La storia di un uomo che dopo il licenziamento lavora con contratti a chiamata: 3-4 euro l’ora, turni massacranti e sempre sotto ricatto
Achille ha 50 anni, è diplomato e dopo essere stato licenziato dal 2018 non riesce a trovare un lavoro vero, un tempo indeterminato con i contributi, la malattia, le tutele. Da sei anni va avanti con contratti intermittenti. In pratica lavora a gettone: lo chiamano, anche poche ore prima del servizio, e lui deve correre, altrimenti poi non lo chiamano più.
“Quanto mi pagano? 3-4 euro l’ora. Una miseria, per stare dodici ore in piedi, fermo, sotto il sole o fino all’una di notte”, racconta nella lettera che ha mandato a Collettiva per spiegare le storture di un sistema che vive in prima persona, sulla sua pelle.
Achille (ma il nome è di fantasia) è un precario addetto alla sicurezza agli eventi, ai concerti, allo stadio, di solito a Milano. Non ha sabati, domeniche, festivi, straordinari, nel senso che lavora anche in quei giorni ma non gli viene riconosciuta nessuna maggiorazione.
“I festivi mi vengono retribuiti come giornate normali – aggiunge –. Se mi fanno lavorare tutto il mese, tiro su 1.200 euro al massimo, ma non sempre ci arrivo. Anche perché vivo nella provincia di Como e quando mi chiamano per un servizio a Milano, 30 euro li guadagno ma 15 li spendo di benzina. Fatevi due conti su quanto mi resta in mano”.
Il contratto intermittente prevede pochi diritti e poche tutele. “Ho subìto un infortunio sul lavoro che sono riuscito a farmi riconoscere, anche se con non poche difficoltà – spiega –. Poi però la convalescenza è stata lunga, e dopo lo stop mi hanno scartato perché ho rifiutato diverse volte di fare servizio. Le condizioni comunque sono terribili. Garantire la sicurezza a un evento significa stare piantonato a un ingresso o in determinate aree anche per 12 ore di seguito. E se l’acqua e il cibo non te li porti da casa, nessuno te li fornisce. Una volta mi sono seduto perché ero stanco, faceva caldo e non c’era nessuno. Per questo mi hanno ripreso e mi sono arrabbiato. Se devo lavorare come un animale, me ne vado, gli ho detto. Sapete che cosa mi ha risposto il responsabile? Non te ne puoi andare, hai firmato un contratto e finché non hai finito resti qua. Un ricatto bello e buono”.
Achille ci confessa che ha mandato più di mille curriculum per tante posizioni diverse – addetto alle pulizie, sicurezza, magazziniere, impiegato – è riuscito a fare solo 4 o 5 colloqui, ma non sono andati bene.
“Questa è la mia storia, non c’è niente di inventato – conclude –. Sono un precario, convivo con la mia compagna ma non abbiamo figli. Come fai a pensare al futuro? È vergognoso che nel ventunesimo secolo ci siano realtà come questa, persone come me in queste condizioni, che a ben guardare non sono poi così lontane da quelle dei migranti che raccolgono i pomodori nei campi”.
Un’analisi della Cgil dimostra come Meloni faccia un uso di parte delle risorse del Pnrr. Procedure e risultati opachi, costi a fisarmonica, penalizzato il Sud
Le risorse europee destinate all’Italia per finanziare il Pnrr sono quasi – come si sa - 200 miliardi, tanti davvero ma per una ragione precisa: il Belpaese è quello in Europa con i divari maggiori, allora servono molti soldi perché quei divari devono essere ridotti. A cominciare da quelli territoriali, oltre che quelli di genere e generazionali. Non è un caso allora che nel Piano originario furono inseriti un paio di vincoli: il 40 per cento dei finanziamenti al Sud, il 30 per cento dei posti di lavoro generati dai progetti riservati alle donne. Peccato che il governo di destra quei vincoli proprio non li condivida e non li sopporta. Ma anziché dirlo apertamente li disattende surrettiziamente.
L’area Politiche dello sviluppo della Cgil ha elaborato uno studio sull’implementazione del cronoprogramma dei lavori finanziati con l’Ecobonus. “Rafforzamento dell’Ecobonus per l’efficienza energetica” è il titolo dell’investimento previsto dalla Missione 2 del Piano di ripresa e resilienza, l’obiettivo importante: ridurre di almeno il 40 per cento il consumo di energie e il miglioramento di due classi energetiche degli edifici residenziali. Una missione che tiene insieme piani diversi, innanzitutto la transizione ambientale, poi l’attenzione al clima, infine l’ammodernamento degli immobili utilizzando risorse pubbliche.
La campagna elettorale per le europee è finita, ma gli attacchi della Lega e non solo alle politiche green dell’Europa no. Proprio questa Missione sta a dimostrare come quegli attacchi e quelle polemiche sia infondate, basterebbe spendere bene le risorse. Magari rimanendo allo spirito del Piano, quello della riduzione dei divari, più investimenti al Sud, e magari più investimenti a favore di quegli edifici di residenzialità pubblica e situati nelle periferie, urbane e non.
Luigi Caramia, responsabile Pnrr della Cgil, si è affidato esclusivamente a fondi ufficiali e non contestabili: la pubblicazione del ministero dell'Ambiente e della sicurezza energetica (Mase) dell’elenco dei finanziamenti a carico del Piano nazionale di ripresa e resilienza relativi all’investimento 2.1. La fonte, quindi, è il governo e non possiamo che considerarla veritiera e autorevole. E siccome i numeri non mentono, quel che viene fuori è davvero assai poco coerente con i principi del Pnrr.
Il punto è che le anomalie di spesa che si trovano in questa missione, sono probabilmente trasversali e tutto il Pnrr. La prima riflessione di Christian Ferrari, segretario confederale della Cgil, leggendo lo studio è precisa e impietosa: “I dati ufficiali sull’utilizzo della quasi totalità delle risorse del Pnrr per finanziare gli interventi dell’Ecobonus con detrazione al 110%, sono esemplari delle patologie che si stanno manifestando nell’attuazione del Piano. Come più volte denunciato dalla Cgil – aggiunge il segretario - i criteri di scelta degli interventi finanziati, con particolare riferimento a quelli che sostituiscono le risorse nazionali (cosiddetti progetti in essere), risultano opachi se non completamente oscuri”.
Facciamo un passo indietro: le risorse dedicate dal Pnrr all’efficientamento energetico attraverso l’Ecobonus al 110% sono 13,95 miliardi di euro, di cui 10,255 miliardi sono a coperture di progetti in essere e quindi sostitutivi di risorse nazionali già stanziate. L’obiettivo è duplice: da un lato contribuire in misura significativa agli obiettivi di risparmio energetico e di riduzione delle emissioni fissati dal Piano nazionale integrato per l'energia e il clima dell'Italia per il 2030; dall’altro fornire un sostegno anticiclico al settore delle costruzioni e alla domanda privata per compensare gli effetti della flessione dell'economia.
Leggendo i numeri il tradimento è chiaro: i progetti finanziati sono 60.755. Le risorse complessivamente utilizzate sono pari a 13,726 miliardi di euro. Di queste poco meno di 3,617 miliardi di euro sono state spese nelle otto regioni del Mezzogiorno, ben al di sotto della soglia del 40% prevista dagli obbiettivi del Pnrr. I metri quadri oggetto di intervento sono oltre 17,5 milioni. Ma se oltre ai numeri assoluti si guardano i dettagli si scopre che in Lombardia e Veneto si spende quanto in tutto il Mezzogiorno: nella regione guidata da Fontana oltre due miliardi e 900milioni, in quella retta da Zaia quasi 1 miliardo e 600 milioni. Sarà un caso?
Nulla accade se i partiti di governo non vogliono. Alla faccia della necessità di aumentare i poteri con l’Autonomia differenziata e il premierato. Nella distribuzione assai squilibrata di queste risorse l’impronta leghista è fortissima. Aggiunge Ferrari: “La quota destinata al Mezzogiorno, appena il 26%, è largamente inferiore a quella che il Pnrr dovrebbe ordinariamente destinare a quei territori. Le differenze dei costi medi, poi, per metri quadri appaiono in molti casi inspiegabili e potrebbero essere oggetto di severi controlli ex post”.
Vi è un secondo tradimento: quello della trasparenza e della partecipazione degli attori sociali alla governance e alle decisioni del Piano. Insomma, un tradimento alla democrazia. Afferma il dirigente sindacale: “Nessuna informazione viene fornita rispetto all’effettivo raggiungimento, per ogni intervento, dell’obiettivo del risparmio di energia primaria di almeno il 40%, a fronte anche di varie procedure di infrazione attivate dall’Ue in tema di qualità dell’aria. Viene inoltre del tutto ignorato il tema della salute e sicurezza dei lavoratori delle imprese che hanno effettuato gli interventi di efficientamento energetico, sul quale non risulta alcuna verifica”.
Con quei soldi cosa è stato finanziato? Si son fatti cappotti ai palazzi o si è provveduto a quel che l’economista Jeremy Rifkin sosteneva necessario già oltre un decennio fa, cioè dotare ogni edificio, a partire da quelli pubblici, di pannelli fotovoltaici o altri impianti di autoproduzione da fonti rinnovabili? Difficile a dirsi, ma pare proprio di no. Il segretario della Cgil aggiunge: “Abbiamo sempre sostenuto la necessità di finanziare gli interventi relativi alle migliori prestazioni; di prevedere l’obbligo, ove possibile, di installare impianti per l’autoproduzione da fonti rinnovabili, di introdurre criteri di equità, fondamentali per sostenere prioritariamente e in modo pieno gli interventi sul patrimonio di edilizia residenziale pubblica e a favore di coloro che altrimenti non sarebbero stati in grado di realizzarli”.
Forse Ecobonus al 110% è troppo costoso. Forse si poteva rimodularlo, magari riducendo la percentuale e introducendo vincoli stringenti. E invece no, il decreto legge 39/24, sistemati gli edifici delle regioni del Nord, cancella l’Ecobonus e per di più il decreto Pnrr quater prevede venga fatta immediatamente una ricognizione sullo stato di avanzamento degli investimenti; se si trovano progetti per i quali non sono state assunte obbligazioni giuridicamente vincolanti, sono “definanziati”, tradotto anch’essi cancellati, e le relative recuperate saranno utilizzate per coprire i tagli al Fondo per lo sviluppo e la coesione, in caso di ulteriore avanzo per coprire i tagli ai ministeri. E la coerenza con gli obiettivi di Nex Generation Eu e del Pnrr viene definitivamente picconata.
Meloni ha davvero un’idea proprietaria dello Stato, e antica del governare. “Faccio io, decido io”. È l’idea nemmeno troppo nascosta che ispira il premierato, vengo eletta e per cinque anni faccio quel veglio senza dover rendere conto ne mediare con nessuno. Anche nella gestione del Pnrr è questo il principio ispiratore, conclude quindi Ferrari: “Si conferma l’idea del governo Meloni di utilizzare il Pnrr come uno strumento di parte e non come un’opportunità per l’intero Paese. Una scelta che rischia di far naufragare l’intero Piano, o quanto meno di ridurne pesantemente gli aspetti positivi sulla crescita del Paese (che deve essere ambientalmente e socialmente sostenibile) e sul miglioramento delle condizioni di vita e lavoro dei cittadini, proprio nel momento in cui si entra nella fase più intensa e complessa della sua attuazione”.
Si stanno accumulando 2-3mila quintali di spigole, cefali, orate e anguille morte alla foce sud di Ansedonia: il problema ora è sanitario. Turismo in ginocchio
Anche se sono stati già raccolti 700 quintali di pesce, l’odore della Laguna di Orbetello non invoglia a un bagno ristoratore. Quel che è peggio, lo scirocco è tornato a soffiare e continuerà a farlo. Quando tira il vento del sud gran parte della laguna va in crisi, si salva solamente la parte più a nord dello specchio d’acqua di ponente, quello gestito dal Wwf con una riserva naturale.
Il resto invece è dominato dai fenomeni di ipertrofia che negli ultimi giorni hanno causato la morte per anossia di migliaia e migliaia di pesci. I pescatori, che conoscono la laguna palmo a palmo, sono disperati. “La moria è molto più grave di quella del 2015 – ricorda Paolo Rossi, segretario della Flai Cgil di Grosseto –, siamo di fronte a un vero e proprio disastro ambientale con gravi conseguenze sanitarie, figlio di decenni di sottovalutazione dei problemi e di soluzioni emergenziali che non hanno mai preso in considerazione la laguna come un ecosistema da gestire in modo unitario”.
Dietro le parole di Rossi, la denuncia verso una politica che finora non è stata in grado di istituire un ‘ente laguna’ dotato di risorse adeguate per farsi carico della gestione del bacino. La Regione Toscana ha stanziato un milione di euro per l’emergenza, firmando lo stato di calamità. “Ma è una goccia nel mare, anzi nella laguna”, osserva il capo dipartimento pesca del sindacato, Antonio Pucillo.
“Appena l’anno scorso eravamo qui a lamentarci dei granchi blu, infestanti e voraci, ora stanno morendo anche loro per la mancanza di ossigeno nelle acque. In quell’occasione avevamo già denunciato che c’era un ‘caso laguna’ da affrontare, purtroppo siamo stati buoni profeti”.
Un’anguilla che sta asfissiando compare a pelo d’acqua. Massimiliano Porti pescatore dal 1986, una vita, dice di non aver mai visto una situazione del genere. “Io i pesci vorrei pescarli, non raccoglierli morti”. Invece da una settimana a questa parte i pescatori della laguna fanno proprio questo, tirano su carcasse su carcasse e cercano di smaltirle il più velocemente possibile perché il puzzo di pesce marcio, si sa, è insopportabile. Lui in questo grande specchio d’acqua faceva anche il bagno, è la sua casa, e si sente stringere il cuore nel vedere che l’area di levante è diventata un mare morto.
Anche Leandro Moretti è socio lavoratore della cooperativa ‘La Peschereccia’, per lui l’anzianità di servizio a Orbetello è addirittura di mezzo secolo. “In città le esalazioni tossiche ammorbano l’aria, da giorni. Il problema principale ora è senza dubbio quello sanitario, perché si stanno accumulando 2-3.000 quintali di spigole, cefali, orate e anguille morte alla foce sud di Ansedonia, dove c’è lo sgrigliatore che trattiene i pesci putrescenti per evitare che finiscano in mare”.
“Stiamo caricando centinaia di sacchi per rifiuti speciali su camion sigillati che portano i pesci morti in un centro di smaltimento, ma non facciamo pari”. Insomma non riescono ad arginare l’emergenza, e sì che sono i professionisti più esperti che si possa immaginare.
“Abbiamo perso tutto – denuncia Moretti –, lavoro e risorsa ittica sulla quale questo lavoro si regge”. Sono morti dagli avannotti a quelli di cinque chili. “Siamo così esasperati che abbiamo anche pensato di aprire gli sgrigliatori per far defluire i pesci morti in mare, lungo la spiaggia di Ansedonia, per costringere le istituzioni e la politica a farsi davvero carico del problema”.
Anche a livello locale nessuno ha aperto gli occhi per tempo, all’inizio il sindaco di Orbetello sminuiva il problema, in una riunione con i commercianti assicurava che erano morti appena 160 chili di pesce. Ora gli occhi li hanno aperti, anzi sgranati, perché l’emergenza non riguarda più solo i pescatori, notoriamente ultima ruota del carro, ma l’intero settore del turismo: le notizie corrono, è noto, e le immagini delle distese di pesci morti nella laguna sono state diffuse in mezza Europa.
“Continuiamo a negare i cambiamenti climatici – tira le somme Pucillo – e questi sono i risultati. Basta con operazioni spot, è necessario un progetto che metta al centro lavoro e ambiente, quindi la Laguna e la sua economia”. Una ferita aperta vedere la Laguna di Orbetello in queste condizioni, si tratta di un’area protetta con una biodiversità incredibile, dove nidificano ad esempio i fenicotteri rosa, e tante altre specie animali. Porti mostra un video con i fenicotteri in volo, e per un attimo l’odore di morte si attenua. Fa caldissimo, e continuerà a farlo ancora per settimane. Per salvare la Laguna di Orbetello bisogna fare presto, prestissimo.
I contratti sono scaduti, per il 2022-24 i soldi il governo non li mette. Poche risorse per gli aumenti, nulla per le assunzioni. Se non mobilitazione cosa?
Esiste un numero che spiega il contrasto tra governo e Fp Cgil: riguarda la soglia di aumento previsto dall’Aran (agenzia governativa che si occupa della contrattazione per i dipendenti pubblici) per gli aumenti previsti per i rinnovi contrattuali dei lavoratori e delle lavoratrici pubblici. È 5,78%, peccato che questo incremento ipotizzato per i rinnovi del triennio 2022-24 non solo sia più basso dell’incremento previsto nel triennio precedenti, ma è assai lontano dal mero aumento del costo della vita, cui corrisponde la diminuzione del potere di acquisto delle buste paga, causato dall’inflazione galoppante.
Ecco, se solo si volesse recuperare il potere di acquisto precedente senza ipotizzare aumenti, l’incremento dovrebbe essere del 17%. Davvero una bella differenza. Il datore di lavoro governo pensa di cavarsela con meno di un terzo del recupero dell’inflazione. È ben chiaro, allora, come qualunque trattativa sia minata da quella cifra che fa velo su tutto il resto, a cominciare dalla parte normativa del contratto.
Sono circa 3 milioni, come si sa rispetto ai colleghi degli altri Paesi europei percepiscono salari assai più bassi. Non solo: rispetto ai cittadini e alle cittadine residenti sono pochi, troppo pochi, quindi sottoposti a carichi di lavoro insopportabili. Pensiamo a medici e infermieri, ma anche agli assistenti sociali o a quanti lavorano nei Comuni, talmente pochi che per riuscire a sbrigare le pratiche legate al Pnrr molti enti locali hanno dovuto ricorrere ad assunzioni straordinarie a tempo determinato o ad avvalersi di professionisti esterni alle amministrazioni.
Il professor Paolo Zangrillo da quasi due anni siede alla scrivania del ministero della Pubblica amministrazione, ma parla come se non fosse lui il responsabile di quei tre milioni di donne e uomini che garantiscono il funzionamento dello Stato.
Affermava il ministro pochi giorni fa: “Dobbiamo lavorare per l'attrattività della pubblica amministrazione. Noi perderemo, da qui al 2032, un milione di persone che andranno in quiescenza. È un problema, ma è anche una grande opportunità”. Ha aggiunto che “le nuove generazioni non si accontentano del posto fisso, dobbiamo creare una pubblica amministrazione che sia capace di valorizzare il suo capitale umano. Abbiamo bisogno di essere attrattivi anche dal punto di vista retributivo, riconoscendo il valore delle persone".
La risposta a queste - forse - improvvide affermazioni arriva da Serena Sorrentino, segretaria generale della Fp Cgil: “Il ministro parla come se il dicastero responsabile non fosse il suo e come se le scelte del Governo Meloni non stiano smembrando la pubblica amministrazione. Sono anni che rivendichiamo un piano straordinario di assunzioni per far fronte al fatto che la generazione degli anni Ottanta, entrata in massa nel mondo pubblico, sarebbe arrivata al pensionamento in questi anni creando un vuoto amministrativo che in alcune amministrazioni è una vera desertificazione con chiusure di sedi, uffici e esternalizzazioni a fare da unico rimedio”.
Questo il punto: le risorse stanziate con la scorsa legge di bilancio, così come Cgil e Fp più volte avevano sottolineato, sono assolutamente insufficienti, sia per il rinnovo del contratto sia per il necessario piano straordinario di assunzioni. E allora non è affatto peregrina la richiesta di tutta la categoria, che all’ultimo incontro ha sottolineato Florindo Oliverio, segretario nazionale Fp Cgil: “Aspettiamo a chiudere i contratti, non c’è alcuna fretta di farlo. Occorre prima leggere testi e tabelle della prossima legge di bilancio. Lì dovranno essere stanziate le risorse che mancano per il rinnovo 2022-24”.
I sindacati e la contrattazione sono ritenuti dal governo, se va bene poco rilevanti, se va male un impaccio. Non è un caso che i diversi ministeri procedano per atti unilaterali. È capitato a dicembre per i lavoratori e le lavoratrici in divisa, è successo per gli addetti delle funzioni centrali del Dipartimento della giustizia.
Aggiunge a tal proposito Oliverio: “Aumentare le retribuzioni dei dipendenti pubblici è la nostra richiesta dall’inizio delle trattative in corso, sia al ministero della Giustizia, dove la responsabilità del ministro è di non dare impulso per la definizione del contratto integrativo e per il definitivo passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento, sia per tutto il comparto delle funzioni centrali”.
Forse è questo uno degli obiettivi di Meloni e dei suoi ministri: “Con i tanti atti unilaterali il governo conferma la volontà di mettere in discussione lo strumento del contratto collettivo nazionale di lavoro come autorità salariale e nella disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici. Conferma anche che il problema vero non è far parte o meno del comparto delle funzioni centrali o rientrare nel regime di diritto pubblico, ma avere a che fare con un governo, ministri e sottosegretari che hanno una visione proprietaria dello Stato e gestiscono le risorse pubbliche in maniera clientelare, dividendo le sorti delle lavoratrici e dei lavoratori fino al livello del singolo posto di lavoro, quando non addirittura erogando somme ad personam”.
Se dai ministeri, le agenzie statali e gli enti non economici si passa agli enti locali la musica non cambia. La segretaria nazionale Fp Cgil Tatiana Cazzaniga aggiunge: “Durante il terzo incontro con Aran dello scorso 11 luglio abbiamo ribadito che il 5,78% di aumento è totalmente insufficiente a garantire il riconoscimento dell’aumento del costo della vita dei dipendenti delle funzioni locali che sono, tra i dipendenti pubblici, quelli che percepiscono il salario più basso. Le risorse economiche stanziate, e in buona parte già erogate attraverso l’Indennità di vacanza contrattuale rafforzata, dovrebbero coprire indennità, produttività, incentivi, progetti, oltre al nuovo sistema di classificazione previsto nello scorso contratto e, visti gli scarsi finanziamenti, poco utilizzato. Se vogliamo rendere attrattivo lavorare in un ente locale bisogna investire: il contratto è una gamba, l’altra è un piano straordinario di assunzioni”.
La trattativa per il rinnovo del contratto di questo comparto è partita lo scorso marzo. Con una zavorra gravosissima: la profonda crisi del sistema sanitario nazionale, la carenza di medici e soprattutto infermieri, nonché la fuga di quanti in servizio cercano sbocco nel privato o all’estero. Lunghe liste di attesa, poche prestazioni, servizi insufficienti. Che le risorse stanziane fossero poche lavoratrici e lavoratori lo hanno sostenuto fin dall’autunno scorso, addirittura scioperando. Ma anche per loro vale un solo numero: 5,78%. Nulla sul piano straordinario di assunzione, e solo con l’ultimo decreto – finto – sulle liste di attesa si comincia a ipotizzare, ma dal 2025 (se tutto andrà come deve), di far saltare il tetto di spesa per il personale.
Per il segretario nazionale Fp Cgil Michele Vannini quel 5,78% “chiude qualsiasi prospettiva di sviluppo di carriera legata al sistema degli incarichi introdotti con il precedente contratto, così come impedisce l’altrettanto necessario adeguamento delle indennità. Non ci sono quindi, a oggi, strumenti adeguati a fermare l’emorragia di professioniste e professionisti che abbandonano il servizio pubblico anche a causa dei carichi di lavoro insostenibili.
Per di più, prosegue Vannini, dalle proposte “portate dall’Aran al tavolo fino a questo momento, in materia ad esempio di orario di lavoro, emerge con chiarezza l’intenzione di far fronte alle carenze di organico spremendo ulteriormente il personale in servizio. Una situazione nel complesso intollerabile, contro la quale abbiamo già dichiarato l’intenzione di proseguire con la mobilitazione”.
Se per le funzioni centrali o per il comparto sicurezza una qualsivoglia trattativa è cominciata, per medici e sanitari non è stato nemmeno presentato l’atto di indirizzo per il rinnovo contrattuale. Afferma allarmato Andrea Filippi, responsabile nazionale medici Fp Cgil: “Il decreto sulle liste d’attesa prevede la flat tax anche per le prestazioni aggiuntive dei medici dipendenti, senza risorse aggiuntive, ma finanziato con quelle del Fondo sanitario nazionale, sottraendole quindi alle assunzioni di personale. Da tempo chiediamo risorse aggiuntive per i rinnovi contrattuali 2022/24 che, a tutt'oggi, sono definanziati rispetto all'inflazione del triennio. E invece il governo risponde detassando la libera professione”.
Per Filippi questa è “la rappresentazione plastica di una scelta politica e di una visione frammentata del servizio sanitario nazionale. Si sta andando sempre più verso un rapporto di lavoro libero-professionale, in cui anche i dirigenti medici e sanitari, con contratti fermi e inadeguati, devono diventare, secondo il governo, imprenditori di se stessi, lavorando di più a cottimo, a prestazione aggiuntiva agevolata dalla detassazione”.
Tra le richieste che esulano dagli aumenti contrattuali ce n’è una che viene reiterata rinnovo dopo rinnovo senza che nulla accada. Può lo Stato garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici se non comincia dai suoi dipendenti? Poche settimane fa due vigili del fuoco sono morti mentre cercavano di spegnere un incendio, svolgendo la funzione per principale del loro lavoro. Nessuno ha ricordato che né loro né gli uomini e le donne del corpo della Polizia penitenziaria – pur svolgendo un lavoro pericoloso – hanno l’assicurazione Inail contro gli infortuni. Perché?
Nessuna reale risorsa né per i rinnovi contrattuali né per le assunzioni, per non parlare di adeguamento del valore dei buoni pasto o dell’aumento dei congedi parentali, magari partendo dall’innalzare quelli per la paternità. Nessun reale investimento, non solo economico, in formazione per affrontare le sfide tecnologie inevitabili. E per di più la surrettizia messa in discussione del ccnl. Che altro se non la mobilitazione? Lo scorso 31 luglio sono scesi in piazza gli operatori e le operatrici del comparto sicurezza. Poi viene agosto, e con settembre, a fianco alla straordinaria mobilitazione per la sottoscrizione del referendum contro l’autonomia differenziata, che se entrasse in vigore sancirebbe la definitiva crisi delle pubbliche amministrazioni, assisteremo – probabilmente – anche a quelle delle lavoratrici e dei lavoratori pubblici.
Da quel giorno per tutto il resto del 2024 siamo in debito con il pianeta: stiamo consumando l’equivalente di 1,7 pianeti all’anno
Il primo agosto scatta l’Earth Overshoot Day 2024, il giorno del sovrasfruttamento della Terra calcolato ogni anno dal Global Footprint Network, che indica come in soli 7 mesi l’umanità abbia già utilizzato ciò che la Terra impiega 12 mesi per rigenerare.
A livello globale stiamo consumando l’equivalente di 1,7 Pianeti all’anno, cifra drammatica che potrebbe arrivare nel 2030 a due pianeti sulla base delle tendenze attuali. Il WWF nell’ambito della sua campagna Our Future, ha comunicato in questi giorni alcuni consigli sui suoi canali social per gesti semplici che, se compissimo tutti, potrebbero ritardare l’arrivo di questa data di addirittura alcuni mesi.
L’Earth Overshoot Day si calcola dividendo la biocapacità del Pianeta (la quantità di risorse ecologiche che la Terra è in grado di generare in quell’anno) per l’impronta ecologica dell’umanità (la domanda delle nostre società per quello stesso anno) e moltiplicando tutto per 365, i giorni di un anno.
Questo vuol dire che da giovedì 1° agosto 2024 l’umanità ha già “finito” tutte le risorse che la Natura produce in un intero anno e inizia ad andare a debito. L’umanità, con i suoi oltre 8 miliardi di abitanti, consuma in quantità eccessive, oltre le capacità di rigenerazione (e riassorbimento) del Pianeta. 50 anni fa, nel 1974 l’Overshoot day cadeva il 30 novembre: sforavamo di un mese il nostro budget annuale. Nel 2004, il 2 settembre, nel 2014 il 5 agosto. La data è sempre andata anticipandosi e il nostro il nostro debito ecologico è cresciuto.
La persistenza per oltre mezzo secolo di questo stato di sovrasfruttamento della natura ha portato una drastica perdita di biodiversità, un eccesso di gas serra di origine antropica nell’atmosfera, i cui effetti stanno diventando più evidenti con l’aumento della frequenza e dell’intensità di ondate di calore, incendi boschivi, siccità e inondazioni, rappresentando una minaccia per la nostra stessa sopravvivenza.
Questa data si inserisce in un’estate da record, con il 21, 22 e 23 luglio che sono stati i tre giorni più caldi mai registrati al mondo dal 1940, secondo il Servizio europeo sul cambiamento climatico di Copernicus. Il 22 ha fatto segnare un record assoluto con una temperatura media globale di 17,16 gradi, che supera precedenti record: 17,09 °C del 21 luglio (il giorno prima) e 17,08 °C di un anno fa, il 6 luglio 2023. Quel che desta però maggiore preoccupazione è la tendenza dell’ultimo anno: giugno 2024 è stato il 13° mese consecutivo in cui la temperatura globale è stata fuori scala rispetto ai rispettivi mesi precedentemente registrati e il 12° in cui ha raggiunto 1,5°C al di sopra dei livelli preindustriali.
Secondo il WWF esistono molte soluzioni che possono essere adottate a livello di comunità o individualmente per avere un impatto significativo sul tipo di futuro in cui investiamo: per esempio se usassimo energia generata per il 75% da fonti rinnovabili (rispetto al 39% attuale) potremmo spostare in avanti l’Overshoot day di 26 giorni; il risparmio e l’uso di tecnologie di efficienza energetica esistenti per gli edifici, i processi industriali e la produzione di energia elettrica potrebbe far recuperare altri 21 giorni.
“Se fino agli anni 60 l’umanità era più o meno in equilibrio con la Natura, di anno in anno la data si è spostata scalando il calendario, per arrivare oggi all’inizio di agosto. Ciò significa che l’umanità è in overshoot ecologico da oltre 50 anni. Vivere costantemente al di sopra delle possibilità fisiche del nostro Pianeta è una possibilità limitata nel tempo, rischiamo un disastro ecologico: i beni e i servizi che sono alla base delle nostre società ed economie sono tutti prodotti da ecosistemi sani e funzionanti. Abbiamo ormai molte soluzioni mirate per invertire il sovrasfruttamento delle risorse e sostenere la rigenerazione della biosfera nella quale viviamo. Le opportunità provengono da tutti i settori della società. Anche solo mettere mano ai sistemi alimentari potrebbe ridurre il nostro debito: dimezzare il consumo di carne farebbe guadagnare altri 17 giorni, eliminare perdite e sprechi alimentari che affliggono il pianeta altri 13 giorni. È indispensabile agire ora e non perdere più tempo prezioso”, afferma Eva Alessi, Responsabile Sostenibilità del WWF Italia.
L’Italia è anche uno dei paesi con il più elevato debito ecologico. L’Overshoot Day per il nostro Paese è arrivato già il 19 maggio: da quella data, se tutti consumassero come noi saremmo in debito di 226 giorni con il Pianeta rispetto alla fine dell’anno. In pratica se tutti vivessero come gli italiani servirebbero 2,6 pianeti Terra per soddisfare i bisogni collettivi.
Non è vero che produrre più armi porti a un aumento dei posti di lavoro e del nostro Pil. Lo dimostra il rapporto di Iriad Review
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“L’industria bellica italiana dà un grande contributo al bilancio italiano”; “l’industria bellica italiana garantisce crescenti posti di lavoro”; “l’industria bellica italiana è l’unica tecnologicamente avanzata”; “l’industria bellica italiana non esporta in zone dove vi sono violazioni dei diritti umani”. Sono convinzioni diffuse, solamente alcune, spesso frutto di notizie propagate in modo ambiguo o impreciso.
Per dimostrarlo Iriad Review, la Rivista mensile dell’Istituto di ricerche internazionali archivio disarmo, ha pubblicato il rapporto “Più armi più lavoro una falsa tesi - Contributo per il Laboratorio permanente per una politica industriale di pace in Italia", a cura di Gianni Alioti (Weapons Watch) e di Maurizio Simoncelli (Iriad).
La ricerca mostra, ad esempio, che “i ricavi dell’industria italiana in campo strettamente militare rappresentano solo lo 0,5% del Pil del nostro Paese, secondo i dati forniti dalla Federazione aziende Italiane per l'aerospazio, la difesa e la sicurezza di Confindustria. Molto meno, ad esempio, dell’industria dell’Automotive che rappresenta il 5,2% del Prodotto interno lordo”.
Un’altra convinzione da smentire è quella secondo la quale l’industria bellica e aerospaziale siano le uniche tecnologicamente avanzate nel nostro Paese. In realtà tra i settori più innovativi troviamo “la robotica e l’automazione industriale, la produzione di macchinari, la produzione di auto e altri mezzi di trasporto (navi, treni, metropolitane), l’informatica e le telecomunicazioni, la biotecnologia, la farmaceutica, l’alimentare, le energie rinnovabili”, e altri ancora. E veniamo allora alla falsa credenza più propagandata, quella che riguarda l’incremento dell’occupazione.
“Nonostante in Italia dal 2013 al 2022, ci sia stata una crescita del 132% delle spese di investimento per armamenti, il numero degli occupati diretti nell’industria bellica è rimasto pressoché costante: intorno ai 30 mila addetti, pari allo 0,8% dell’occupazione dell’industria manifatturiera in Italia. Peggio del dato generale è l’andamento dell’occupazione nel comparto aeronautico della Leonardo spa, che ha registrato dal 2007 al 2022 un saldo negativo del 17%”, perdendo circa 2200 occupati. Se si prende poi in considerazione il settore aerospaziale, in quaranta anni il fatturato è aumentato del 366%, mentre l’occupazione ha registrato un calo del 7,2.
Sergio Bassoli, dell’area Internazionale della Cgil, ricorda che “già quando l’Italia prese l'impegno di acquistare più di 100 F35, si parlava di un impiego di nuova occupazione nello stabilimento di Cameri di oltre 10 mila lavoratori, invece non sono stati più di 1.500. È chiaro che c’è sempre l’obiettivo di gonfiare i benefici e i ritorni da investimenti militari”.
“Credo – prosegue – che l'opinione pubblica e gli addetti ai lavori non abbiano coscienza di quello che sta succedendo nel settore industriale italiano e internazionale. Guardiamo a Leonardo, un'azienda a partecipazione pubblica che nel giro di vent'anni ha invertito completamente i propri investimenti. È passata dal 75% di produzione di beni ad uso civile e 25% ad uso militare, all’esatto opposto: 75% militare e 25 civile. Di conseguenza siamo chiamati ad andare in guerra, quindi si pone il problema di come vada fermato questo circolo vizioso. Perché non possiamo continuare a essere indifferenti di fronte a scelte di politica economica ed estera che vanno in questa direzione, che hanno ripercussioni sul nostro Paese e sulla nostra società, che viene così preparata a un’epoca di guerre”.
In Italia l’argomento delle riconversioni industriali non viene seriamente affrontato, anche se Bassoli ricorda che “a livello sindacale negli anni ‘80 c'è stato un fortissimo impegno per fermare la produzione di armi. Ne è un esempio la vicenda dello stabilimento della Valsella Meccanotecnica”, che produceva mine antiuomo ed è stato riconvertito all’automotive. Ci sono poi esempi di riconversione al dual, la produzione di materiali sia a uso civile che militare, in Toscana in Umbria in Liguria. “L'approvazione della legge 185 del ‘90 è stato l'apice di questo impegno, e alle spalle c'era la mobilitazione del mondo sindacale sul fronte dei posti di lavoro, e della società civile con i movimenti per la pace. Inoltre c’erano anche fondi messi a disposizione dal programma Converse dell'Unione Europea”.
Con l’inizio degli anni ‘90 questa tendenza è andata scemando, fino ad arrivare ai giorni nostri, con un aumento vertiginoso delle spese nella produzione e nell’acquisto di armi. “C’è stato un forte incremento dei fatturati del comparto militare con un aumento della spesa pubblica per la difesa e per la produzione di armi, che ha raggiunto ormai i 2.200 miliardi di dollari a livello internazionale – afferma l’esperto della Cgil -. A livello nazionale è l'unica voce di spesa del bilancio che continua ad aumentare da più di vent'anni. Mentre abbiamo la riduzione di tutte le altre spese di bilancio, in particolare quelle sociali per i servizi”.
Le denunce sono senza dubbio encomiabili, ma pare non alzino a sufficienza il livello di sensibilità nell’opinione pubblica. Bassoli sottolinea come si sia “in una fase in cui la voce più forte è quella che dice ‘prepariamoci alla guerra’, giustificando le politiche industriali e le spese”. Di tutto questo “è responsabile il governo, ma anche altri partiti che al governo non sono, tanto che si è arrivati alla richiesta di scorporo di queste spese dai limiti al bilancio statale”. “È una questione politica e culturale - conclude - sulla quale poi il settore produttivo, finanziario e industriale, specula e fa azione di lobbing nei confronti della politica”.