Elettorale americana. La candidata dem ha disperatamente bisogno di una tregua in Medio Oriente per evitare l’emorragia di voti tra i giovani. Netanyhau ha un programma opposto
Proteste pro Palestina durante la convention democratica a Chicago foto Will Oliver/Ansa
Kamala Harris suscita, a ragione, l’entusiasmo dei democratici ma da oggi al 5 novembre l’attende un percorso di guerra irto di mine, fili spinati e trappole. Mine che potrebbero esplodere in ogni momento e rovesciare una situazione che sembra oggi positiva per lei e Walz.
La prima trappola, e di gran lunga più pericolosa, si chiama Benjamin Netanyahu. Il primo ministro israeliano non fa mistero di suoi obiettivi: mantenere il suo Paese in stato di guerra non solo contro i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania ma anche con Hezbollah in Libano e, se si presenterà l’occasione, con l’Iran, dopo l’enorme provocazione di assassinare un leader di Hamas in pieno centro di Teheran.
Tutto questo serve non solo ai suoi interessi di sopravvivenza politica ma anche ad eleggere Trump: Kamala Harris ha disperatamente bisogno di una tregua in Medio Oriente, se non altro per evitare l’emorragia di voti tra i giovani che vedono sfilare ogni sera sui teleschermi le immagini di donne e bambini straziati a Gaza.
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Quindi è perfettamente possibile, anzi probabile, che Netanyahu moltiplichi le azioni militari tra oggi e il 5 novembre, magari riservandosi una qualche sorpresa particolarmente spettacolare alla vigilia delle elezioni. Kamala, fino a che Joe Biden è presidente, ha le mani legate, quindi è particolarmente vulnerabile sul fronte della politica estera. La seconda mina vagante è ben nota, si chiama Elon Musk, con i suoi 200 miliardi di dollari di patrimonio, che intende spendere con generosità per far eleggere una seconda volta Trump. Il primo passo è stato comprare Twitter per l’assurda somma di 44 miliardi e ribattezzarlo X, oltre che trasformarlo in un megafono per l’estrema destra.
X ha circa 450 milioni di utenti attivi, pochi in confronto a Facebook, Instagram o Tik-Tok. Resta però il fatto che è seguito da 95 milioni di americani e che si presta perfettamente a diffondere false immagini e fake news a raffica. Per esempio, grazie all’intelligenza artificiale nei giorni scorsi si è visto un video in cui sembrava che Kamala si rivolgesse non ai suoi sostenitori ma a un’assemblea russa o cinese, davanti a una platea addobbata di bandiere rosse con falce e martello.
Nelle stesse ore, Trump twittava che il padre di Kamala Harris era un «compagno» e un «economista marxista», insinuando che Kamala avrebbe fatto una politica economica ispirata da lui (Donald Harris ha effettivamente scritto, nel 1978, Capital Accumulation and Income Distribution, un libro critico delle teorie economiche ortodosse, ma insegnava all’università Stanford, non proprio un covo di rivoluzionari).
IL TERZO OSTACOLO sulla strada di Kamal è lo stesso, iniquo, sistema elettorale. Due degli ultimi quattro presidenti sono stati eletti da una minoranza dei votanti. Delle ultime sei elezioni presidenziali una è stata rubata al legittimo vincitore dalla Corte Suprema (2000), su una seconda pesa il forte sospetto di manipolazioni del voto che hanno rovesciato il risultato in Ohio (2004), una terza è stata vinta da Trump che aveva ricevuto meno voti della Clinton (2016), mentre l’ultima (2020) ha provocato un tentativo di colpo di stato, il 6 gennaio 2021, che solo per caso non è andato in porto. In tutte, l’integrità del suffragio non era garantita da sistemi di votazione rigorosi e affidabili. Anche il risultato del 5 novembre è quindi nelle mani degli dei.
Tutto questo è la conseguenza del fatto che l’elezione del presidente non dipende dal voto dei cittadini ma da quello dei delegati nel collegio elettorale, eletti stato per stato. È quindi possibile che il candidato che riceve meno voti su scala nazionale ottenga una maggioranza nei cosiddetti swing states, gli stati in bilico dove poche migliaia, o perfino poche centinaia, di voti possono determinare la vittoria.
Quest’anno gli swing states sono i soliti: Pennsylvania, Wisconsin e Michigan al Nord, Georgia e North Carolina al Sud, Arizona e Nevada nel Sudovest. Per il momento Kamala appare in vantaggio dappertutto tranne che in Georgia e North Carolina ma si tratta di margini ristretti, che potrebbero facilmente cambiare nei prossimi due mesi e mezzo. Dal 2000 ad oggi i democratici non hanno mai vinto un’elezione presidenziale in North Carolina, anche se lo Stato si è leggermente spostato a sinistra, e hanno vinto solo una volta, nel 2020, in Georgia, con uno scarto di appena 11mila voti.
Se Trump conquistasse questi due stati, più la Pennsylvania, otterrebbe 270 voti nel collegio elettorale e tornerebbe alla Casa Bianca. Non solo: se perdesse in Pennsylvania ma vincesse in Nevada e Arizona, insieme ad uno dei due distretti del Maine (una concreta possibilità) otterrebbe 269 voti, ovvero una perfetta parità nel collegio elettorale. In questo caso la Costituzione prescrive che il compito di eleggere il presidente passi alla Camera dei rappresentanti, dove ogni Stato avrebbe un solo voto, indipendentemente dal numero dei suoi abitanti e dei suoi deputati. Purtroppo, la maggioranza delle delegazioni degli Stati alla Camera è controllata dai repubblicani, quindi un pareggio si tradurrebbe in una vittoria di Trump.
Come ha detto Alexandria Ocasio-Cortez alla Convention di Chicago, «la democrazia fa miracoli» però quest’anno i democratici dovranno davvero essere capaci di moltiplicare i pani e i pesci come accadde duemila anni fa sulle rive del lago di Tiberiade