Non è vero che produrre più armi porti a un aumento dei posti di lavoro e del nostro Pil. Lo dimostra il rapporto di Iriad Review
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“L’industria bellica italiana dà un grande contributo al bilancio italiano”; “l’industria bellica italiana garantisce crescenti posti di lavoro”; “l’industria bellica italiana è l’unica tecnologicamente avanzata”; “l’industria bellica italiana non esporta in zone dove vi sono violazioni dei diritti umani”. Sono convinzioni diffuse, solamente alcune, spesso frutto di notizie propagate in modo ambiguo o impreciso.
Per dimostrarlo Iriad Review, la Rivista mensile dell’Istituto di ricerche internazionali archivio disarmo, ha pubblicato il rapporto “Più armi più lavoro una falsa tesi - Contributo per il Laboratorio permanente per una politica industriale di pace in Italia", a cura di Gianni Alioti (Weapons Watch) e di Maurizio Simoncelli (Iriad).
La ricerca mostra, ad esempio, che “i ricavi dell’industria italiana in campo strettamente militare rappresentano solo lo 0,5% del Pil del nostro Paese, secondo i dati forniti dalla Federazione aziende Italiane per l'aerospazio, la difesa e la sicurezza di Confindustria. Molto meno, ad esempio, dell’industria dell’Automotive che rappresenta il 5,2% del Prodotto interno lordo”.
Un’altra convinzione da smentire è quella secondo la quale l’industria bellica e aerospaziale siano le uniche tecnologicamente avanzate nel nostro Paese. In realtà tra i settori più innovativi troviamo “la robotica e l’automazione industriale, la produzione di macchinari, la produzione di auto e altri mezzi di trasporto (navi, treni, metropolitane), l’informatica e le telecomunicazioni, la biotecnologia, la farmaceutica, l’alimentare, le energie rinnovabili”, e altri ancora. E veniamo allora alla falsa credenza più propagandata, quella che riguarda l’incremento dell’occupazione.
MA QUALI POSTI DI LAVORO?
“Nonostante in Italia dal 2013 al 2022, ci sia stata una crescita del 132% delle spese di investimento per armamenti, il numero degli occupati diretti nell’industria bellica è rimasto pressoché costante: intorno ai 30 mila addetti, pari allo 0,8% dell’occupazione dell’industria manifatturiera in Italia. Peggio del dato generale è l’andamento dell’occupazione nel comparto aeronautico della Leonardo spa, che ha registrato dal 2007 al 2022 un saldo negativo del 17%”, perdendo circa 2200 occupati. Se si prende poi in considerazione il settore aerospaziale, in quaranta anni il fatturato è aumentato del 366%, mentre l’occupazione ha registrato un calo del 7,2.
Sergio Bassoli, dell’area Internazionale della Cgil, ricorda che “già quando l’Italia prese l'impegno di acquistare più di 100 F35, si parlava di un impiego di nuova occupazione nello stabilimento di Cameri di oltre 10 mila lavoratori, invece non sono stati più di 1.500. È chiaro che c’è sempre l’obiettivo di gonfiare i benefici e i ritorni da investimenti militari”.
“Credo – prosegue – che l'opinione pubblica e gli addetti ai lavori non abbiano coscienza di quello che sta succedendo nel settore industriale italiano e internazionale. Guardiamo a Leonardo, un'azienda a partecipazione pubblica che nel giro di vent'anni ha invertito completamente i propri investimenti. È passata dal 75% di produzione di beni ad uso civile e 25% ad uso militare, all’esatto opposto: 75% militare e 25 civile. Di conseguenza siamo chiamati ad andare in guerra, quindi si pone il problema di come vada fermato questo circolo vizioso. Perché non possiamo continuare a essere indifferenti di fronte a scelte di politica economica ed estera che vanno in questa direzione, che hanno ripercussioni sul nostro Paese e sulla nostra società, che viene così preparata a un’epoca di guerre”.
POLITICHE DI RICONVERSIONE
In Italia l’argomento delle riconversioni industriali non viene seriamente affrontato, anche se Bassoli ricorda che “a livello sindacale negli anni ‘80 c'è stato un fortissimo impegno per fermare la produzione di armi. Ne è un esempio la vicenda dello stabilimento della Valsella Meccanotecnica”, che produceva mine antiuomo ed è stato riconvertito all’automotive. Ci sono poi esempi di riconversione al dual, la produzione di materiali sia a uso civile che militare, in Toscana in Umbria in Liguria. “L'approvazione della legge 185 del ‘90 è stato l'apice di questo impegno, e alle spalle c'era la mobilitazione del mondo sindacale sul fronte dei posti di lavoro, e della società civile con i movimenti per la pace. Inoltre c’erano anche fondi messi a disposizione dal programma Converse dell'Unione Europea”.
Con l’inizio degli anni ‘90 questa tendenza è andata scemando, fino ad arrivare ai giorni nostri, con un aumento vertiginoso delle spese nella produzione e nell’acquisto di armi. “C’è stato un forte incremento dei fatturati del comparto militare con un aumento della spesa pubblica per la difesa e per la produzione di armi, che ha raggiunto ormai i 2.200 miliardi di dollari a livello internazionale – afferma l’esperto della Cgil -. A livello nazionale è l'unica voce di spesa del bilancio che continua ad aumentare da più di vent'anni. Mentre abbiamo la riduzione di tutte le altre spese di bilancio, in particolare quelle sociali per i servizi”.
Le denunce sono senza dubbio encomiabili, ma pare non alzino a sufficienza il livello di sensibilità nell’opinione pubblica. Bassoli sottolinea come si sia “in una fase in cui la voce più forte è quella che dice ‘prepariamoci alla guerra’, giustificando le politiche industriali e le spese”. Di tutto questo “è responsabile il governo, ma anche altri partiti che al governo non sono, tanto che si è arrivati alla richiesta di scorporo di queste spese dai limiti al bilancio statale”. “È una questione politica e culturale - conclude - sulla quale poi il settore produttivo, finanziario e industriale, specula e fa azione di lobbing nei confronti della politica”.