È la prima di cinque giornate di sciopero dei giornalisti. Per la libertà di informazione, contro la precarietà. Saccone, Slc: “Siamo al loro fianco”
Oggi, 6 maggio, incrociano le braccia i giornalisti e le giornaliste della Rai. È la prima delle cinque giornate di mobilitazione proclamate dall’Assemblea dei Cdr e dei fiduciari di redazione a larghissima maggioranza (8 i contrari e un astenuto). Ma non è solo l’Azienda pubblica ad essere colpita.
Certo non siamo né la Polonia e nemmeno l’Ungheria – vorrebbe da dire per il momento – ma dal punto di vista della libertà di informazione non ce la passiamo tanto bene, anzi peggioriamo. A certificarlo è l’Ong Reporters Sans Frontières che ha appena pubblicato la classifica 2024 per la libertà di stampa e l’Italia retrocede di ben cinque postazioni. Certificando ciò che da tempo dicono giornalisti e giornaliste, sindacati, associazioni e quanti hanno a cuore l’articolo 21 della Costituzione che non solo tutela la libertà di informare ma anche quella di essere informati.
GREENPEACE E SBILANCIAMOCI!. L’economia è già «a mano armata». I dati delle associazioni: un regime di guerra
Il ministro della difesa Guido Crosetto ha sostenuto ieri che, nel campo militare, la capacità produttiva italiana e occidentale è di molto inferiore a quella del «lato oscuro della forza», ossia della Russia, dell’Iran, della Corea del Nord». E, per questa ragione, ha rinnovato la necessità di aumentare la spesa militare italiana che è «sotto il 2 per cento del Pil».
Abbiamo confrontato i dati di Crosetto con quelli pubblicati nell’e-book Economia a mano armata 2024 di Sbilanciamoci e Greenpeace consultabile sui siti delle associazioni. E abbiamo chiesto a Giulio Marcon, portavoce di Sbilanciamoci, se le affermazioni del ministro corrispondono alla realtà: «No – ha risposto Marcon – La spesa militare dell’Unione Europea è quasi 4 volte di quella russa, lo hanno confermato i dati del’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (Sipri) del 22 aprile scorso (il manifesto, 23 aprile, ndr.). E in questo calcolo non ci sono il Canada e gli Stati Uniti che, da soli, rappresentano il 37% della spesa mondiale in armamenti».
Se è cosi, chiediamo a Marcon perché Crosetto ha citato dati diversi: «Crosetto sostiene la necessità dell’aumento della spesa militare e il sostegno al comparto composto in Italia da 874 imprese con un fatturato complessivo da 15,2 miliardi annui, l’80% del quale coperto da Leonardo e Fincantieri – osserva Marcon – Lo diceva quando aveva incarichi nella rappresentanza del settore e continua a dirlo oggi da ministro».
«Stiamo andando verso un’economia di guerra, la persistenza della guerra in Ucraina, la carneficina a Gaza, i rischi di guerra in tutto il mondo stanno portando all’aumento delle spese militari – continua Marcon – Nell’ultimo anno sono aumentate del 6,8 per cento, passando da poco meno di 2.200 miliardi a 2.400 miliardi di dollari. Questo business è alimentato da una logica finanziaria. Mentre l’anno scorso il settore dell’automotive è crollato del 42%, quello della difesa ha registrato un aumento del 27%. C’è dunque un interesse specifico di chi fa le armi a incrementare questa dinamica. Esiste inoltre un legame stretto tra l’interventismo militare e la difesa degli investimenti strategici nell’economia fossile. Parlando dell’Italia, circa il 60% della spesa militare per le missioni all’estero (su 1,2 miliardi) è assorbito da quelle che difendono gli approvvigionamenti di gas e petrolio».
Dal rapporto «Economia a mano armata», tra l’altro, emerge una descrizione precisa dell’industria militare italiana. «Sul piano tecnologico e produttivo – ha scritto Gianni Alioti ricercatore e attivista di The Weapon Watch – ha assunto con Leonardo un ruolo di integrazione subalterna nelle strategie degli Stati Uniti e ha abbandonato la strada delle co-produzioni europee». «La militarizzazione è un “cattivo affare” – ha aggiunto Alioti – L’aumento delle spese militari sta portando l’Europa su una traiettoria di minore crescita economica, minore creazione di posti di lavoro e peggiore qualità dello sviluppo».
- In 14 anni di monitoraggio registrati dall’Osservatorio Città Clima di Legambiente in Italia ci sono stati 684 allagamenti, 86 frane gravi da piogge intense e 166 esondazioni fluviali, che rappresentano il 49,1% degli eventi estremi nel Paese.
- Tra le regioni più colpite proprio l'Emilia Romagna che nel Maggio 2023 ha registrato picchi di 300 mm di pioggia in poche ore, con l'esondazione di 21 corsi d'acqua e frane e dissesti in 48 Comuni della Romagna.
- Dopo quasi un anno dall'evento e dopo i primi interventi emergenziali, quali sono le prospettive per la messa in sicurezza del territorio?
Quali azioni si possono mettere in campo per evitare il ripetersi di un simile disastro? Quali le strategia per garantire la salvaguardia degli ecosistemi?
Di tutto questo parleremo con esperti di cambiamento climatico, di rischio idraulico, di difesa del suolo, con urbanisti e con le parti sociali, al convegno:
Non possiamo neppure parlare di delusione perché non c’erano molte aspettative rispetto a questo vertice a presidenza italiana
LUIGI GIORDANO - STOCK.ADOBE.COM
Il documento licenziato dal G7 dei ministri dell’Ambiente, del clima e dell’energia che si è appena concluso a Venario (Torino) si apre con una premessa che riconosce, almeno a parole, la gravità e l’urgenza di intervenire per affrontare le tre crisi globali: cambiamento climatico, perdita di biodiversità e inquinamento. Crisi interconnesse e che si rafforzano reciprocamente. Degrado del territorio, del suolo e degli oceani, scarsità d’acqua, siccità e deforestazione rappresentano una minaccia globale allo sviluppo sostenibile e aggravano le condizioni di povertà e le disuguaglianze, i disagi economici e sociali, le condizioni sanitarie, l’accesso all’energia, la sicurezza e la stabilità geopolitica.
Addirittura i ministri si spingono a dire che riconoscono il ruolo essenziale della società civile, in particolare dei gruppi vulnerabili e marginalizzati, dei lavoratori, dei sindacati e dei giovani, e che metteranno al centro dei loro sforzi per affrontare la tripla crisi e la transizione energetica, l’equità di genere e per la comunità Lgbtqia+. Senz’altro affermazioni importanti, ma che suonano false e prive di qualsiasi reale fondamento, visto che a scriverle è una ministeriale del G7 guidata da un esponente di un governo negazionista, antidemocratico, avverso alla giustizia sociale, ai diritti civili e all’equità di genere.
QUELLO CHE IL G7 NON DICE
Ci ricordano che nel bilancio delle emissioni (Gst) c’è un enorme divario fra l’andamento della traiettoria a politiche attuali e quella che porta al rispetto dell’obiettivo di 1.5°C, visto che a livello globale stiamo andando verso una riduzione delle emissioni del 2% al 2030, rispetto al 2019, mentre sarebbe necessario ridurle di almeno il 43%. Non dicono però che lo sforzo maggiore e più rapido deve essere fatto proprio dai paesi del G7, quelli con maggiori responsabilità storiche e pro-capite, e quelli che hanno le capacità tecnologiche e finanziarie per poter intervenire fin da subito. Non riportano i dati del rapporto del Climate Analytics che ci mostra che i primi a non essere allineati all’obiettivo di 1,5°C sono proprio i paesi del G7, quelli che detengono il 38% della ricchezza globale e sono responsabili del 21% delle emissioni globali. Gli impegni di questi paesi si attestano su una riduzione del 40-42%, al 2030 rispetto al 2019, ma realisticamente riusciranno a ridurre solo il 19-33% delle emissioni, mentre dovrebbero contribuire con una riduzione di almeno il 58%. Il documento di ben 35 pagine riprende e riafferma inutilmente molti impegni già assunti nelle varie conferenze sul clima e sulla biodiversità e negli SDGs, senza assumere la guida del processo di giusta transizione ecologica con un livello più alto e accelerato degli impegni.
UNA DATA PER DIRE ADDIO AL CARBONE
Per la prima volta viene inserita una data – 2035 – per l’uscita dal carbone, ma solo di quello senza abbattimento delle emissioni. Un passo utile ma davvero piccolo considerato che riguarda solo il carbone, e non tutto, mentre sarebbe necessario programmare una data certa di uscita anche dal gas e dal petrolio. Il documento considera il nucleare una fonte utile a ridurre le emissioni e dichiara la volontà dei G7 a lavorare insieme nella ricerca e nella sperimentazione per la fusione, promuovere l’impiego delle tecnologie nucleari, compresi i piccoli reattori modulari (SMR), che tanto piacciono ai ministri Pichetto e a Salvini, e lavorare per condividere le migliori pratiche nazionali anche per quanto riguarda la gestione dei rifiuti radioattivi. Impegni assurdi considerata la pericolosità, i costi e i tempi lunghi di queste tecnologie, che le pongono fuori gioco rispetto al percorso di decarbonizzazione, e che per quanto riguarda l’Italia non rispettano la volontà popolare espressa in ben due referendum. Per i sussidi alle fonti fossili si impegnano a trovare una definizione condivisa di sussidi inefficaci invece di procedere alla riduzione ed eliminazione di tutti i sussidi alle fonti fossili e di quelli ambientalmente dannosi. I biocarburanti sono citati ma senza troppa enfasi. Sulla finanza viene enfatizzata l’urgenza di intervenire in questo decennio critico e di mobilitare flussi finanziari pubblici e privati per affrontare la triplice sfida ma senza alcun adeguato e concreto impegno. Sulla Giusta Transizione si richiamano impegni già presi anche in sede ILO, e mai rispettati per quanto riguarda il nostro paese, dichiarando la volontà di implementarne l’attuazione anche nei nuovi Ndc.
IL CAMBIAMENTO CHE PARTIRÀ DAL BASSO
Non possiamo parlare di delusione perché non c’erano aspettative rispetto a questo vertice a presidenza italiana ma dobbiamo rimarcare l’occasione perduta e l’incapacità dei governi del G7 di assumersi le proprie responsabilità e guidare la transizione. Con questo realismo dobbiamo rafforzare la nostra lotta per un radicale cambiamento di sistema che può partire solo dal basso, dai lavoratori, dalle comunità, dalla società civile e che deve avere un obiettivo globale, inclusivo, che non lasci nessuno indietro. Una giusta transizione che parte dal cessate il fuoco in tutte le guerre e con il disarmo, e con l’affermazione di un’urgente azione climatica con l’uscita da tutte le fonti fossili, il rispetto dei diritti umani e del lavoro, la piena occupazione e tutti gli obiettivi Sdg, la giustizia sociale, l’equità, il superamento dei divari fra nord e sud del mondo, di ogni forma di sfruttamento, discriminazione, colonialismo e suprematismo. Il 30 aprile a Torino nell’iniziativa “Il G7 ascolti le proposte del lavoro e dell’Ambiente” abbiamo dato evidenza alle nostre proposte e alla forza della Cgil, della Ituc Africa, dell’Alleanza Clima-Lavoro, insieme con le associazioni ambientaliste e con i #FFF, per guidare una giusta transizione e un nuovo modello di sviluppo che superi i dettati del neoliberismo e del capitalismo per mettere al centro il bene comune, il benessere, i diritti e le tutele. Il 25 maggio a Napoli avremo un’occasione straordinaria per ribadire le nostre rivendicazioni e la nostra forza come Alleanza della Via Maestra.
* Simona Fabiani è responsabile Cgil politiche per il clima, il territorio, l’ambiente e la giusta transizione
Poco fa le agenzie hanno battuto la notizia del secondo decesso, avvenuto in un ditta metalmeccanica sita lungo la provinciale 29 a pochi chilometri dal centro di Gioia del Colle, provincia di Bari.
L'uomo, C.B., un operaio di 59 anni, era in servizio nell'azienda specializzata in strutture prefabbricate in acciaio, quando sarebbe stato travolto dal materiale caricato sul muletto che guidava. Nonostante i soccorsi degli operatori sanitari del 118, l'uomo non ce l'ha fatta.
Per stabilire l'esatta dinamica dell'incidente, sul posto, sono intervenuti i carabinieri e il personale dello Spesal. La salma è stata trasportata all'istituto di medicina legale del policlinico di Bari, in attesa dell'esame autoptico.
Migliaia in piazza per celebrare la Festa dei Lavoratori e per mobilitarsi per la giustizia sociale. La galleria fotografica da tutta Italia
Se il presente assomiglia così tanto al passato. Se questo Primo Maggio come gli ultimi che l’hanno preceduto costringono l’opinione pubblica a riflettere sui passi indietro che la nostra società ha fatto negli ultimi due decenni, dopo la lunga fiammata di progresso, benessere e conquista dei diritti che ha caratterizzato lentamente ma inesorabilmente il secondo dopoguerra.
Se il caporalato nelle campagne è tornato ai metodi del primo Novecento e nelle mani e nei visi e nelle schiene spezzate dei migranti di oggi curvi per ore sotto al sole rivive l’esperienza di Giuseppe Di Vittorio, resa ancor più spaventosa dall’essere straniero in una terra sconosciuta e sognata come il paradiso dopo aver affrontato una vita e un viaggio d’inferno.
Se lo sfruttamento negli appalti ti lascia senza tutele, con paghe da fame e un senso di ingiustizia che sembra incolmabile.
Se la madre di quella ragazza, Luana D’Orazio, morta stritolata in un macchinario in una fabbrica tessile dei dintorni di Prato a poco più che vent’anni, ne aspetta ancora il ritorno a casa, dopo tre anni, anche se sa già che non tornerà. Se il suo bambino sta lentamente dimenticando la sua voce, il suo sorriso, il suo viso persino.
Se pensate che il presente non assomigli così tanto al passato, chiedetelo a uno di quegli edili che ogni giorno cade dall’alto in cantiere e ci rimette la vita, proprio come accadeva cinquanta o settanta anni fa.
O chiedetelo a una donna che deve scegliere tra lavoro e maternità. Perché non ci sono i nidi, perché non ci sono i soldi, perché il suo stipendio è troppo più basso di quello del collega, perché la obbligano a un part time o la scelta diventerebbe obbligata per conciliare i tempi di vita, ma a quel punto non conviene più inseguire una carriera.
Se il Presidente della Repubblica è costretto, nel giorno della Festa dei Lavoratori, a ribadire che mille morti all’anno è un prezzo inaccettabile all’incuria della politica e all’avidità dell’impresa.
Se la Cgil, se Maurizio Landini, se i sindacati sono inchiodati a parlare di questo ogni giorno perché almeno qualcuno lo ricordi al resto del mondo.
Ecco, se il presente assomiglia così tanto al passato, il Primo Maggio continuerà a essere un giorno di mobilitazione più che un giorno di festa. E le piazze continueranno a riempirsi, in attesa che la modernità e il progresso di cui tanto parlano ovunque ci porti davvero a