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SPAGNA. L’inasprimento della guerra del gas con Mosca e il continuo aumento dei prezzi - in Spagna l’inflazione viaggia al 10,2%, oltre la media europea - hanno convinto il leader socialista ad accelerare

Pedro Sánchez Pedro Sánchez - Lapresse

«La storia ci chiama» ha detto Pedro Sánchez durante il discorso sullo stato della nazione, prima di annunciare alcuni provvedimenti volti a rintuzzare la crisi economica, alcuni dei quali già accantonati o scartati nei mesi scorsi generando scontento in Unidas Podemos e tra gli indipendentisti baschi e catalani. Ma l’inasprimento della guerra del gas con Mosca e il continuo aumento dei prezzi – in Spagna l’inflazione viaggia al 10,2%, oltre la media europea – hanno convinto il leader socialista ad accelerare. Giusto in tempo per i notiziari di metà giornata, Sánchez ha informato sul varo di due nuove imposte straordinarie che avranno la durata di due anni: una si abbatterà sui profitti stellari delle imprese energetiche, l’altra su quelli accumulati dalle banche grazie al rialzo dei tassi d’interesse. Le misure mirano a portare nelle casse pubbliche 3,5 miliardi l’anno, utili a tamponare gli effetti dell’aumento dei prezzi sui settori sociali più deboli. Aumento dei prezzi, come dimostra uno studio dell’Ufficio Economico del sindacato Cc.Oo., frutto della speculazione e all’80% circa della crescita esponenziale dei profitti d’impresa, mentre i salari rimangono al palo o quasi.

«Questo governo non tollererà che imprese o singoli individui approfittino della crisi. I profitti provengono dalle tasche dei consumatori» ha promesso Sánchez. Per tentare di abbattere i consumi energetici privati, da settembre a dicembre gli abbonamenti per il trasporto ferroviario statale a corta e media percorrenza saranno gratuiti, e anche le comunità autonome concederanno lauti sconti. L’esecutivo poi concederà 400 euro a tutti gli studenti con più di 16 anni che beneficiano di una borsa di studio e sbloccherà la Operación Campamento, un piano per la realizzazione a Madrid di 12.000 alloggi, il 60% dei quali a gestione pubblica.

Imbracciando alcuni degli argomenti utilizzati dalle sinistre per criticarne lo scarso coraggio, l’ultima parte del suo intervento Sánchez l’ha dedicata ai provvedimenti che intende approvare nell’ultimo anno di legislatura: dalla legge per la mobilità sostenibile a quella contro la tratta e lo sfruttamento degli esseri umani, dalla norma contro la discriminazione razziale alle leggi sul segreto di stato (quella in vigore risale al franchismo) e sulle lobby. E poi la legge sulla casa, finora rimandata a per i contrasti tra il Psoe e Up, e quella sulla «Memoria Democratica» che incontra resistenze nello stesso Partito socialista.

Mentre Miguel Tellado del Pp prometteva opposizione, i viola hanno rivendicato la «svolta a sinistra» quale frutto delle proprie pressioni. Difficilmente, però, Up potrà bloccare l’aumento di un miliardo della spesa militare decisa dal premier.

 

 

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PARLA IL LEADER PACIFISTA SVEDESE ULF SPARRBÅGE. «Lo status di neutralità in un’area cruciale fra Alleanza atlantica e Russia è stato sempre un fattore stabilizzante, per tutte le parti. Farlo franare è incomprensibile»
 Una protesta di Nej till Nato ("No alla Nato") a Stoccolma - Ap

Negli ultimi decenni, a partire dal 1991, i pacifisti dei paesi Nato hanno considerato un esempio quegli Stati occidentali neutrali, che non bombardavano paesi in guerre di aggressione né manovravano in guerre per procura – anche se Svezia e Finlandia avevano entrambe aderito al Partenariato per la pace promosso dalla Nato nel 1994.

La svolta atlantista inaspettata di questi ultimi mesi ha indotto due organizzazioni pacifiste attive in Svezia, Svenska Fredskommittén (Comitato per la pace) e Riksföreningen Nej till Nato (Associazione nazionale No alla Nato) a scrivere ai Parlamenti degli Stati membri dell’Alleanza atlantica chiedendo che la domanda di adesione da parte del loro paese venga respinta. Ne parliamo con Ulf Sparrbåge di Nej till Nato.

Come avete motivato la vostra richiesta di tenere fuori la Svezia?

Con due ragioni forti. Primo, in questa brusca rottura della tradizionale politica svedese di non allineamento, i cittadini non sono stati interpellati; il governo sa che c’è una diffusa opposizione e ha deciso in modo affrettato, quando in precedenza il primo ministro svedese Magdalena Andersson sosteneva che i cambiamenti improvvisi sono rischiosi. In secondo luogo, l’ingresso destabilizzerebbe la regione e renderebbe il mondo più insicuro. Vista anche la collocazione geografica di Finlandia e Svezia, il loro status di neutralità in un’area cruciale fra Nato e Russia è stato un fattore stabilizzante, ininterrottamente, per tutte le parti. È incomprensibile che si voglia far franare tutto questo.

La domanda di adesione di Stoccolma all’Alleanza atlantica è del 2022, ma Nej till Nato nasce nel 2014…

Sì. Fu quando il nostro paese firmò un accordo che permetteva alla Nato di condurre esercitazioni congiunte sul territorio svedese e ai paesi membri dell’Alleanza di dispiegare truppe in Svezia in risposta a presunte minacce alla sicurezza nazionale. Fu un fulmine a ciel sereno, un anno dopo le elezioni, senza tempo per informare, studiare le conseguenze. Dal 2014 protestiamo nelle strade, raccogliamo firme, prendiamo parte a dibattiti, distribuiamo volantini, scriviamo articoli. Ma ci sono anche divisioni nel mondo pacifista. E non c’è ricambio generazionale. I giovani non sembrano molto attratti dall’attivismo anti-guerra…

A maggio la Svezia ha firmato la domanda, il 5 luglio i membri dell’Alleanza hanno firmato i protocolli per l’adesione di Svezia e Finlandia ed è iniziato così il processo di ratifica che potrebbe concludersi in 6-8 mesi. Cosa pensate di fare?

La situazione è pessima. Comunque sono circa 40 le organizzazioni che lavorano per fermare questa marcia. E se la Svezia entrerà, ebbene continueremo a lottare. Per l’uscita. Come fate voi.

I partiti politici e la popolazione non temono l’impiantarsi di basi Nato e Usa, e la conseguente partecipazione diretta a conflitti all’estero?

Ormai solo due partiti sono contrari. Rappresentano insieme il 15% dei voti in Parlamento. Il Miljöpartiet (partito verde) e il Vänsterpartiet (sinistra). Chiedono di aspettare almeno fino all’esito delle elezioni di settembre per il rinnovo del Parlamento. In precedenza, nel paese la stragrande maggioranza era per la neutralità. È difficile interpretare il pensiero degli svedesi a proposito della Nato. Va detto che i media sono un grande problema. La copertura della crisi/guerra in Ucraina è sbilanciata in modo eclatante.

Ci sono ancora in Occidente paesi neutrali (Svezia e Finlandia, poi Austria, Svizzera, Irlanda, Moldavia, Serbia, Malta, la stessa Ucraina…). Se, per (improbabilissima) ipotesi, questa lista si allungasse, aiuterebbe la pace?

I paesi non allineati servono a controbilanciare le alleanze militari. E possono mostrare che le controversie vanno risolte sui tavoli negoziali. Piccoli e grandi Stati dovrebbero formare una rete di paesi militarmente non allineati, i quali lavorano affinché la guerra non sia mai più un meccanismo di risoluzione dei conflitti.

Era la proposta, tanti decenni fa, dell’economista indiano J. C. Kumarappa. E invece, dopo il vertice di Madrid lo scorso giugno, la Nato rafforzata che farà?

È un’alleanza che ha già una storia aggressiva, non certo di difesa. Lavorerà per espandersi a Est, anche in Asia. Ha puntato la Cina come il grande problema, insieme alla Russia naturalmente. La vediamo così: la Nato è il braccio militare degli Stati uniti e serve i loro interessi geopolitici, da difendere anche a mano armata, se occorre. Lavora in due modi. L’attore bellico a seconda dei casi può essere la Nato o suoi singoli Stati membri. E tutto ciò è reso possibile dal fatto che i leader europei sono deboli, molto deboli.

Nella guerra in corso la Nato agisce, oltre che politicamente, inviando armi a Kiev. Molti pacifisti ma anche analisti di diversi paesi sostengono che, senza questa fornitura militare, si sarebbero salvate molte vite perché sarebbe stato più facile condurre entrambe le parti a negoziare, sulla base degli accordi di Minsk. Che ne pensate?

È certamente un grande errore armare l’Ucraina. Prolunga la guerra, allontana il negoziato, aumenta le sofferenze e le vittime. Pochi vogliono ammettere che sulla pelle degli ucraini si gioca una guerra per procura fra Stati uniti e Russia. L’Ucraina, terra di frontiera, è il pedone da sacrificare, come nel gioco degli scacchi. Gli accordi di Minsk? La maggior parte dei giornalisti nemmeno li conosce. Eppure sarebbero il migliore punto di partenza per il peace building.

E la resa svedese alle richieste della Turchia di Erdogan?

Nel nostro paese ci sono molti curdi, in gran parte rifugiati. Era stato dato loro un porto sicuro. Adesso tutto cambia, è come un tradimento. E tradendo i principi non si ottiene rispetto nel mondo.

 
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CRISI UCRAINA. Il Canada sospende le misure anti-Mosca per permettere la consegna delle turbine necessarie (secondo i russi) a riparare NordStream1. La Germania ringrazia. E la Commissione Ue apre agli aiuti di Stato per i settori più colpiti dal caro-energia

Sanzioni tra parentesi per evitare un freddo inverno La stazione del NordStream1 a Lubmin, Germania - Ap/Jens Buettner

Sanzioni a geometria variabile contro la Russia, per evitare la chiusura sine die dei rubinetti del gas. Il Canada ha dato un «permesso a termine e reversibile» per consegnare le turbine Siemens, in manutenzione a Montreal, alla pipeline NordStream1, che da ieri è bloccata da Gazprom con la scusa delle «riparazioni» che dovrebbero durare per dieci giorni, fino al 21 luglio.

L’UCRAINA È FURIOSA, ha protestato e chiesto a Ottawa di non consegnare le turbine e rispettare le sanzioni. Ma il cancelliere Olaf Scholz ha ringraziato calorosamente i «nostri amici e alleati canadesi» che hanno deciso di mettere tra parentesi le sanzioni perché in caso contrario, ha detto il ministro canadese della Risorse naturali, Jonathan Wilkinson, i tedeschi sarebbero «incapaci di riscaldare le case nel prossimo inverno».

La Russia aveva già giustificato il taglio del 40% delle forniture di gas all’Europa con la scusa della mancata consegna delle turbine. La Germania è in prima linea con il blocco del NordStream1, a causa della forte dipendenza dal gas russo (al 55%, la media Ue era del 40% prima dell’aggressione all’Ucraina) e deve organizzarsi per far diminuire di circa il 30% la domanda di gas (per i Baltici si tratta di più del 50%).

Adesso sono arrivati nuovi tagli all’Eni, ormai circa la metà dei paesi Ue ha subito diminuzioni o il blocco nelle forniture di gas, il commissario all’Energia Kadri Simons rileva che gli arrivi sono oggi la metà di quelli di un anno fa alla stessa epoca.

Il 20 luglio la Commissione presenta un piano di emergenza per ridurre la domanda di energia. Il progetto non è ancora a punto, ma emerge con forza l’ipotesi di emettere un Regolamento (che gli Stati devono applicare subito, senza ulteriori passaggi istituzionali nazionali, a differenza delle Direttive, che vanno inserite nelle legislazioni dei singoli Stati) per attivare il «vincolo di solidarietà» tra i 27, come era stato fatto per il NextGenerationEu (il piano di rilancio) e i vaccini.

LA GERMANIA PREME. «Abbiamo bisogno di meccanismi vincolanti di solidarietà nella Ue», ha detto qualche giorno fa Manfred Weber, leader del Ppe. Intanto la Commissione, nell’ambito del programma RePowerEu, si prepara a essere di manica più larga nell’accettazione degli aiuti di Stato a sostegno dei settori più colpiti dal caro-energia.

In Francia il ministro dell’Economia, Bruno Le Maire, è in allarme: «Dobbiamo anticipare e metterci in ordine di battaglia adesso. Prepariamoci per un taglio totale del gas russo, oggi è l’opzione più probabile».

Per far fronte all’emergenza, il governo si prepara a presentare un nuovo piano di sostegno al potere d’acquisto, altri 50 miliardi nella speranza di evitare un autunno caldo dei gilet gialli. C’è anche la proposta del governo di requisire gli impianti di produzione di energia in caso di penuria (ha già in programma la nazionalizzazione di Edf, l’Enel francese, dove lo stato passerà dall’84% al 100%).

MA IN FRANCIA l’opposizione intona un’altra musica: France Insoumise da un lato, Rassemblement national dall’altro chiedono che Parigi esca dal mercato unico dell’energia, che essendo basato sul prezzo marginale (i prezzi sono indicizzati sulla fonte più cara) – sostengono – fa salire il costo in Francia che con il nucleare produce energia a prezzi inferiori.

A Bruxelles, la Commissione oscilla tra i difensori di un razionamento dell’energia e chi insiste sulla necessità di accelerare la diversificazione delle fonti di approvvigionamento (Gentiloni, Breton, Vertager). Nell’ultimo rapporto l’Agenzia internazionale dell’Energia prevede un raddoppio del nucleare entro il 2050, accanto alle rinnovabili, per ridurre le emissioni di Co2.

 

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ENERGIA. Il 20 luglio la Commissione deve presentare un «piano di emergenza» per far fronte al taglio delle forniture di Mosca. Il tempo stringe, soprattutto per la Germania: da lunedì inizia la “riparazione” del gasdotto NordStream1. L’opzione climatica è messa da parte, quello che conta adesso è come sopravvivere il prossimo inverno, con la paura che i prezzi si alzino ancora e il rischio di scatenare un movimento di gilet gialli di fronte a governi indeboliti (a cominciare da Francia e Italia)
L’inverno senza gas spaventa  la Ue, che dimentica il clima L’impianto di stoccaggio del gas di Wolfersberg-Oberpframmern
in Germania - Ap

Sulla carta, tutto procede come da programma: Fit for 55, il progetto per ridurre la Co2 del 55% entro il 2030 (con l’obiettivo delle neutralità carbonio nel 2050) è in movimento, almeno due stati (Lussemburgo e Austria) e alcune organizzazioni ecologiste si preparano a portare alla Corte di giustizia europea l’inserimento del gas e del nucleare nella tassonomia come energie di transizione, opzione approvata obtorto collo dall’Europarlamento mercoledì, che poi ha preso posizione a favore di un’accelerazione nella decarbonizzazione dell’aviazione. Ma, dietro le quinte, sta andando in onda un programma del tutto diverso.

L’OPZIONE CLIMATICA è messa decisamente da parte, quello che conta adesso è come evitare una penuria di energia nella Ue per il prossimo inverno e che i prezzi si alzino ancora, con il rischio di scatenare un movimento di gilet gialli dappertutto in Europa, di fronte a governi indeboliti (a cominciare da Francia e Italia).

Il tempo stringe: da lunedì, inizia la “riparazione” del gasdotto NordStream1, che collega Russia e Germania. Dovrebbe durare fino al 21 luglio, ma nessuno si fida di Mosca, che potrebbe trovare delle “anomalie” che giustifichino un prolungamento del blocco. Questa chiusura rende difficile realizzare la richiesta della Commissione, approvata al Consiglio europeo del 27 giugno: riempire all’80% le riserve di gas entro il 1° novembre (adesso siamo al 56%). La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha avvertito il 6 luglio: «Dobbiamo prepararci a nuove perturbazioni nelle forniture di gas se non addirittura a un taglio completo». Non ci saranno sanzioni sul gas russo, ma sarà Mosca a chiudere il rubinetto.

IL 20 LUGLIO, la Commissione deve presentare un «piano di emergenza» per la riduzione della domanda di energia, per far fronte al taglio del gas russo, in parte già attuato in parte sotto minaccia, dopo che ad agosto entrano in vigore le sanzioni sul carbone di Mosca e a fine anno toccherà al petrolio. Bruxelles cerca di mettere in piedi una “solidarietà” europea, sul modello dei vaccini del Covid, cercando di evitare il disordine e la concorrenza che si era scatenata tra paesi membri nei primi mesi della pandemia, con la corsa alle mascherine e al materiale sanitario che mancava in un’Europa impreparata.

I 27 PERÒ, FINORA, non sono riusciti a mettersi d’accordo su acquisti congiunti di gas e ognuno ha fatto da sé alla ricerca di fornitori alternativi stato per stato. L’ipotesi di un price cap al gas è messa da parte, tanto più che la concorrenza tra stati non ha fatto che far aumentare il prezzo del gas.

Il commissario all’Energia, Kadri Simson, allerta che oggi gli arrivi di gas in Europa sono la metà rispetto a quelli dello scorso anno alla stessa epoca. Francia (per il nucleare), Italia (per la ricerca di altri fornitori) e Spagna sono meno affannati, ma la Germania deve fare i conti con una forte minaccia di penuria: dovrebbe diminuire la domanda intorno al 30%, i Baltici a più del 50%.

La Commissione è divisa: per Kadri Simson si dovrà arrivare a un razionamento dell’energia per l’attività industriale (ma il prezzo è la cassa integrazione e la disoccupazione all’orizzonte, oltre alle proteste in stile gilet gialli subito). Per i commissari Paolo Gentiloni (Economia) e Thierry Breton (Mercato interno) bisogna accelerare sulla differenziazione degli approvvigionamenti.

PRIMA DELL’INVASIONE dell’Ucraina, dalla Russia arrivava in Europa il 40% del gas consumato, pari a 155 miliardi di metri cubi. Poi ci sono state le prime chiusure: il 27 aprile, Mosca ha chiuso il rubinetto a Polonia e Bulgaria, il 21 maggio alla Finlandia (per punirla della richiesta di adesione alla Nato), il 30 maggio alla Danimarca (in parallelo al varo dell’embargo sul petrolio). Una dozzina di paesi ha subito tagli o e già a secco. Delle alternative sono state attivate: Usa, Egitto, Qatar, Africa occidentale, Norvegia, Azerbaijan. Ma il passaggio non è immediato, il gas deve arrivare sotto forma liquida se non esistono pipelines, in Europa ci sono pochi terminal (li hanno Spagna e Francia, mentre la Germania era a zero e ne sta costruendo uno a tutta velocità): tra un anno, potrebbe sostituire un terzo del gas russo.

L’industria, in alcuni casi, potrebbe rimpiazzare il gas con il petrolio (si parla di 7-8 miliardi di metri cubi). Poi c’è il temuto ritorno alle centrali a carbone: Polonia e Bulgaria non le hanno mai abbandonate e le fanno funzionare a fondo, Germania, Olanda, Francia e persino la tanto ecologica Austria si sono rassegnate, l’Italia dovrebbe seguire.

 
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LA QUASI CRISI. L’avvocato rivendica «coerenza» sul decreto Aiuti. Decisivo l’incontro di oggi tra governo e sindacati. Grillo chiede un segnale «subito» sul salario minimo. Una decina i senatori contrari comunque alla fiducia

Conte alla scelta finale: «No ad accordi al ribasso» Giuseppe Conte - LaPresse

La salita al Colle di Draghi non passa inosservata nella sede 5s di Campo Marzio, dove Conte si chiude a metà pomeriggio con lo staff e un pugno di fedelissimi. In serata la linea che prevale è quella della cautela, nessuna accelerazione verso la crisi fino a quando (oggi) il premier non incontrerà i sindacati a palazzo Chigi. Da lì devono arrivare risposte sull’agenda sociale, a partire dal salario minimo rilanciato ieri da Grillo come massima tra le urgenze dopo i dati «pazzeschi» dell’Inps sul lavoro povero.

E CHISSÀ CHE NON SIA proprio il garante, anche stavolta, a guidare il Movimento in uno dei passaggi più stretti della legislatura. Se il segnale che arrivasse dal premier fosse credibile sulla lotta alla povertà, allora anche l’indigesto decreto Aiuti potrebbe essere trangugiato dal M5S giovedì in Senato. Forse. Perché dopo la mossa di ieri di uscire dall’aula della Camera per non votare il decreto (solo un deputato, Francesco Berti, ha disobbedito), il piano si è fatto inclinato.

Votarlo in Senato, dove il voto è unico (fiducia più testo) non sarà comunque semplice per la truppa grillina. Le voci di palazzo Madama, sempre più incontrollate, confermate da alcune chat interne tra senatori («Non voto neppure se mi vengono a prendere a casa»), dicono che almeno una decina su 62 non è disposta a votare la fiducia. Che uscirebbe dall’aula anche se l’avvocato desse ordine di votare sì.

MA QUESTO È SOLO UNO dei problemi. Ieri, prima che il premier salisse al Colle, Conte ha motivato la decisione del non voto alla Camera come «una questione di coerenza e linearità». «Era stato anche anticipato, è tutto chiaro». In realtà l’ordine di scuderia è arrivato pochi minuti prima, e la dichiarazione in aula del capogruppo Davide Crippa (uno dei meno propensi allo strappo) ha avuto toni piuttosto duri: «Sui temi energetici il Parlamento non ha toccato palla. Siamo di fronte a un testo blindato che lo sarà anche in Senato».

E ancora: nel decreto «ci sono interventi utili seppur non risolutivi per frenare l’impennata delle bollette», «qualche passo avanti che abbiamo contribuito a compiere». Ma «non c’è una spiegazione razionale nel voler inserire una norma che apre al termovalorizzatore a Roma».

I NODI RESTANO QUELLI di due mesi fa, quando la delegazione 5S non votò il provvedimento in consiglio dei ministri. In più c’è ormai la chiara consapevolezza che il testo non verrà toccato in Senato, come il M5S sperava fino a un paio di giorni fa di poter fare. Restano dunque intoccabili anche le norme sul superbonus edilizio. Quelle su cui il Movimento ha cercato fino all’ultimo di intervenire, per investire più soldi per sbloccare i crediti incagliati. Ed è stato proprio il no di palazzo Chigi su una nuova iniezione da 3 miliardi sul bonus a spingere Conte al primo strappo alla Camera.

IN ASSENZA DI UNO SCATTO sui temi sociali, la strada per la non fiducia sembra segnata. Nonostante le pressioni del Pd e di Articolo 1, gli alleati che pressano Conte per restare nella maggioranza fino a fine legislatura. Anche ieri telefonate e messaggi da tutti i big dem, da Letta in giù, per spingere sul senso di responsabilità dell’avvocato. Secondo i dem sarebbe «singolare» annunciare una crisi di governo proprio nei giorni in cui il premier si impegna coi sindacati per una svolta sociale.

«Non possiamo perdere questa opportunità», l’appello del Pd. «Nel vostro documento in 9 punti consegnato a Draghi ci sono proprio i temi su cui il governo intende fare un passo avanti». «Stiamo a vedere, le prossime 48 ore sono decisive», filtrava ieri dalla sede M5S. «Non vogliamo accordi al ribasso», il messaggio recapitato agli alleati.

LA LINEA DELL’USCITA dall’aula di palazzo Madama (pur non decisa ufficialmente) a ieri sera sembrava prevalente. «Un’ipotesi sul tavolo», conferma il fedelissimo Mario Turco. «Ma non significherebbe automaticamente uscire dal governo». «Ma niente fughe in avanti», è la raccomandazione recapitata ai falchi. L’avvocato ha capito, dopo la salita al Colle di Draghi, che il premier non ha intenzione di derubricare un nuovo strappo parlamentare. Che stavolta non si scherza.

E tra i senatori meno ribelli c’è chi ricorda: «Abbiamo detto che c’è tempo fino a fine luglio per valutare i nostri 9 punti. Una accelerazione potrebbe apparire incomprensibile». La decisione finale arriverà domani sera, in una riunione tra Conte e i senatori.

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ASSEMBLEA A ROMA. Il movimento guidato da De Magistris e promosso con Prc e Pap fa un altro passo verso la lista elettorale. Presente Manon Aubry della Nupes. L’ex sindaco: «Campo largo? No, campo aperto»

La sinistra a lezione di francese. Parte  l’Unione popolare L'assemblea dell'Unione popolare

La presenza dell’europarlamentare francese del partito di Mélenchon, Manon Aubry, è un portafortuna non da poco. Così come il nome «Unione popolare» è preso in prestito dai cugini francesi della Nupes. Ma di certo questa voglia di fare come Mélenchon non basta per rendere più semplice la salita impervia che hanno in mente Luigi De Magistris, Rifondazione e Potere al popolo: e cioè portare al successo elettorale una «sinistra di rottura», un polo alternativo tanto alle destre sovraniste quanto ai giallorossi, accusati di spendere solo «belle parole» per i lavoratori e le classi più deboli, ma in sostanza di non voler cambiare nulla.

MATTINATA DI LUGLIO, strapiena la sala dell’Hotel The Hive di Roma dove l’Unione popolare fa un altro passo in direzione della lista che si presenterà alle politiche. «Vogliamo arruolare i non allineati, quelli che non stanno nel sistema, i rassegnati, gli arrabbiati, entusiasmare chi non ci crede più», dice De Magistris dal palco, dopo una lunga serie di interventi di lavoratori, sindacalisti, studenti. «Sconfiggere le destre? Noi ci dobbiamo unire per sconfiggere il consociativismo che ha corrotto la democrazia, e di questo fa parte il centrosinistra che ha fatto le più grandi schifezze e anche il M5S», tuona dal palco l’ex sindaco di Napoli.

«Mai alleati col Pd», alza ancora di più la voce tra gli applausi. «A me non interessa un campo largo, ma un campo aperto, come una lotta partigiana, un movimento rivoluzionario, per arruolare chi vuole credere nel cambiamento proposto da persone credibili». E ancora: «Vogliamo attaccare al cuore il sistema dell’economia di guerra e dell’economia mafiosa. Col sistema non si può trattare, sappiate che la battaglia che stiamo iniziando non sarà una suonate di violino».

AUBRY SUGGERISCE LA STRADA di una «sinistra di rottura», contro l’austerità e le politiche neoliberiste, proposte forti come il salario minimo a 1400 euro e la pensione a 60 anni. E una contrapposizione frontale «ai liberali come Macron che sono il vero ascensore per le destre estreme». «Mi auguro che in Italia possiate fare come noi in Francia, arrivare al 20%», scalda la platea Aubry che poi ha un lungo colloquio privato con De Magistris. «Vi auguro che possiate cambiare i rapporti di forza a sinistra come abbiamo fatto noi con socialisti e verdi».

SIMONA SURIANO, parlamentare del gruppo Manifesta gemellato con Prc e Pap, attacca le «sedicenti sinistre che votano l’invio di armi e gli inceneritori. Non basta dire di volere giustizia sociale e ambientale, occorre essere coerenti», l’attacco rivolto alle sinistre che si apprestano ad allearsi col Pd. C’è tanto no alla guerra in questa assemblea.

De Magistris si chiede come mai i governi occidentali non abbiano sostenuto le resistenze curde e palestinesi. «Se uno propone di inviare armi ai palestinesi viene tacciato come terrorista». Eppure, ricorda Moni Ovadia, «proprio sulla Palestina casca l’asino dell’Occidente, lì sono state violate tutte le regole del diritto internazionale, con un sistema di apartheid e l’esproprio della terra».

L’EX SINDACO CI TIENE a presentarsi come forza di governo: «A Napoli siamo durati dieci anni, contro tutti i partiti che oggi appoggiano Draghi. E abbiamo rispettato il referendum sull’acqua pubblica. Vogliamo riprenderci la democrazia dimostrando che il potere è servizio per garantire diritti, uguaglianza, fratellanza, libertà, giustizia sociale ed ambientale». L’esempio dunque è quello delle due campagne elettorali sotto il Vesuvio: «Certo, l’Italia è più grande, ma ce la possiamo fare…». Il prossimo appuntamento dell’Unione popolare sarà proprio a Napoli a fine settembre. Invitati anche esponenti di Podemos e France Insoumise.

 

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