sull’opportunità di migliorare le relazioni con l’Iran”.

A questa visione delle cose si era ispirata l’amministrazione di George W. Bush quando aprì le trattative sul nucleare con l’Iran di Mahmud Ahmadinejad, e poi l’amministrazione di Barack Obama, quando le finalizzò nell’accordo del luglio 2015. 

È possibile che, se dovesse davvero esistere una volontà israeliana di farla finita con l’Iran, essa sarebbe nata proprio a quel momento. ...

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IL CRACK. Intervista a Andrea Fumagalli: "Alla base della crisi c'è la politica monetaria della Federal Reserve americana che tiene alto il costo del denaro, seguendo una logica capitalista a difesa del dollaro. Il suo orientamento danneggia i salari e contrasta la conflittualità sociale. I vincitori delle politiche anti-inflazione sono le grandi imprese, chi ha perso sono i lavoratori. In Italia lo scenario peggiore, salari al palo"

Fumagalli: «Crollo in borsa, mercati in tilt: banche centrali responsabili» Il crollo delle borse sugli schermi dei televisori a Wall Street - Ap

Andrea Fumagalli, economista all’università di Pavia, un crollo delle borse simile a quello visto tra venerdì scorso e ieri non lo si vedeva dal «Lunedì nero» del 1987 o dai tempi della pandemia. Quali sono i motivi?
Quando c’è un calo abbastanza forte degli indici azionari che perdura per giorni le cause non sono mai univoche. Può essere dovuto ai forti investimenti nelle Big Tech e nell’intelligenza artificiale che hanno ridotto i profitti e i dividendi e richiedono tempi abbastanza lunghi per vedere i risultati. Il grado di incertezza è molto elevato, soprattutto se vi sono previsioni di calo della crescita dell’economia americana. Crescono i segnali di guerra in Medioriente, il prezzo del petrolio sta calando. Ma credo che il problema principale stia nella politica della Federal Reserve americana di tenere alti i tassi di interesse, seguita a ruota dalla Bce e dalle altre banche centrali.

 Andrea Fumagalli (Università di Pavia)

Andrea Fumagalli (Università di Pavia)

Una politica giustificata dall’alta inflazione. Ora che si è abbassata perché la Fed non taglia i tassi di interesse?
Innanzitutto perché il reale obiettivo della Fed non è l’inflazione ma continuare a garantire una ciambella di salvataggio al dollaro per mantenere l’egemonia economica Usa. La tenuta del dollaro consente agli Usa di finanziare un debito interno che ha raggiunto livelli mai visti prima: il 122,3% del Prodotto interno lordo e un debito estero strutturale. Se il dollaro perde di appeal l’economia Usa corre rischi seri. I due debiti sono una spada di Damocle. Fintanto che i mercati finanziari sono egemonizzati dal dollaro, le bolle che producono possono essere sotto controllo, anche se ci sono segnali di segno contrario. I paesi del Sud Globale organizzati nei Brics+, dopo la riunione della scorsa estate a Johannesburg, stanno premendo per una governance mondiale multipolare, un rischio che gli Usa non si possono al momento permettere.

Il presidente della Fed Powell sta aspettando che il mercato del lavoro americano peggiori per tagliare i tassi. Nell’attesa che aumenti la disoccupazione, la banca centrale americana (e così quella europea) fa pagare di più i mutui ai lavoratori. Non è paradossale questa idea? Come la spiega?
La spiego con il fatto che la politica delle banche centrali è una politica anti-salariale e contro il lavoro che ha favorito l’accumulo di grandi profitti, sta diminuendo la domanda, contrasta l’aumento dei salari e la conflittualità sociale, Che nel periodo post-covid era ripresa, almeno negli Stati Uniti. Penso alle vertenze nel settore automobilistico, a Hollywood, nei servizi, tra gli addetti alle pulizie. Ci sono stati grandi aumenti salariali in linea con l’inflazione.

Il ribasso delle borse, e il rallentamento del mercato del lavoro, potrebbero convincere la Fed a tagliare i tassi a settembre?
Potrebbe concedere un taglio dello 0,25% per aiutare i democratici. Nell’anno delle elezioni alla Casa Bianca di solito vengono fatte politiche espansive per consentire a chi ha governato di dire di averlo fatto bene. Del resto la segretaria al tesoro è l’ex governatrice della Fed Janet Yellen. La situazione però è incerta.

Perché?
La Fed non segue la logica del ciclo politico elettorale, ma una logica prettamente capitalistica a difesa del dollaro e spesso contrasta anche con gli interessi degli stessi mercati che sono molto nervosi. Alla lunga queste politiche non piacciono nemmeno ai governi. Soprattutto quelli con un debito alto come l’Italia che lo devono pagare con gli interessi.

Chi sono i vincitori e i vinti di questa politica contro l’inflazione?
Negli Stati Uniti i vincitori sono state le corporation delle piattaforme e gli speculatori finanziari che hanno fatto tantissimi soldi. Tra i lavoratori c’è stato un miglioramento della forza lavoro bianca più istruita e un peggioramento per la popolazione non bianca.

In Europa? In Italia?
Qui di certo ha perso tutto il lavoro. I vincitori sono stati il capitale e la rendita: le grandi banche, le grandi imprese. All’aumento dei prezzi non è seguito un aumento dei salari che mantenesse inalterato il potere di acquisto. Ci sono grandi differenze a livello nazionale. C’è stata una tenuta, parziale, in Spagna, Francia e in Germania. In Italia non è successo per nulla. Non a caso noi viviamo nella situazione peggiore, qualunque cosa dica Meloni che fa propaganda.

Il ritorno della volatilità in borsa, e le incertezze nell’economia globale, spingeranno a politiche ancora più prudenti, e a rafforzare le politiche di austerità da noi?
L’Europa ha fatto una scelta di economia politica ben chiara: sostegno all’offerta, e dunque ai profitti, non disturbare l’impresa che «crea ricchezza» – un altro mantra di Meloni e il ripristino delle politiche di controllo dei bilanci pubblici. All’orizzonte non si vedono grandi conflitti salariali. Il rischio è che queste politiche di austerità vadano a penalizzare i servizi sociali, cioè le forme di salario indiretto, ancora di più di quanto non sia già avvenuto in passato

 

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TORIES E LABOUR. La radice del razzismo che esplode con violenza nelle strade di alcune città del Regno unito va cercata in un passato con cui non si sono fatti i conti fino in fondo

La favola del paese multiculturale La protesta "Basta così" dell’estrema destra inglese a Sunderland, in Inghilterra - foto di Drik/Getty Images

Sono passati poco più di cinquanta anni dall’aprile del 1968, quando Enoch Powell tenne un discorso passato alla storia come «the river of blood speech». Powell era una delle figure di spicco del partito conservatore britannico. Parlamentare di lungo corso, in quel momento membro del governo ombra, poteva aspirare a nuovi incarichi ministeriali se i Tories avessero vinto le elezioni. Le reazioni al discorso, tenuto durante una riunione di partito a Birmingham, in cui, citando Virgilio (era un brillante classicista), Powell preconizzava per il Regno unito un futuro in cui le politiche di integrazione tra bianchi e neri avrebbero prodotto un bagno di sangue, ne stroncarono la carriera. Appena il contenuto del discorso fu reso noto, diversi membri del governo ombra minacciarono le dimissioni se Ted Heath, il leader del partito, non avesse rimosso Powell dal suo incarico.

Nei decenni trascorsi dalla fine degli anni Sessanta la società britannica è diventata multiculturale e multietnica. Persino le porte dei luoghi simbolo del “vecchio regime” (dalla House of Lords alla Corte), si sono aperte progressivamente a persone non di pelle bianca, non sempre nate nel Regno unito, che nelle isole britanniche hanno trovato occasioni di affermazione professionale o di successo personale. La presenza costante nella sfera pubblica di figure del mondo della cultura e dello spettacolo, di celebrità di vario tipo, e anche (per qualche tempo) quella della moglie di uno dei figli dell’attuale monarca, hanno alimentato la narrazione di un paese che si era lasciato alle spalle gli aspetti peggiori dell’eredità imperiale.

Eppure, da qualche tempo, questa immagine rassicurante ha cominciato a incrinarsi. Probabilmente i primi segnali sono stati visibili sui social, dove forme quotidiane di razzismo sono state “normalizzate” da parte utenti popolari, e in qualche misura assecondate da politici alla ricerca di facile consenso. Questi atteggiamenti sono partiti dalla destra estrema dello spettro politico, ma si sono diffusi anche a quella tradizionale, fino a mettere radice negli ultimi anni tra i Tories. Rafforzati da una stampa dominata da editori che coltivano razzismo e xenofobia per lucro.

Alla luce di questi fatti, colpisce ricordare la reazione dei Tories alla presa di posizione di Powell nel 1968 (che secondo alcuni sondaggi non era sgradita a una parte degli elettori del partito). Ciò che era allora inaccettabile moralmente e politicamente, anche se poteva attirare voti, venne respinto in maniera convinta dalla leadership del partito della destra (da alcuni in modo più deciso, da altri, per esempio Margaret Thatcher in modo blando).

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Oggi la situazione è diversa. La leadership politica dei Tories non guida, ma segue ciò che si ritiene possa procurare consenso (anche se le indagini di alcuni scienziati sociali sembrano indicare il contrario) e tanto peggio per i principi di decenza della destra conservatrice di vecchio stampo che rigettava, almeno nel discorso pubblico, il razzismo.

A cambiare orientamento non sono stati solo settori influenti della classe dirigente britannica (nella stampa, nel mondo dello spettacolo e nell’accademia) che erano da sempre vicini alla destra conservatrice, ma questi atteggiamenti hanno finito per influenzare anche la sinistra, come si è visto in campagna elettorale, quando Starmer ha indicato negli opposti estremismi (di destra e di sinistra) gli avversari del suo Labour “cambiato”, mostrando scarsa sensibilità alle denunce di chi segnalava una crescita preoccupante di atteggiamenti razzisti e islamofobici in certi settori della società britannica.

Oggi Starmer, diventato nel frattempo primo ministro, corregge in parte il tiro sottolineando che le violenze degli ultimi giorni si devono a elementi di «estrema destra», contro i quali il suo governo minaccia misure draconiane, ma è chiaro che non sarà attraverso misure law & order che si potrà arginare la violenza razzista.

La radice del razzismo che esplode con violenza nelle strade di alcune città del Regno unito va cercata in un passato con cui non si sono fatti i conti fino in fondo. Non è un caso che tra i primi segnali della tendenza che è al centro delle cronache ci sono state le reazioni ostili, che talvolta hanno condotto anche a vere e proprie minacce, come nel caso dello storico Sathnam Sanghera, nei confronti di studiosi o artisti che affrontavano nei propri lavori temi scomodi del passato coloniale britannico. La favola pietosa di un paese felicemente multiculturale e multicolore, dal «corner shop» al palazzo di Windsor, cercava di occultare questo passato. Oggi il velo è caduto

iolenza nelle strade di alcune città del Regno unito va cercata in un passato con cui non si sono fatti i conti fino in fondo

La favola del paese multiculturale La protesta "Basta così" dell’estrema destra inglese a Sunderland, in Inghilterra - foto di Drik/Getty Images

 

 

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Il cantautore: “Dopo 50 anni da prof sono convinto che i programmi scolastici devono avere un’uniformità nazionale”

 

Roberto Vecchioni ci mette la faccia e la firma. In un video apparso nei profili social della Flc Cgil, il cantautore milanese spiega perché l’autonomia differenziata va abrogata. “Dopo 50 anni che bazzico la scuola – dice – sono convinto che i ragazzi sono tutti uguali e tutti devono avere diritto alla stessa istruzione. I programmi scolastici devono avere un’uniformità nazionale e non possono essere spezzettati. E soprattutto la cultura deve essere uguale per tutti”.

https://www.collettiva.it/speciali/spacca-italia/vecchioni-ci-mette-la-firma-lautonomia-mina-listruzione-uguale-per-tutti-nrini697?guid=nl-1722838507

 

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