Anche Faenza multietnica nella rete italo-albanese “network against migrant detention”
È tornata da Tirana la delegazione che ha rappresentato Faenza multietnica nella conferenza stampa fondativa del network against migrant detention: una rete internazionale contro la detenzione e la deportazione delle persone migranti.
Ad un anno dall’accordo Rama - Meloni ci siamo trovatə a Tirana con realtà, associazioni e collettivi albanesi e da tutta Italia per mostrare il nostro dissenso nei confronti di questo accordo incostituzionale.
Il Network Against Migrant Detention si oppone alla logica neocoloniale che questo accordo esprime, al modello di sicurezza che privilegia la protezione delle frontiere rispetto alla protezione della vita umana, e alla speculazione economica inevitabile che queste opere implicano.
Come Faenza multietnica abbiamo costituito il comitato “Romagna Welcome” per dare il benvenuto ai migranti che vengono fatti sbarcare a Ravenna, che ricordiamo dal 31/12/2022 sono più di 1500. Anche questo fa parte del piano disumano che il governo meloni sta attuando da anni.
L’accordo per la costruzione di centri di permanenza del rimpatrio in Albania è solo la punta dell’iceberg delle politiche razziste e fasciste che questo governo sta mettendo in atto.
Come Faenza multietnica, assieme alle associazioni albanesi, siamo state anche a Shengjin e Gjader per il secondo arrivo della nave Libra con a bordo solo 8 persone, che probabilmente torneranno in Italia in pochi giorni. Avremmo voluto dare il benvenuto anche qui, ma non ci sembrava appropriato: che benvenuto si può dare a persone che si ritrovano in detenzione, in un paese fuori Europa dopo infiniti viaggi in condizioni più che precarie per raggiungerla?
Riaffermiamo il nostro rifiuto rispetto alla scelta del governo italiano di sdoganare in Albania il modello di esternalizzazione delle frontiere, con l'intento di farlo divenire, come affermato dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, un sistema legittimato per l'Europa nei prossimi anni. Al contempo, ci opponiamo alle decisioni del governo albanese di Edi Rama di stringere accordi con governi neofascisti, come quello italiano guidato da Giorgia Meloni, giustificandoli come un "debito morale" che il popolo albanese dovrebbe all’Italia per l’accoglienza riservata ai rifugiati albanesi negli anni passati.
Ma le persone albanesi non dimenticano il trattamento a loro riservato dai governi italiani che si sono susseguiti negli anni. Non dimenticano che lo Stato italiano ha imprigionato migliaia di rifugiati albanesi nello stadio di Bari, lasciandoli lì per 7 giorni senza acqua né cibo.
Le persone albanesi non dimenticano come le loro sorelle venivano rapite in pieno giorno, spinte su gommoni e trafficate massivamente verso l'Italia, dove sono state sottoposte a ogni forma di abuso e sfruttamento.
Le persone albanesi non dimenticano la tragedia di Otranto, quando le navi della marina italiana causarono l’affondamento della nave Katër i Radës , provocando la morte di 81 persone.
Le persone albanesi non possono permettere che corpi militari e polizieschi italiani occupino intere aree del paese per far replicare su altri migranti quello che, trent'anni fa, lo Stato italiano ha permesso accadesse a loro.
È tempo di mobilitarsi per evitare che questo accordo diventi un modello per il controllo e il confinamento delle persone migranti. Per queste ragioni, il 1° e il 2 dicembre saremo nuovamente in Albania, in un’ampia mobilitazione dal basso e trasversale che attraverserà la città di Tirana e raggiungerà luoghi simbolo della repressione della libertà di movimento, come il comune di Lezha e le località di Shengjin e Gjader.
La lotta contro la realizzazione di qualsiasi altro CPR sul territorio italiano e per la chiusura di quelli che sono già operativi non può essere disgiunta dall’opposizione al processo di esternalizzazione dei dispositivi di controllo, repressione e criminalizzazione delle persone in movimento. No ai CPR in Italia, in Albania e altrove.
Se le alte sbarre che nascondono i lager cpr sono state costruite coi colori della bandiera europea allora è compito anche, soprattutto, degli europei abbatterle.
Non voglio fare l’avvocato d’ufficio di Landini e nemmeno il saccente prof d’italiano, faccio semplicemente il giornalista quale sono, ma “rivolta sociale” è chiaramente un’iperbole lessicale. Credo che nessuno con un minimo di sale in zucca – perfino il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera Foti che si è tanto scandalizzato – pensi davvero che il segretario generale della Cgil abbia l’intenzione bellicosa e rivoltosa di indossare il gilet giallo e assaltare la Bastiglia. E nemmeno di aizzare la folla contro Capitol Hill.
Anzi ricordo agli smemorati, di ieri e di oggi, che è la sede della Cgil ad essere stata assaltata dai fascisti tre anni fa. Da una matrice ancora sconosciuta all’attuale presidente del consiglio e alla sua cerchia. Quindi chi pensa che le parole di Landini istighino al disordine pubblico è in malafede oppure lo fa in modo strumentale. La verità è che siamo al solito festival dell’ipocrisia. Perché è quantomeno curioso che la critica provenga dalla stessa parte politica che fa dello scontro verbale e del linguaggio duro e puro un marchio di fabbrica.
Fatemi capire: non vi scandalizzate se Donald Trump dichiara pubblicamente che vorrebbe avere al suo fianco i generali di Hitler, e gridate allo scandalo se un leader sindacale rompe le catene facendo il proprio mestiere? E il mestiere di un sindacalista, degno di questo nome, è quello di rappresentare i bisogni e migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle persone. E di smascherare le menzogne del potere. La lista è lunga e alquanto indecorosa: dal pil fermo allo zero virgola al boom della precarietà, dalla povertà ai massimi livelli ai tagli alla sanità pubblica, dalle folli spese militari ai salari da fame.
Mi sembrano tutti ottimi motivi per ribellarsi e lanciare una vera rivolta sociale nel Paese che, tradotto nel Landini-pensiero, equivale semplicemente a mettere in campo tutti gli strumenti democratici a disposizione del sindacato: piazze, scioperi, manifestazioni, presidi, contrattazione, fino al referendum.
Non vedo nessuna istigazione alla violenza bensì una grande istigazione alla partecipazione. In un Paese anestetizzato, sfiduciato, scoraggiato, rassegnato, assuefatto alla marginalità, è ossigeno puro se qualcuno alimenta il sacro fuoco della lotta. Sana, democratica, propositiva. Per scardinare lo storytelling governativo che ci vuole sudditi e non cittadini. Che ci impone doveri togliendoci diritti.
Per dirla alla Martin Luther King “una rivolta è in fondo il linguaggio di chi non viene ascoltato”. Ecco, è ora di farci sentire.
Una punizione di tre mesi con stipendio dimezzato per aver criticato Valditara. Solidarietà del sindacato della conoscenza della Cgil: così si reprime la libertà di espressione
Alla fine il provvedimento è arrivato. Tre mesi di sospensione – con stipendio dimezzato – per l’insegnante e scrittore Christian Raimo, “reo” di aver mosso critiche politiche al ministro Valditara.
"E ora censurateci tutti”. Così la Flc Cgil nazionale e di Roma e Lazio commenta a caldo il provvedimento non giustificato da “reali violazioni disciplinari, e che sottende piuttosto l’obiettivo di instaurare un clima di controllo e intimidazione verso tutto il personale scolastico, utilizzando in modo strumentale il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici”.
Insomma, si legge in una nota, invece di tutelare l'integrità della professione, il codice viene sfruttato per reprimere e soffocare il libero dibattito, riducendo gli insegnanti a esecutori di una linea ministeriale priva di spazio per l’esercizio della piena cittadinanza”.
Provvedimento “di una gravità inaudita, poiché Raimo ha espresso le proprie valutazioni e idee in occasione di una manifestazione politica e non certo a scuola o durante il servizio”. Si tratta insomma di una “censura politica mascherata da sanzione disciplinare e prefigura una limitazione della libertà di espressione, garantita a tutti i cittadini nel nostro paese dalla Costituzione, indipendentemente dalla loro condizione lavorativa”.
Per questo è “inaccettabile che si tenti di minare il diritto di critica e di dissuadere i docenti e tutto il personale dall'esprimere liberamente il proprio pensiero. Questa azione rappresenta un grave segnale per tutta la comunità educante, indirizzando un monito inquietante: ogni voce dissenziente sarà punita.
La Flc Cgil, “oltre a esprimere piena solidarietà al prof. Raimo attuerà tutte le azioni di tutela legale e sindacale per impugnare il provvedimento e invita tutto il personale a partecipare alle iniziative che saranno messe in campo a difesa della libertà di espressione”.
Il provvedimento “è un atto gravissimo nel merito e nel metodo: non ci sono motivazioni oggettive e reali che giustificano i tre mesi di sospensione. Siamo davanti ad un uso strumentale e politico delle norme per colpire e punire un lavoratore che ha espresso la propria opinione sulle scelte politiche del ministro Valditara”. Commenta così Natale Di Cola, segretario generale Cgil Roma Lazio, sui social network il provvedimento disciplinare nei confronti del docente e scrittore.
“È tutta qui la gravità e la pericolosità di quanto sta avvenendo, ossia una violenta e antidemocratica repressione e inibizione del dissenso – aggiunge -. Dopo questo provvedimento, chi lavora nel pubblico quanto si sentirà libero di contestare o di protestare contro le scelte sbagliate del governo e dei ministri? Quanto libero si sentirà di partecipare ad un’assemblea sindacale e prendere parola? Quanto libero si sentirà di aderire ad uno sciopero?”.
Di Cola quindi avverte: “Non resteremo fermi davanti a chi vuole instaurare nei luoghi del lavoro e nel Paese un clima di controllo e di intimidazione. Sosteniamo Raimo, come sosteniamo tutti gli altri, per difendere la libertà di espressione”.
Si terrà domani, dalle 9 alle 13, nel Palazzo Podestà, l’evento organizzato dall’Ambulatorio Caritas diocesana di Faenza - Farsi Prossimo, intitolato “Gli ambulatori solidali: contrasto alle disuguaglianze in salute”. L’iniziativa si propone di affrontare il tema delle disuguaglianze sanitarie, con un focus particolare sulla salute dei migranti e delle persone più vulnerabili del territorio.
L’evento si aprirà con i saluti istituzionali dell’assessore Davide Agresti, responsabile Welfare per il Comune di Faenza, e di Donatina Cilla, direttrice del Distretto Sanitario di Faenza. La moderazione sarà affidata ad Antonella Caranese, che opera nell’Area Servizi alla Comunità dell’Unione.
La prima parte del programma prevede una presentazione a cura di Gabriella Reggi, dell’Associazione medici cattolici e volontaria di Farsi Prossimo, la quale illustrerà il lavoro e gli obiettivi dell’ambulatorio solidale di Faenza. A seguire, Giulia Silvestrini, direttrice dell’Igiene e Sanità Pubblica di Ravenna, parlerà di salute pubblica e determinanti sociali della salute, con particolare attenzione ai fattori che influenzano il benessere delle comunità migranti.
Un momento centrale dell’incontro sarà il tavolo aziendale dedicato a “Migranti e vulnerabilità”, dove interverranno Antonella Mastrocola, direttrice del Csm Ravenna, e Rossella Segurini, referente per l’assistenza sanitaria agli stranieri dell’Ausl. Durante il confronto verranno illustrate le modalità di accesso al Servizio sanitario nazionale per i migranti e le principali esenzioni disponibili, sottolineando le criticità e le opportunità di miglioramento del sistema. La seconda parte dell’incontro sarà caratterizzata da una tavola rotonda coordinata dal Gris (Gruppo regionale immigrazione e salute) della Società italiana di medicina delle migrazioni, rappresentato da Alice Cicognani e Sabina Giuliodori. Questo spazio sarà dedicato al confronto di esperienze tra diversi ambulatori solidali presenti sul territorio dell’Ausl della Romagna, che racconteranno il proprio lavoro e il loro impegno quotidiano. Saranno presenti rappresentanti di varie realtà, tra cui l’Ambulatorio Caritas diocesana di Faenza - Farsi Prossimo ODV, e altre associazioni e strutture sanitarie del territorio, che operano per offrire assistenza sanitaria ai più bisognosi e promuovere l’integrazione sociale.
L’incontro, patrocinato dall’Unione Faentina e dalla Fondazione Pro Solidarietate, sarà un’occasione per sensibilizzare la comunità sulle sfide e le opportunità nel campo della sanità solidale, e rappresenta un momento di riflessione e di progettazione di strategie condivise per ridurre le disuguaglianze sanitarie.Per informazioni: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Il segretario della Cgil spiega le ragioni dello sciopero generale del 29 novembre. “Non abbiamo un altro strumento che non sia quello di chiedere alle persone di scendere in piazza con noi e di battersi”
“Io credo che sia arrivato il momento di una vera e propria rivolta sociale perché avanti così non si può più andare”. La frase del segretario generale Maurizio Landini, a margine dell’assemblea nazionale delle delegate e dei delegati della Cgil a Milano, arriva alla fine di una lunga riflessione sulle ragioni che hanno portato la Cgil e la Uil a indire lo sciopero generale per il prossimo 29 novembre.
“Sarebbe utile che anche la politica si occupasse di questi temi, della condizioni materiali e di vita delle persone, perché i bisogni dei cittadini, il salario, la sanità, lo studio, la stabilità devono tornare al centro. E noi vogliamo migliorarle la condizione delle persone. E siccome la politica non ci ascolta, non abbiamo un altro strumento che non sia quello di chiedere alle persone di scendere in piazza con noi e di battersi, rinunciando a una giornata di stipendio, per dire basta a questa situazione”.
Cassa integrazione e chiusure, fondi tagliati, Stellantis che si disimpegna: il settore annaspa. De Palma, Fiom: “Da ex Fiat e governo nessuna risposta”
La transizione industriale, si dice. Ma qui il rischio è la “cessazione” industriale. Il comparto dell’automotive in Italia è arrivato a un drammatico livello di criticità. Il disimpegno di Stellantis, le difficoltà della Germania, il taglio al fondo del settore deciso dal governo, tutto sembra concorrere alla sua scomparsa. Un settore strategico per il Paese, che ancora oggi rappresenta l’11% del Pil nazionale.
La situazione italiana s’inserisce in un contesto continentale complicato. Le notizie provenienti dalla Volkswagen, intenzionata a chiudere tre fabbriche in Germania (con migliaia di licenziamenti) e a ridurre la capacità produttiva degli altri sette impianti tedeschi, sono molto allarmanti. Basti dire che Lamborghini e Ducati sono direttamente legate ad Audi e quindi al gruppo Volkswagen, e che gran parte della filiera della componentistica (soprattutto quella del Nord Italia) lavora per l’industria automobilistica germanica.
A questo lento declino lavoratori e sindacati stanno cercando di opporsi con ogni mezzo. Venerdì 18 ottobre Fiom Cgil, Fim Cisl e Uil Uil hanno organizzato uno sciopero generale, con manifestazione nazionale a Roma. Una settimana dopo, venerdì 25 ottobre, si sono fermati i lavoratori della filiera non metalmeccanica dell’automotive (il comparto della componentistica, in sostanza), per uno sciopero organizzato da Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil.
“Stiamo vivendo il fallimento del suo piano industriale relativo agli stabilimenti in Italia, che in verità piano industriale non è”, ha detto il segretario generale Fiom Cgil Michele De Palma intervenendo mercoledì 30 ottobre in Parlamento, nel corso di un’audizione informale da parte delle Commissioni Attività produttive di Camera e Senato in merito alla situazione dell’ex Fiat.
“È una semplice enunciazione di principi e di intenti non corroborati da impegni precisi e vincolanti”, prosegue il leader sindacale: “Non ci sono garanzie sulle produzioni future. E anche laddove ci sono annunci, l’avvio delle nuove produzioni è continuamente spostato in avanti, come ad esempio a Melfi. Non sono previsti modelli mass market e in non tutti gli stabilimenti sono previste future produzioni di modelli elettrici, come ad esempio a Pomigliano”.
Il vero problema di Stellantis in Italia, dunque, non è la transizione. “In Italia non si producono auto elettriche, a eccezione della 500 a Mirafiori, ma solo modelli ormai obsoleti esclusivamente endotermici”, riprende De Palma: “Le attuali produzioni in Italia sono ancora modelli decisi e allocati da Fca e non da Stellantis. L’amministratore delegato Tavares sostiene che le scelte industriali sono determinate dal mercato, un concetto utilizzato soprattutto per giustificare lo stop al progetto gigafactory di Termoli. Dovrebbe invece essere il contrario: le scelte industriali dovrebbero servire a ‘governare’ il mercato, soprattutto a delinearne il futuro”.
Quali sono le conseguenze di quest’assenza? Anzitutto l’uso massiccio degli ammortizzatori sociali, come sta avvenendo in tutti gli stabilimenti Stellantis in Italia. E c’è di più: “Da almeno dieci anni è in atto una politica di ristrutturazione strisciante attraverso le uscite volontarie incentivate dei lavoratori: 3.800 solo nel 2024, oltre 12 mila dal 2015. E, a domanda specifica su quando terminerà questo processo, non vi è stata alcuna risposta da parte dell’azienda”.
Il tavolo, avviato presso il ministero delle Imprese da quasi un anno e mezzo, ha l’obiettivo di trovare le condizioni per riportare la produzione in Italia al livello di 1 milione di veicoli all’anno. “Un obiettivo importante ma insufficiente a dare garanzie di saturazione a tutti gli stabilimenti”, spiega il segretario generale Fiom: “A fronte di una capacità installata di oltre 1,5 milioni di veicoli all’anno, riteniamo che l’obiettivo avrebbe dovuto essere quello di 1 milione di auto e 300 mila veicoli commerciali leggeri”.
Ma anche l’obiettivo di 1 milione di veicoli risulta oggi fuori portata. “La produzione nel 2024 – illustra il leader Fiom – difficilmente supererà le 400 mila unità, con un calo di oltre il 30 per cento rispetto l’analogo periodo del 2023 e conseguente a una dinamica che vede la produzione nazionale passare da 1,4 milioni nel 2000 ai livelli attuali. In questo contesto di progressivo arretramento, al tavolo automotive Stellantis non ha dato alcun tipo di garanzia sia produttiva sia occupazionale”.
Stellantis ha invece dichiarato di condividere l’obiettivo del tavolo solo a condizione che fossero garantiti dal governo incentivi agli acquisti con un piano pluriennale, la riduzione dei costi energetici e la protezione del mercato interno dall’ingresso di altri costruttori. “Tutto questo – chiosa De Palma – non può essere definito un piano industriale: Stellantis deve dare risposte al governo, ai sindacati, alle lavoratrici e ai lavoratori, al Paese”.
La situazione dell’ex Fiat ricade anche sulle numerose imprese dell’indotto e della componentistica, dove si registra un’ondata di chiusure e cassa integrazione. “Sono aziende – precisa il segretario generale – insediate nei territori degli stabilimenti Stellantis e con un rapporto di monocommitenza, o comunque con una percentuale del proprio fatturato molto significativo, verso la multinazionale. E sono attraversate da processi di ammortizzatori sociali che, in non pochi casi, sono ormai prossimi al termine di massimo utilizzo”.
A questa situazione si aggiungono le scelte sbagliate, o anche le non scelte, dell’esecutivo. “Al progressivo disimpegno di Stellantis si sommano l’assenza di politiche industriali e la cancellazione dei fondi per la transizione da parte del governo”, argomenta il segretario generale: “Nel corso del 2024 ha stanziato 950 milioni di euro come incentivo all’acquisto di auto non inquinanti. Scelta sbagliata, perché non condizionata a garanzie produttive e occupazionali in capo a Stellantis. Tanto che, appunto, le produzioni quest’anno stanno precipitando di oltre il 30 per cento rispetto all’anno scorso”.
L’automotive italiana avrebbe invece bisogno di un governo che anche in Europa spinga sulla transizione, ma con una dotazione straordinaria di risorse per rendere il passaggio socialmente sostenibile. “Le risorse pubbliche per la transizione verso la sostenibilità ambientale nell’auto – riprende il leader sindacale – vanno indirizzate alla salvaguardia delle prospettive dei lavoratori e dell’innovazione tecnologica, non alla salvaguardia dell’industria dell’auto così come la conosciamo oggi”.
“Sbagliata e incomprensibile” è anche la scelta del governo (nell’ambito della legge di stabilità) di ridurre dell’80 per cento i fondi per la transizione verde, la ricerca, gli investimenti del settore automotive e per il riconoscimento di incentivi all’acquisto di veicoli non inquinanti. “I fondi residuati – sottolinea De Palma – sono assolutamente insufficienti a garantire qualsiasi elemento di sostegno ai cambiamenti tecnologici, di formazione e riqualificazione degli addetti, di occupazione dei lavoratori impegnati nell’industria dell’auto”.
L’ultima questione riguarda la volontà del governo di attrarre produttori cinesi nel nostro Paese. “In Italia si producono oggi meno di 400 mila auto all’anno e se ne immatricolano poco meno di 1,5 milioni, quindi spazi per altri produttori ci sono”, conclude De Palma: “Vanno però posti vincoli e condizionalità da parte del governo: giusta applicazione dei contratti nazionali, rispetto dei diritti dei lavoratori, valorizzazione della filiera della componentistica. Questo può essere ottenuto anche attraverso la presenza negli asset societari di imprese italiane, ma anche direttamente dello Stato”.