Senato della Repubblica
Senatrice a vita Liliana Segre
Signor Presidente, Care Colleghe, Cari Colleghi,
continuo a ritenere che riformare la Costituzione non sia una vera necessità del nostro Paese. E le drastiche bocciature che gli elettori espressero nei referendum costituzionali del 2006 e del 2016 lasciano supporre che il mio convincimento non sia poi così singolare.
Continuo anche a ritenere che occorrerebbe impegnarsi per attuare la Costituzione esistente. E innanzitutto per rispettarla. Confesso, ad esempio, che mi stupisce che gli eletti dal popolo – di ogni colore – non reagiscano al sistematico e inveterato abuso della potestà legislativa da parte dei Governi, in casi che non hanno nulla di straordinariamente necessario e urgente.
Ed a maggior ragione mi colpisce il fatto che oggi, di fronte alla palese mortificazione del potere legislativo, si proponga invece di riformare la Carta per rafforzare il già debordante potere esecutivo.
In ogni caso, se proprio si vuole riformare, occorre farlo con estrema attenzione. Il legislatore che si fa costituente è chiamato a cimentarsi in un’impresa ardua: elevarsi, librarsi al di sopra di tutto ciò che – per usare le parole del Leopardi – “dall’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Sollevarsi dunque idealmente tanto in alto da perdere di vista l’equilibrio politico dell’oggi, le convenienze, le discipline di partito, tutto ciò che sta nella realtà contingente, per tentare di scrutare quell’ “Infinito” nel quale devono collocarsi le Costituzioni. Solo da quest’altezza si potrà vedere come meglio garantire una convivenza libera e sicura ai cittadini di domani, anche in scenari ignoti e imprevedibili.
Dunque occorrono, non prove di forza o sperimentazioni temerarie, ma generosità, lungimiranza, grande cultura costituzionale e rispetto scrupoloso del principio di precauzione. Non dubito delle buone intenzioni dell’amica Elisabetta Casellati, alla quale posso solo esprimere gratitudine per la vicinanza che mi ha sempre dimostrato. Poiché però, a mio giudizio, il disegno di riforma costituzionale proposto dal governo presenta vari aspetti allarmanti, non posso e non voglio tacere. Il tentativo di forzare un sistema di democrazia parlamentare introducendo l’elezione diretta del capo del governo, che è tipica dei sistemi presidenziali, comporta, a mio avviso, due rischi opposti.
Il primo è quello di produrre una stabilità fittizia, nella quale un presidente del consiglio cementato dall’elezione diretta deve convivere con un parlamento riottoso, in un clima di conflittualità istituzionale senza uscita. Il secondo è il rischio di produrre un’abnorme lesione della rappresentatività del parlamento, ove si pretenda di creare a qualunque costo una maggioranza al servizio del Presidente eletto, attraverso artifici maggioritari tali da stravolgere al di là di ogni ragionevolezza le libere scelte del corpo elettorale. La proposta governativa è tale da non scongiurare il primo rischio (penso a coalizioni eterogenee messe insieme pur di prevalere) e da esporci con altissima probabilità al secondo. Infatti, l’inedito inserimento in Costituzione della prescrizione di una legge elettorale che deve tassativamente garantire, sempre, mediante un premio, una maggioranza dei seggi a sostegno del capo del governo, fa sì che nessuna legge ordinaria potrà mai prevedere una soglia minima al di sotto della quale il premio non venga assegnato.
Paradossalmente, con una simile previsione la legge Acerbo del 1923 sarebbe risultata incostituzionale perché troppo democratica, visto che l’attribuzione del premio non scattava qualora nessuno avesse raggiunto la soglia del 25%. Trattando questa materia è inevitabile ricordare l’Avvocato Felice Besostri, scomparso all’inizio di quest’anno, che fece della difesa del diritto degli elettori di poter votare secondo Costituzione la battaglia della vita. Per ben due volte la Corte Costituzionale gli ha dato ragione, cassando prima il Porcellum e poi l’Italicum perché lesivi del principio dell’uguaglianza del voto, scolpito nell’art. 48 della Costituzione. E dunque, mi chiedo, come è possibile perseverare nell’errore, creando per la terza volta una legge elettorale destinata a produrre quella stessa “illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare” ?
Ulteriore motivo di allarme è provocato dal drastico declassamento che la riforma produce a danno del Presidente della Repubblica. Il Capo dello Stato infatti non solo viene privato di alcune fondamentali prerogative, ma sarebbe fatalmente costretto a guardare dal basso in alto un Presidente del Consiglio forte di una diretta investitura popolare.
E la preoccupazione aumenta per il fatto che anche la carica di Presidente della Repubblica può rientrare nel bottino che il partito o la coalizione che vince le elezioni politiche ottiene, in un colpo solo, grazie al premio di maggioranza.
Anzi, è addirittura verosimile che, in caso di scadenza del settennato posteriore alla competizione elettorale, le coalizioni possano essere indotte a presentare un ticket, con il n° 1 candidato a fare il capo del governo ed il n° 2 candidato a insediarsi al Quirinale, avendo la certezza matematica che – sia pure dopo il sesto scrutinio (stando all’emendamento del Sen. Borghi) – la maggioranza avrà i numeri per conquistare successivamente anche il Colle più alto.
Ciò significa che il partito o la coalizione vincente - che come si è visto potrebbe essere espressione di una porzione anche assai ridotta dell’elettorato (nel caso in cui competessero tre o quattro coalizioni, come è già avvenuto in un recente passato) - sarebbe in grado di conquistare in un unico appuntamento elettorale il Presidente del Consiglio e il governo, la maggioranza assoluta dei senatori e dei deputati, il Presidente della Repubblica e, di conseguenza, anche il controllo della Corte Costituzionale e degli altri organismi di garanzia. Il tutto sotto il dominio assoluto di un capo del governo dotato di fatto di un potere di vita e di morte sul Parlamento.
Nessun sistema presidenziale o semi-presidenziale consentirebbe una siffatta concentrazione del potere; anzi, l’autonomia del Parlamento in quei modelli è tutelata al massimo grado. Non è dunque possibile ravvisare nella deviazione dal programma elettorale della coalizione di governo – che proponeva il presidenzialismo – un gesto di buona volontà verso una più ampia condivisione. Al contrario, siamo di fronte ad uno stravolgimento ancora più profondo e che ci espone a pericoli ancora maggiori. Aggiungo che il motivo ispiratore di questa scelta avventurosa non è facilmente comprensibile, perché sia l’obiettivo di aumentare la stabilità dei governi sia quello di far eleggere direttamente l’esecutivo si potevano perseguire adottando strumenti e modelli ampiamente sperimentati nelle democrazie occidentali, che non ci esporrebbero a regressioni e squilibri paragonabili a quelli connessi al cosiddetto “premierato”.
Non tutto può essere sacrificato in nome dello slogan “scegliete voi il capo del governo!” Anche le tribù della preistoria avevano un capo, ma solo le democrazie costituzionali hanno separazione dei poteri, controlli e bilanciamenti, cioè gli argini per evitare di ricadere in quelle autocrazie contro le quali tutte le Costituzioni sono nate.
Istat: tra poveri, a rischio e con gravi deprivazioni, si sfiorano i 20 milioni di donne e uomini. Barbaresi, Cgil: “Emergenza da affrontare subito”
Se diminuiscono i redditi reali delle famiglie, italiane come si fa ad affermare che le stesse stanno meglio? Ebbene, è proprio questo quel che è accaduto: mentre l’Istat pubblicava il Report su “Condizioni di vita e reddito delle famiglie italiane 2023” vari esponenti del governo e della maggioranza celebravano il tripudio per il miglioramento delle condizioni economiche delle stesse. I numeri on mentono, ma se manipolati possono trarre in confusione. E allora cerchiamo di leggerli per bene questi dati.
Secondo l’Istituto nazionale di statistica nel 2023 il 22,8% della popolazione è a rischio povertà o forte deprivazione sociale, in leggero calo rispetto all’anno precedente e contemporaneamente aumenta leggermente la quota di popolazione in grave deprivazione materiale e sociale (4,7% rispetto al 4,5%). Quel che forse andrebbe considerato con assai maggiore attenzione di quanto non risulta essere stato fatto è un passaggio del Report: “Nel 2022 il reddito medio delle famiglie (35.995 euro) aumenta in termini nominali (+6,5%), mentre segna una netta flessione in termini reali (-2,1%) tenuto conto della forte accelerazione dell’inflazione registrata nell’anno”. Siccome ben sappiamo come l’inflazione pesi assai di più sui redditi medio bassi, quanto davvero è diminuito il potere d’acquisto delle famiglie che meno guadagnano?
Meloni e il suo governo, aiutati dagli uomini e dalle donne della maggioranza, esultano per il lieve calo di quanti rischiano la povertà, dimenticandosi degli altri numeri. Il richiamo netto arriva dalla Cgil: “Ancora una volta l’Istat certifica un’emergenza che deve essere affrontata urgentemente: 13,4 milioni di persone sono a rischio povertà ed esclusione sociale. Seppur in calo rispetto all’anno scorso per l’aumento dei redditi nominali delle famiglie, che subiscono però una netta flessione in termini reali perché erosi dall’inflazione, resta un dato allarmante”. È quanto ha dichiarato la segretaria confederale della Cgil Daniela Barbaresi, appena i dati sono stati resi pubblici.
Agli oltre 13 milioni di persone a rischio povertà – che certo bene non se la passano – , a quanti si trovano in una condizione di grave deprivazione, vanno purtroppo aggiunti gli uomini e le donne che si trovano in una condizione di povertà assoluta. Ebbene, secondo le stime preliminari sempre dell’Istat: “Nel 2023, le famiglie in povertà assoluta si attestano all’8,5% del totale delle famiglie residenti (erano l’8,3% nel 2022), corrispondenti a circa 5,7 milioni di individui”.
È colpa dei salari bassi? Ricordiamo che il governo ha impedito non solo l’approvazione ma la stessa discussione parlamentare di una norma sul salario minimo legale. È colpa della sempre maggiore precarizzazione del lavoro? Ricordiamo che con il decreto lavoro dello scorso anno la presidente Meloni e la ministra del Lavoro Calderone hanno ulteriormente tolto vincoli alla precarietà. Per contrastare questa deriva la Cgil ha promosso ben due quesiti referendari. Sarà l’uso smodato del part-time involontario che colpisce soprattutto le donne, sta di fatto che l’aumento del numero degli occupati non fa diminuire né i poveri assoluti né salva dal rischio impoverimento. Infatti si registra la diminuzione della popolazione in condizione di bassa intensità di lavoro (-9,2%), e contemporaneamente un aumento della quota di popolazione in condizione di grave deprivazione materiale e sociale (+4,4%).
L’area con la quota di individui a rischio di esclusione sociale (39%) e povertà più alta è il Mezzogiorno (32,9 %) il Nord Ovest si attesta al 13 e all’11,1%, il Nord Est all’11 e 8,7%, mentre al Centro si registra il 19,6 e 16. “In questo scenario – ha aggiunto la dirigente sindacale – l’autonomia differenziata aggraverà ulteriormente la situazione nel Mezzogiorno, dove anche l’incidenza della povertà è maggiore, le diseguaglianze nel Paese sono destinate ad aumentare”.
Sempre con il decreto lavoro, lo scorso anno, il governo ha abolito il Reddito di cittadinanza, facendoci raggiungere il triste primato di essere pressoché l’unico Paese europeo a non avere strumenti di contrasto alla povertà. E cosa stia accadendo con i nuovi strumenti non è dato sapere. Non è un caso che Barbaresi abbia ricordato: “Si diventa poveri anche perché non ci sono adeguate politiche di contrasto ai fattori che determinano la povertà: politiche inclusive fatte di percorsi che prendano in carico e supportino le persone ad uscire dalla marginalità, che permettano ai servizi pubblici di occuparsi dei bisogni complessi delle persone e delle famiglie disagiate. Bisogni non solo economici ma anche abitativi, sociali, sanitari, educativi, assistenziali”. “Il governo Meloni – ha aggiunto la segretaria confederale – non solo ha cancellato il Reddito di cittadinanza, ma è contro il salario minimo, ha azzerato i fondi per gli affitti e per la morosità incolpevole, non investe nell’edilizia residenziale pubblica”.
Si è appena chiusa la settimana degli stati generali delle famiglie; la settimana in cui la ministra per la Matalità, la famiglia e le pari opportunità ha affermato che “la maternità è il vero lavoro socialmente utile”. Oltre a essere un’affermazione altamente discutibile, la ministra si è dimenticata di aggiungere che questo esecutivo ha cancellato oltre mille posti di asilo nido previsti dal Pnrr, non ha aumentato i congedi di paternità, e ha deciso di non dare attuazione al Family Act, lasciando solo – e per fortuna – l’Assegno unico e cancellando tutto il resto.
A questo proposito la dirigente sindacale ha sottolineato: “Un sostegno importante alle famiglie è l’Assegno unico universale per i figli (Auuf), una misura dalla Cgil sempre supportato e che ha riguardato 7,8 milioni di beneficiari. Tuttavia non si può trascurare quella fascia sia limitata alle sole famiglie che nel passaggio dal vecchio sistema degli Anf al nuovo hanno subito delle perdite economiche. Tra loro particolarmente grave è la situazione delle persone migranti con nucleo familiare nel Paese di residenza, che rimangono escluse dalla nuova misura: un vulnus che da tempo chiediamo sia affrontato e risolto”.
Rispettare e dare attuazione alla Costituzione. Nella Carta, infatti, è messo nero su bianco che esistono diritti di cittadinanza come istruzione e sanità che, se davvero esigibili, concorrerebbero a arginare il rischio impoverimento. L’appuntamento è già scritto in agenda: il 25 maggio a Napoli a Piazza Dante per una nuova tappa de La Via Maestra “Per una Italia capace di futuro, per una Europa giusta e solidale”.
Conclude Barbaresi: “Rendere esigibile il diritto di tante persone all’inclusione sociale, economica e a una condizione di vita migliore è una priorità per il nostro Paese”.
Appello delle associazioni della Via Maestra sull’ambiente, per la manifestazione del 25 maggio a Napoli: se Europa e Italia frenano, pagheranno i lavoratori
In questi mesi La Via Maestra non si è fermata. Dopo la grande manifestazione del 7 ottobre a Roma e in vista della mobilitazione di sabato 25 maggio a Napoli, le più di cento associazioni promotrici dell’iniziativa hanno proseguito i percorsi di riflessione e discussione sui temi che hanno dato vita a questa esperienza e che sono alla base dell’appello: dal contrasto alle riforme istituzionali, come autonomia differenziata e premierato, che approfondiscono le disuguaglianze e mortificano la partecipazione democratica, al lavoro, dal welfare all’istruzione, dalla sanità pubblica all’ambiente.
Ambito, quest’ultimo, che ha bisogno di particolare attenzione perché a poco meno di un mese dalle elezioni europee si registrano arretramenti su alcuni pilastri del Green Deal: la legge sul ripristino della natura è stata bloccata dal Consiglio, la proposta di regolamento per ridurre l’uso dei pesticidi è stata ritirata, mentre diversi governi si oppongono alla direttiva sulla qualità dell’aria. E anche la reintroduzione di vincoli di bilancio stringenti della “governance europea” renderanno sempre più difficile realizzare quegli investimenti necessari per guidare una giusta transizione ecologica.
“È di ieri il via libera del Consiglio Ue al nuovo regolamento europeo sugli standard per le emissioni di CO2 dei veicoli pesanti, che modifica e rafforza le norme esistenti, al quale l’Italia ha votato contro – fa notare Simona Fabiani, responsabile Cgil politiche per il clima, il territorio, l’ambiente e la giusta transizione -. Questo, che è solo l’ultimo voto contrario in ordine di tempo del nostro Paese alle disposizioni di riduzione, è lo specchio di quello che viene fatto e deciso qui. Abbiamo un governo negazionista che vuole trasformare l’Italia in un hub del gas e che ha bloccato tutti gli investimenti per la riconversione ecologica. Il Pniec, piano nazionale integrato per l’energia e il clima, non rispetta molti dei target europei, compie scelte di politica energetica incentrate per lo più sull’incremento delle fonti fossili, non sviluppa politiche industriali e per la giusta transizione”.
Anche in ambito europeo si preme sull’acceleratore dello smantellamento del Green Deal, un processo che è iniziato formalmente nel 2022 con l’inserimento nella tassonomia verde, e cioè nella lista delle produzioni compatibili con la sostenibilità nella fase di transizione all'energia pulita, del nucleare e del gas. Negli ultimi mesi e anche nelle ultime settimane, con l’avvicinarsi delle elezioni, c’è stata un’inversione di rotta su tutta una serie di disposizioni, con direttive ammorbidite o sulle quali si è addirittura tornati indietro.
E in Italia? “In Italia stiamo frenando sulle politiche verdi anziché accelerare, cosa che va contro i nostri stessi interessi – afferma Maria Grazia Midulla, coordinatrice del focus group lavoro, ambiente, giusta transizione della Via Maestra -. Se noi rallentiamo gli altri non ci aspettano, anzi. Giusta transizione non vuol dire transizione lenta ma veloce. Dobbiamo stringere i tempi per poter intercettare i benefici, altrimenti rischiamo dei veri contraccolpi, soprattutto nel campo dell’occupazione. Nel settore auto, per esempio, negli ultimi anni la trasformazione verso l’elettrico ha subito uno stop, tuttora in atto. Peccato che il mondo stia andando invece in quella direzione”.
Il primo prototipo di auto elettrica fu messo a punto dalla Fiat, azienda che avrebbe potuto essere all’avanguardia ma che invece un po’ per scelta e un po’ spinta da un sistema industriale che puntava sulle fossili, favorì i veicoli a metano. Fino a far diventare l’Italia il Paese con la più alta percentuale di vetture a gas.
“Ecco, questo è l’esempio perfetto di come il legame e la dipendenza dalle fossili non ha portato ad alcun volano di competitività per il nostro Paese, né economico e né ambientale”, aggiunge Midulla. La mobilità, in particolare quella collettiva, è uno dei temi al centro della discussione della Via Maestra perché mentre si ipotizza uno spostamento del 10 per cento del trasporto da individuale a collettivo, non si mette neppure una risorsa affinché questo passaggio avvenga.
“Se si creerà tanta nuova occupazione, maggiore di quella che si perderà, in questo caso bisognerà puntare alla realizzazione di una filiera italiana degli autobus elettrici – aggiunge Fabiani -. Altrimenti saremo costretti a importare le tecnologie dall’estero e i posti di lavoro saranno altrove e non da noi. Quindi se non ci accelera, avremo solo le ricadute negative della transizione sullo sviluppo e l’occupazione”.
Stesso discorso si può fare per la riqualificazione degli edifici, delle aree degradate e delle periferie anche attraverso la direttiva europea Case green, sulla quale in un primo momento il governo ha preso le distanze, fino ad arrivare al paradosso che, mentre in Europa di prevede di riconvertire gli edifici non a norma, da noi sono in discussione nuovi condoni edilizi.
“Tutto quello che ora si sta facendo in vista delle elezioni europee di giugno è spingere di più sugli armamenti, sull’industria, la produzione e il consumo delle armi anziché dare un sostegno alle politiche di riconversione – conclude la dirigente Cgil -. Gli investimenti comuni europei dovrebbero portare avanti uno sviluppo industriale delle tecnologie a zero emissioni, non degli armamenti e della guerra”.
Nel primo anniversario dai tragici eventi di maggio 2023, Legambiente approfondisce con esperti, amministratori locali, Regione e Autorità di distretto gli interventi da mettere in campo.
Gli eventi estremi accaduti in ER non possono essere considerati un caso isolato. Lo scenario imposto dalla crisi climatica in atto ci impone una maggiore consapevolezza e conoscenze tecnico-scientifiche, per un nuovo approccio alla gestione del rischio e al governo del territorio.
Ridare spazio ai fiumi, fermare il consumo di suolo, interventi di ripristino nelle aree collinari e di montagna dando priorità a percorsi di rinaturalizzazione e un approccio innovativo alla ricostruzione che metta al centro interventi di adattamento e delocalizzazioni.
Questi i temi al centro del convegno organizzato a Faenza nel primo anniversario dall’alluvione per confrontarci sul piano degli interventi da mettere in campo. All’incontro hanno partecipato Davide Ferraresi e Francesco Occhipinti, presidente e direttore di Legambiente Emilia Romagna, Paola Mercogliano, CMCC Foundation, Monica Guida, dirigente Settore Difesa del territorio, Regione Emilia-Romagna, Andrea Nardini, ingegnere idraulico, Co-fondatore Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale, Piero Cavalcoli, urbanista, Giovanni Legnini, Commissario Straordinario ricostruzione Ischia, Irene Priolo, vicepresidente Regione Emilia Romagna, Massimo Isola, Sindaco Faenza (Ra), Paride Amanti, Segreteria Regionale CGIL E.R., Alessandro Bratti, Segretario Generale Autorità di Bacino Distrettuale Fiume PO, Eva Cerri, Rappresentante Comitato cittadini alluvionati, Giancarlo Jader Dardi, Sindaco Modigliana (Fc) e Giorgio Zampetti, Direttore generale Legambiente.
In Emilia-Romagna dal 1 al 18 maggio sono caduti oltre 4,5 miliardi di metri cubi d’acqua; sono esondati 23 fiumi, oltre 100 comuni sono stati coinvolti, sono stati censiti 65.598 eventi franosi e 1.950 infrastrutture stradali sono state coinvolte da dissesto. In soli 17 giorni sono stati 350 i milioni di metri cubi d’acqua che si sono riversati nell’areale più colpito, circa 800 chilometri quadrati di territorio compresi tra l’estremità orientale dei territori collinari e montani bolognesi, ravennati e la parte occidentale di quella forlivese-cesenate.
Un evento estremo, ma purtroppo non isolato, visti gli scenari connessi con la crisi climatica, che riguardano anche il nostro Paese. La Commissione tecnico-scientifica istituita dalla Regione Emilia Romagna, nel suo Rapporto sugli eventi metereologici del mese di Maggio 2023, pubblicato a dicembre scorso, scrive:“…l’evento che ha colpito la regione emiliano/romagnola nel maggio 2023 ha avuto caratteristiche di intensità e vastità territoriale tali da poter essere considerato uno spartiacque tra passato e futuro nel settore della difesa idraulica e idrogeologica del territorio.
L’incontro è stata anche l’occasione per una prima valutazione del Piano Speciale Preliminari di interventi sulle situazioni di dissesto idrogeologico redatto dall’Autorità di Bacino distrettuale del Fiume Po. Piano che vedrà la sua versione definitiva entro la fine di giugno 2024.
“Riteniamo importante e positivo che sia l’Autorità di distretto del Po a sovrintendere la pianificazione degli interventi post-evento, proposta che avanzammo anche noi nel febbraio scorso – dichiara Davide Ferraresi, presidente di Legambiente Emilia Romagna. La Regione Emilia-Romagna ha davanti a sé una straordinaria occasione per fare da apripista e diventare un modello nazionale di un nuovo approccio al governo del territorio e della gestione del rischio alla luce del nuovo scenario a cui andiamo incontro.”
“Nel piano preliminare sono indicati alcuni importanti assi di lavoro che condividiamo fortemente quali quelli che prevedono di tornare a dare spazio ai fiumi, delocalizzare abitazioni e attività produttive poste ora in aree particolarmente a rischio, e il divieto di nuove costruzioni in aree già allagate – commenta Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente. Sono obiettivi necessari ma al tempo stesso complessi. Per questo chiediamo e ci facciamo promotori di un processo di coinvolgimento dei territori, dalle amministrazioni alla società civile, che accompagni questa proposta preliminare alla sua versione definitiva”.
Il Piano infatti diverrà definitivo entro la fine di giugno, ma già si ravvisano nei territori i primi segnali di difficoltà, soprattutto per quanto riguarda le delocalizzazioni, e ancora una scarsa attenzione delle amministrazioni a introdurre percorsi così complessi. Un tema fondamentale da approfondire è quello riguardante gli interventi nelle aree urbanizzate, per evitare concretamente che si possano realizzare nuove costruzioni nelle aree allagate e attuare una ricostruzione fondata su un approccio innovativo che metta al centro l’adattamento alla crisi climatica e gli interventi di delocalizzazione.
Le delocalizzazioni sono interventi assolutamente necessari e al contempo molto complessi da realizzare, serve mettere in atto processi di coinvolgimento delle amministrazioni e della popolazione e chiediamo una norma nazionale che faccia da riferimento in tal senso. Ma è necessario al contempo anche il protagonismo dei Comuni per mettere in campo piani urbanistici e i regolamenti edilizi coerenti con questo nuovo approccio, per evitare che il piano degli interventi rimanga scollegato dalla pianificazione e dalla gestione ordinaria del territorio.
“Dopo il disastro dello scorso maggio l’intera comunità prova a rialzare la testa, ma ad ogni pioggia si ripresenta lo spettro- commenta Francesco Occhipinti direttore di Legambiente Emilia Romagna -. Si dovrà agire in maniera sinergica fra istituzioni, associazioni e l’intera comunità affinché si rafforzi la consapevolezza della popolazione, purtroppo abbiamo già avuto evidenza che eventi estremi saranno sempre più frequenti e che quanto accaduto ha reso ancora più vulnerabile il nostro territorio. Non si tratta più di “maltempo”. Con l’iniziativa di oggi confermiamo la disponibilità di Legambiente nel dare il nostro contributo mettendo a disposizione le nostre competenze per accompagnare questo percorso. Sarà fondamentale che le scelte future siano basate su evidenze scientifiche e non su presupposti ideologici.”
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QUALCOSA DI SINISTRA - PD E LAVORO
I referendum possiedono un plusvalore simbolico che trascende la portata della norma che si vuole abrogare. La cancellazione di alcune disposizioni vigenti – a volte solo parte di esse, altre volte frasi prive in un proprio autonomo significato normativo – sono lo strumento attraverso cui si manifesta la volontà del corpo elettorale su temi di ben più estesa portata.
I referendum su divorzio, aborto, nucleare, legge elettorale hanno segnato svolte profonde e durature della nostra storia. Vero è che il referendum non basta a sé stesso; infatti, è accaduto che il legislatore non abbia voluto dare seguito alla indicazione espressa dal corpo elettorale (si pensi ai casi diversi del finanziamento ai partiti o a quello dell’acqua-bene comune). Il problema della natura dei vincoli (negativi più che positivi) al legislatore conseguenti al referendum abrogativo è delicatissimo e coinvolge gli equilibri su cui si regge la nostra complessiva democrazia rappresentativa, ciò non toglie però che il referendum pone sempre alla politica una questione che travalica l’oggetto del quesito sottoposto al voto. Di fronte ad un muro che si vuole abbattere il referendum apre una breccia che si dovrà poi attraversare.
È per questo che sono prive di fondamento le critiche mosse nei confronti dei referendum promossi dalla Cgil sul lavoro. È vero, di per sé non aboliranno la precarietà nel lavoro, ma pongono nel modo più solenne per le democrazie la questione dei diritti legati alle tutele dei lavoratori, limitandosi a cancellare alcune norme specifiche particolarmente odiose. Non è certo poco, anzi è il massimo che si può immaginare in questo momento.
Una mossa ad alto rischio, peraltro, poiché visti i tempi e i precedenti infausti nessuno può assicurare che non finisca con un fin de non recevoir, se non si riuscirà a creare un movimento reale gli ostacoli (il quorum di partecipazione, ma non solo) rischiano di farci cadere ancora più in basso. Sono però proprio le difficoltà, di cui siamo consapevoli, che ci invitano a prendere sul serio la sfida che ci viene proposta.
Una richiesta di cambiare rotta, rimettendo in discussione la lunga egemonia neoliberista che ha promosso una legislazione sociale sempre più lontana dai principi costituzionali legati alla dignità del lavoro. In fondo, ad essere diretti e sinceri, una cultura cui il fronte progressista non è rimasto estraneo.
Il Jobs Act è stato solo l’ultimo atto di una incapacità (o non volontà) di promuovere politiche in grado di rispondere alle trasformazioni del mondo del lavoro in modo da assicurare oltre alle ragioni delle nuove imprese, anche quelle dei nuovi lavoratori, che hanno pur sempre diritto «ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé a alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Quel che ci dicono ora i quesiti referendari è che dovremmo tornare a riflettere su queste parole scolpite nella nostra Costituzione e per troppo tempo dimenticate.
Ciò che si pone alla base delle richieste referendarie è la volontà di reagire ai tempi che stiamo vivendo, nel tentativo di fermare l’involuzione in atto e di cominciare a sperare in un’alternativa possibile. Ci invita a contrastare la protervia di una destra che si accinge a portare a termine il lavoro sporco iniziato da tempo: cambiare la Costituzione (premierato e separazione delle carriere dei magistrati) e farla finita con la solidarietà nazionale (autonomia differenziata). Ci propone una diversa prospettiva: quella di riscoprire la portata “rivoluzionaria” di una Costituzione poco e male attuata. È questa la via maestra per opporsi al declino. La richiesta, rivolta a tutte le forze progressiste, è quella di ricominciare a pensare al cambiamento non più in nome del mercato, ma in nome della Costituzione. In fondo i referendum richiesti dalla Cgil si limitano ad anticipare quello sull’autonomia differenziata (se ci sarà) e quello sul premierato (che certamente arriverà). Una battaglia comune contro il regresso, per un progresso tutto da conquistare. Prima che sia troppo tardi.
Un orizzonte che irrita molti, lo si può comprendere. Naturalmente trova contraria la destra, perché vede messa in discussione una sua egemonia culturale, conquistata a fatica e che ritiene ormai saldamente acquisita (il neoliberismo come unica ragione del mondo), ma inquieta anche una parte importante della sinistra, quella più governista. In quest’ultimo caso ciò che innervosisce non è tanto che si invochi una svolta, quanto che ciò contenga una implicita ma inevitabile critica a chi s’è fatto paladino nei tempi passati di una politica estranea alla propria tradizione, quella legata al lavoro. Non nascondiamocelo, per alcuni – soprattutto dentro il Pd – si tratta di fare i conti con sé stessi, senza sconti.
Ma se un nuovo corso vuole essere inaugurato, qualche rottura è necessaria.
Comprendo le difficoltà della segreteria del partito democratico nei confronti di chi vede messa in discussione la propria storia recente, ma chi ha preso in mano il partito con l’idea di innovare deve essere anche consapevole della propria enorme responsabilità e delle aspettative di tutti coloro che guardano alla nuova dirigenza confidando su una soluzione di continuità che possa contribuire ad uscire dalla paralisi dentro la quale versa l’intero popolo della sinistra. Una responsabilità storica e non limitata solo al proprio partito. Elly Schlein ha annunciato che firmerà i referendum della Cgil, ma lo farà solo a titolo personale. La sottoscrizione o meno dei quesiti proposti non può essere però ridotta ad una scelta individuale. Un’indicazione in tal senso – ciascuno faccia quel che gli pare – rappresenta solo un modo per non dare risposte e ridurre la portata di un cambiamento che – come s’è detto sin dall’inizio – deve essere assunto al di là delle proposte abrogative. La scelta di una più complessa strategia che operi oltre il singolo fatto o un unico partito. Se si riconosce che la situazione è cambiata – e chi può negarlo? – forse anche chi sino a ieri ha sostenuto politiche che ora rischiano di ridurre il lavoro ad una mera variabile dipendente del mercato può decidere di cambiare. Né più, né meno.
In fondo, tornare ad ascoltare i lavoratori sarebbe finalmente dire “qualcosa di sinistra”. Nanni Moretti, tanti anni fa, lo chiedeva a Massimo D’Alema, noi oggi a Elly Schlein.