Ho sempre avuto la voglia di restare in Italia e sono stato fortunato: nel mio Paese ho avuto colleghi straordinari". Lo scienziato ha anche scritto favole per i figli. "Ora le leggo al nipotino. La scienza va insegnata sin dall’asilo. È grazie a lei e ai vaccini se oggi festeggiamo insieme"
È questo il caos che ha sempre studiato? «In effetti ci assomiglia molto» sorride Giorgio Parisi, tirato per la giacca da colleghi e giornalisti, nella giornata più disordinata e più bella della sua vita, tra brindisi, telefonate e complimenti in quell’Accademia dei Lincei di cui è vicepresidente. «Ma mettere ordine nel caos è sempre stata la passione della mia vita, e l’oggetto delle mie ricerche».
Bella giornata per la scienza?
«Ce n’era bisogno. In fondo è grazie alla scienza e ai vaccini se oggi possiamo festeggiare insieme. Spero che il premio sia un segnale in controtendenza per la ricerca italiana. Oggi sono troppi i giovani costretti a lavorare all’estero».
Come mai lei invece è restato sempre in Italia?
«Ho sempre avuto voglia di restare e sono stato fortunato. Qui ho avuto mentori e colleghi straordinari».
Ha scritto articoli scientifici incomprensibili ai più, ma anche favole per i bambini. Come mai?
«Sono un appassionato di Calvino e le favole erano per i miei due figli, oggi le leggo al nipotino, che ha 4 anni».
Lei sostiene che la scienza vada insegnata dall’asilo. Trasmette già qualcosa a suo nipote?
«Lui è appassionato di dinosauri. Dice che da grande vuole fare il dinosauro. Ma credo che, se la scienza oggi è in difficoltà, sia anche colpa della mancata diffusione della sua cultura. Per questo credo che andrebbe insegnata ai bambini fin da piccoli, ovviamente in modo semplice. Non possiamo stupirci se le persone non si fidano dei vaccini a Rna, dal momento che nessuno si è preoccupato di spiegargli cos’è».
I No vax la preoccupano?
«Parliamo di una percentuale piccola di persone, si fermerà al 10-15%, ma ci fa capire che abbiamo un problema. Un secolo fa si pensava che la scienza avrebbe reso migliore il nostro futuro. Oggi questa fiducia non c’è più. Dubitiamo che le nostre condizioni miglioreranno e, consciamente o no, diamo la colpa alla scienza. È vero che la nostra situazione è critica su molti fronti, ma per uscirne abbiamo bisogno di più scienza, non di meno scienza. Questo è particolarmente vero per il cambiamento climatico, che dovrebbe vedere un impegno maggiore anche da parte dell’Italia».
Cosa accadrebbe se la scienza sfiorisse?
«Viviamo in una società intrisa di tecnologia, ma dimentichiamo che la tecnologia si basa sulla scienza. Prosciugando quest’ultima, si fermerà anche la prima. Oppure resterà appannaggio di quei pochi Paesi che continuano a investire in conoscenza. C’è un libro di Marco D’Eramo che si intitola “Lo sciamano in elicottero”. Descrive uno stregone dell’Asia centrale che pratica la magia, ma questo non gli impedisce di usare l’elicottero per spostarsi. Credo che oggi ci sia uno scollamento tra gli strumenti che usiamo e la conoscenza che ne abbiamo. Questo fa assomigliare la scienza a una pseudo-magia. Ricorda la situazione degli antichi romani, che hanno preso in prestito la tecnologia greca senza assorbirne la cultura scientifica».
Lei usa molto Facebook. Non pensa che anche i social abbiano la loro colpa?
«Mi ha colpito molto un libro di Nate Silver, lo statistico del New York Times, autore di molte previsioni accurate sulle elezioni americane. Lui racconta che le tesi di Lutero non avrebbero mai avuto un’eco così profonda, se non avessero coinciso con l’invenzione della stampa. Anche oggi ci troviamo in un’epoca in cui l’informazione sta vivendo un’enorme fase di espansione, grazie a internet. Ma resta frammentata in mille schegge e crea delle nicchie che finiscono per radicalizzarsi e scontrarsi fra loro. Per risolvere il problema dovremmo imparare a scegliere le fonti qualificate e capire come si forma il consenso scientifico. Non è un singolo studio, o il parere di un singolo esperto, a contare. È piuttosto l’aggregazione di una serie di evidenze che si assommano l’una all’altra e creano un consenso».
A proposito di consenso. Fra i suoi numerosi studi ci sono gli stormi di uccelli. Ha cercato di capire chi determina la rotta del gruppo. Ha a che fare con quel che avviene anche nella società?
«Nello stormo non c’è un capo che comanda gli altri a bacchetta. È l’interazione tra i vari individui che determina la rotta del gruppo. Questo mi ha sempre colpito perché dimostra che i movimenti collettivi siano la sommatoria di tante storie individuali. Abbiamo osservato che quando un certo numero di individui al centro decide di virare, i vicini lo seguono. Se il cambio di rotta coinvolge il 20-30% degli uccelli, tutto lo stormo finisce per seguire. Ma ci sono anche tentativi abortiti di virata. A volte il gruppo non segue gli individui che prendono l’iniziativa. Tutto questo avviene rapidamente, nel giro di pochi secondi, ed è imprevedibile».
Elezioni. Record di preferenze per la candidata di Coalizione civica, seguita dalla Sardina
Emily Clancy
A Bologna sorridono il Pd e il suo sindaco, Matteo Lepore, alla guida di una coalizione di centro sinistra ampia, «la più grande d’Italia». Ma sorride anche Emily Clancy, la più votata. Con 3541 preferenze in città Clancy ha staccato tutti. Italo-canadese, 30 anni, femminista, era già stata eletta 5 anni fa e già allora fu una sorpresa, diventando con le sue mille preferenze la più votata di Coalizione civica, compagine di sinistra che questa volta ha deciso di appoggiare il Pd e Lepore.
Più che un partito una rete che si è cementata nel corso degli anni. Dentro Coalizione Civica ci sono Art. 1, Sinistra italiana e il progetto di Emilia-Coraggiosa di Elly Schleyn e Vasco Errani, ma ci sono anche attivisti e militanti dei centri sociali Tpo e Làbas. Coalizione ha confermato il risultato delle scorse amministrativa, incassando il 7%. In compenso Clancy ha più che triplicato il suo consenso personale. Avrà il compito di guidare la sua lista, che entra in Comune con 3 consiglieri. «Avevamo detto che Bologna era un laboratorio più simile al Conte bis che al governo Draghi e così è stato. Abbiamo dimostrato che quando si guarda a sinistra si vince al primo turno», ha detto. Per lei si parla di un ingresso in giunta con deleghe importanti, come quella alla casa, ma anche di qualcosa di nuovo, come la gestione della vita e dell’economia notturna cittadina, il cosiddetto «sindaco della notte».
Dietro Emily Clancy in termini di preferenze c’è Mattia Santori. Per la sardina numero uno candidata nel Pd sono arrivati 2586 voti personali, più di qualsiasi consigliere del partito. Con un tale consenso un posto in giunta è assicurato. Il nuovo sindaco, molto attento alla politica romana, potrebbe avere parecchi progetti per Santori. «Sono sicuro che faremo delle belle cose insieme, anche a livello nazionale – ha detto Lepore – Santori è stato coraggioso, ha scelto il Pd mettendosi a disposizione di un partito che vuole valorizzare i giovani e le sue competenze».
A entrare in giunta sarà forse anche Massimo Bugani, ex uomo fortissimo del M5S nonché vicinissimo a Casaleggio.
Dopo anni nello staff di Raggi, Bugani potrebbe tornare in pianta stabile a Bologna come assessore. Per il suo M5S un disastroso 3,37%, contro il 16% di 5 anni fa. Una perdita secca di oltre 20 mila voti. Anche contro di lui si è scagliato il «ribelle» Alessandro Di Battista: «L’alleanza con il Pd non è più una scelta. È una necessità per qualcuno e per la sua poltrona. Almeno fino a quando, dalla parte del Pd, non si renderanno conto che a Napoli e Bologna il centrosinistra avrebbe vinto anche senza M5S», ha sentenziato Dibba.
Commenta (0 Commenti)La sottile linea rossa. Disastro a Roma e Milano. Meglio a Trieste (8,9%) e Bologna (7,3%). Fratoianni: serve un soggetto stabile
Roberto Speranza, Nicola Fratoianni e Pietro Grasso al lancio di Liberi e uguali © Lapresse
La sottile linea rossa. Da Trieste in giù le forze a sinistra del Pd, quasi sempre dentro coalizioni di centrosinistra, tranne rari casi rischiano l’irrilevanza. Nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia il successo maggiore delle sinistre: 8,9% per «Adesso Trieste», che candidava sindaco Riccardo Laterza, 28 anni, in una corsa solitaria rispetto a Pd e alleati. Ora il dem Francesco Russo dovrà attingere a questo bacino di voti per tentare il colpaccio contro il sindaco uscente Roberto Dipiazza.
A Milano risultato più che deludente: la lista «Milano Unita», che aveva come capofila il volto storico della sinistra milanese e assessore all’edilizia scolastica Paolo Limonta (ed era sostenta da Sinistra italiana ma non da Articolo 1) si ferma all’ 1,5%. Nessun seggio. Anche a Torino i due partiti che avevano dato vita Leu andavano divisi: discreto il risultato di Sinistra ecologista (3,6%), mentre Art.1 in tandem con i socialisti si ferma allo 0,8%.
Migliore la situazione a Bologna, dove la Coalizione civica si è unita con Coraggiosa (nome coniato da Elly Schlein alla regionali 2020) e ha centrato il 7,3% con 3 eletti in Comune. Tra questi spicca il risultato della capolista Emily Clancy che, con 3541 voti, risulta la più votata in città. Restando in Emilia-Romagna, Coraggiosa raggiunge il 5,3% a Ravenna, mentre a Rimini delude (2,6%).
Leggi tutto: Nelle metropoli la sinistra ora rischia l’irrilevanza - di Andrea Carugati
Commenta (0 Commenti)Mimmo Lucano. Sottoscrizione e manifestazione giovedì 7 ottobre ore 17,30 a Roma, Piazza Montecitorio, manifestazione pubblica
«Il pubblico ministero ha detto che i giudici non devono tenere conto delle “correnti di pensiero”. Ma che cosa sono le leggi se non esse stesse delle correnti di pensiero? Se non fossero questo non sarebbero che carta morta. E invece le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarci entrare l’aria che respiriamo, metterci dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue, il nostro pianto. Altrimenti, le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante esse vanno riempite con la nostra volontà». Così Piero Calamandrei, il 30 marzo 1956 davanti al Tribunale di Palermo, in difesa di Danilo Dolci promotore di uno sciopero all’incontrario di disoccupati al lavoro su una strada comunale abbandonata, nelle campagne di Partinico.
Ecco, davanti al raddoppio della pena richiesta dall’accusa per Mimmo Lucano in ragione degli illeciti amministrativi e penali imputatigli, ci sono venute alla mente queste parole di Calamandrei. Con l’amara sensazione che i giudici siano andati ben oltre l’indifferenza alle “correnti di pensiero” del proprio tempo per attenersi alla “lettera” della legge. E che nelle vive correnti di pensiero del proprio tempo, di cui anche le leggi e la loro applicazione sono espressione, siano entrati, eccome. Ma dal lato sbagliato. Dove – nella biblica tragedia delle migrazioni – non ci sono i propositi delle nostre speranze, di un’Italia e un’Europa più accoglienti. E non c’è in alcun modo la consapevolezza che anche fare il “bene” non è un pranzo di gala, e Mimmo Lucano in questi anni ne ha saputo qualcosa.
Diventa difficile, in presenza di questa sentenza, sottrarsi all’idea di uno spropositato accanimento giudiziario. Senza tenere in nessun conto lo sforzo di Lucano, pur tra errori e imperizie amministrative, di suscitare un “circolo virtuoso” fra i nuovi arrivati e la cultura locale, in un contesto complesso, rivitalizzando un territorio gravemente depresso, assicurando “ordine pubblico”.
Con la sentenza del Tribunale di Locri, tutto sembra ridursi a un sodalizio a delinquere. E come spiegare la mancata concessione delle attenuanti “per motivi di particolare valore morale o sociale” e, persino, di quelle generiche? Tale circostanza fa temere il peggio: che dietro questa sentenza possa esservi una certa concezione ideologica destinata a sanzionare la politica dell’accoglienza come interpretata da Lucano e dai suoi sodali. E a penalizzare quel diritto al soccorso che costituisce il fondamento stesso dell’intero sistema dei diritti universali della persona.
In attesa del processo di appello che – ci auguriamo – saprà restituire equilibrio e misura all’esercizio della giustizia nei confronti del “modello Riace”, qualcosa intanto possiamo fare: aiutare Mimmo Lucano e gli altri condannati a sostenere il peso economico del risarcimento richiesto. E, qualora un successivo grado di giudizio vorrà ricondurre la sanzione a più ragionevoli criteri, destineremo la somma raccolta a progetti di accoglienza in quello stesso territorio.
Per chi voglia contribuire, nella misura che ritiene opportuna, a questa raccolta fondi, ecco i dati:
A Buon Diritto Onlus
Banco di Sardegna
Causale. “Per Mimmo”
IBAN: IT55E0101503200000070333347
A sostegno di questa iniziativa: giovedì 7 ottobre ore 17,30 a Roma, Piazza Montecitorio, manifestazione pubblica: «Modello Mimmo. L’abuso di umanità non è reato».
Promuovono:
Eugenio Mazzarella, Luigi Manconi, Riccardo Magi, Sandro Veronesi e la Rete Io Accolgo con Acli, Caritas, Arci, Cgil, Legambiente, Campagna ero straniero, Saltamuri, Cnca, Centro Astalli, AOI e decine di altre associazioni.
E: Dacia Maraini, Alessandro Bergonzoni, Elena Stancanelli, Maurizio de Giovanni, Michela Murgia, Sandro Veronesi, Monica Guerritore, Massimo Cacciari, Vittoria Fiorelli, Erri De Luca, Sonia Bergamasco, Moni Ovadia, Donatella Di Cesare, Francesco Merlo, Mauro Magatti, Fabrizio Gifuni, Ascanio Celestini, Luigi Ferrajoli, Roberto Esposito, Massimo Villone, Paolo Corsini, Roberto Zaccaria, Marino Sinibaldi, Lucio Romano, Luca Zevi, Gad Lerner, Domenico Procacci, Luciana Littizzetto.
Vinicio Capossela, Caterina Bonvicini, Teresa Ciabatti, Roberto Sessa, Kasia Smutniak, Carlo Degli Esposti, Nora Barbieri, Paolo Virzì, Alessandro Gassmann, Edoardo De Angelis, Mimmo Paladino, Ferzan Ozpetek, Guido Maria Brera, Edoardo Nesi, Pierfrancesco Favino, Francesca Archibugi, Giovanni Veronesi.
Per aderire: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Commenta (0 Commenti)Quando nelle grandi città non va al voto più della metà degli elettori, e il dato nazionale si ferma al 54%, perdono tutti, anche quelli che hanno vinto la sfida di questo primo turno delle elezioni amministrative. Ci sarà modo di analizzare più a fondo la geografia politica del paese consegnata dalle urne, e quali saranno i riflessi sui partiti e sul governo.
Ma tre sono i messaggi molto semplici già chiarissimi.
Il primo, di gran lunga prevalente, ci parla della più bassa affluenza di sempre. E d’altra parte, al netto dello storico, progressivo distacco tra chi governa e chi è governato, in questa competizione amministrativa, ed è il secondo messaggio del voto, i partiti, e specialmente quelli del centrodestra, hanno presentato candidature di terza scelta, testimoniando, oltre i problemi di una coalizione senza leader, la crisi di una classe dirigente che ha gonfiato l’astensionismo, specialmente leghista.
Naturalmente lo sciopero del voto riguarda anche il centrosinistra, con il Pd senza popolo, forte nei centri storici, e i 5Stelle sprofondati, con un risultato drammatico per chi tutt’ora rappresenta la forza di maggioranza relativa. Espulsi dalla contesa più importante della Capitale, con la dignitosa ma sonora sconfitta dell’ex sindaca Raggi.
Tuttavia se i candidati portano la croce, bisogna anche chiedersi perché mai un cittadino, che ha visto tutti i partiti confondersi nel governo di un economista che guida il paese con il pilota automatico, dovrebbe improvvisamente appassionarsi a una competizione elettorale.
Anche per questo, la soddisfazione del segretario Letta per il risultato del Pd «in sintonia con il paese», e del voto in generale «che rafforza Draghi», è comprensibile ma tutt’altro che rassicurante di fronte a una democrazia dimezzata.
Infine, il terzo elemento evidente che le urne ci consegnano è finalmente positivo, dice che chi comunque è andato a votare, ha decretato la sconfitta del centrodestra e premiato le prime prove di unità del centrosinistra, come a Napoli e a Bologna (Milano fa caso a se).
È una indicazione politica per il futuro: le destre si possono battere solo se di fronte hanno l’unità delle forze di centrosinistra.
Commenta (0 Commenti)Sanità. Il Nadef del governo Draghi ci ripropone il combinato disposto alla base del regionalismo differenziato: la regione accetta di essere finanziata di meno anzi, nella versione veneta, accetta addirittura di autofinanziare la propria sanità con il proprio Pil ma in cambio bisogna dargli più poteri di governo sul sistema.
Ospedale Manzoni a Lecco © Lapresse
Nel consultare il sito ufficiale del ministero dell’Economia e Finanza del 30 settembre si scopre una novità politica che non è presente nel testo del Nadef pubblicato il 29 settembre. E la novità non è certo un dettaglio di poco conto perché si riferisce a un tema cruciale nella battaglia sul servizio sanitario: ovvero sono previste delle disposizioni esplicitamente finalizzate “all’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’articolo 116, comma 3, Cost.”
La questione ha dell’incredibile perché perfino le regioni, in piena pandemia, con l’acqua alla gola, sono state costrette ad ammettere la pericolosità del regionalismo differenziato e quindi a parlare ob torto collo dell’indispensabilità di avere non solo uno Stato centrale ma uno Stato centrale forte. Tant’è che la questione fu accantonata.
È unanime l’opinione, per altro ben rappresentata dal lavoro del generale Figliuolo, che se la pandemia ci fosse venuta addosso con un sistema sanitario non universale ma differenziato come chiedono Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, in ogni senso sarebbe stata una catastrofe nella catastrofe.
La questione del regionalismo differenziato che abbiamo già affrontato altre volte su questo giornale, si può riassumere in poche parole: dentro una logica di secessione si tratta di andare ben oltre la riforma del Titolo V della Costituzione che potenziava i poteri organizzativi e gestionali delle regioni e sancire in tema di salute pubblica delle vere autarchie permettendo alle regioni di svincolarsi da alcune leggi dello Stato e di disobbligarsi dai doveri di solidarietà circa il finanziamento del Ssn. In altre parole si tratta di sostituire il decentramento amministrativo con un accentramento ma differenziato per regioni in modo da inficiare la tutela del diritto costituzionale alla salute, come come vuole l’art 32 della Costituzione.
La questione diventa ancora più grave perché nel Nadef la brutta sorpresa è proposta accanto ad un’altra disposizione, altrettanto irricevibile, vale a dire quella che recupera il famoso definanziamento progressivo inaugurato da Renzi, quando era al governo: l’idea che in nome della sostenibilità finanziaria si debba ridurre gradualmente la spesa sanitaria in rapporto al Pil.
Il Nadef del governo Draghi, nonostante si sia ancora alle prese con una pesante pandemia, ci ripropone il combinato disposto alla base del regionalismo differenziato: la regione accetta di essere finanziata di meno anzi, nella versione veneta, accetta addirittura di autofinanziare la propria sanità con il proprio Pil ma in cambio bisogna dargli più poteri di governo sul sistema. Cioè autarchia. E svincolarla dagli obblighi finanziari di solidarietà. E’ il reddito a decidere il diritto non il contrario.
Questo ragionamento posso capire che calzi a pennello sulla linea di Giorgetti, ministro leghista dell’economia che senza il regionalismo differenziato rischia di scontentare il Nord, ma dovrebbe destare qualche preoccupazione nel ministro della sanità espressione dell’ala sinistra del governo.
Purtroppo non fa ben sperare la sua proposta di Pnrr (missione 6), che è assai probabile indirizzata a dirottare metà dei 20 mld destinati alla sanità verso il privato e il privato sociale. Ma, quello che è più grave, è che nella sua proposta non vi sia un solo accenno alla necessità di arrestare il processo di privatizzazione in atto e neppure riferimenti alla necessità di aumentare i poteri dello Stato centrale, mentre rispunta il regionalismo differenziato.
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