WORKFARE ALL'ITALIANA. Il numero delle persone che si trovano in una condizione di «povertà assoluta» in Italia è quasi triplicato tra il 2005 e il 2021, passando da 1,9 a 5,6 milioni. Le famiglie che si trovano in questa condizione sociale sono raddoppiate da 800 mila a 1,96 milioni. Lo sostiene il Rapporto annuale dell'Istat secondo il quale la povertà assoluta colpisce tre volte di più i minori e i giovani tra i 18 e i 34 anni. Ritratto di un paese costruito sulla precarietà di massa, l’insicurezza sociale e contrattuale, le disparità crescenti dei redditi peggiorati dall’inflazione galoppante. E la politica polemizza ferocemente sul ruolo del «reddito di cittadinanza» nel 2020. Per l’Istat avrebbe impedito l’aumento di 1 milione di poveri. Il problema è che ciò è avvenuto nel 2021
Italia, in un Caf - Ansa
Il rapporto annuale 2022 dell’Istat è passato ieri alle cronache per la consueta disfida ideologica sul «reddito di cittadinanza» tra i populisti compassionevoli (Cinque Stelle, Pd e sinistre) che difendono l’operato del governo «Conte 2» (e quello precedente) e i paternalisti neoliberisti (destre varie da Fratelli d’Italia a Italia Viva) che vogliono abolirlo,
Scritto da Silvio Messinetti, REGGIO CALABRIA su il manifesto
PROCESSO D'APPELLO . Ammessa la nuova trascrizione dei dialoghi tra l’ex sindaco di Riace e l’ispettore Del Giglio
E se fosse Salvatore Del Giglio la chiave di svolta della lunga odissea giudiziaria di Mimmo Lucano? La figura di questo burocrate prefettizio torna centrale nel processo di Appello in corso a Reggio Calabria. Del Giglio è l’ispettore che, assieme ad altri due colleghi della prefettura reggina, nel 2016 aveva stilato la relazione sulla gestione dello Sprar da parte del comune di Riace. Nel processo di primo grado fu uno dei teste a carico di Lucano. Tuttavia proprio una conversazione tra l’ex sindaco e l’ispettore sarebbe in grado «di cambiare le sorti del processo». Ne sono convinti i legali della difesa, Giuliano Pisapia e Andrea Daqua. E il dialogo tra i due è stato acquisito tout court dai giudici reggini che hanno disposto clamorosamente la riapertura dell’istruttoria. Il processo di Appello a Lucano, condannato in primo grado a 13 anni e due mesi per la gestione dell’accoglienza nel piccolo borgo jonico, è partito così. Con la riapertura dell’istruttoria dibattimentale disposta dalla corte, su richiesta della difesa e con il parere favorevole dei sostituti procuratori geneali Adriana Fimiani e Antonio Giuttari.
AMMESSO agli atti il parere pro veritate di 50 pagine predisposto dal consulente Antonio Milicia. Contiene la nuova trascrizione delle intercettazioni, compresa quella insabbiata durante il processo di primo grado, e un cd corredato dall’audio di quei dialoghi. L’intercettazione regina è datata 20 luglio 2017, quando ancora non era stato notificato l’avviso di garanzia all’ex sindaco, neanche trascritta e come tale non valutata dal tribunale di Locri. Una lunga chiacchierata, in cui Del Giglio prima avvisa Lucano che «non è improbabile che un domani, così come (inc.) se non è già arrivata da voi, verranno la Guardia di Finanza», e poi ammette che «l’amministrazione dello Stato non vuole il racconto della realtà di Riace. Vuole… perché oggi la mission dello Stato… sapete, lo Stato è composto… come qua da voi. C’è l’opposizione».
Ma c’è dell’altro. Del Giglio spiega che per la politica l’integrazione non è un obiettivo. «La mia certezza – sottolinea – è che l’organizzazione fa acqua da tutte le parti. Non ultimo il fatto che dopo lo Sprar non c’è niente. E allora, questo mi fa dedurre che l’obiettivo integrazione è soltanto una parola buttata là». Quindi Del Giglio riferisce le parole che avrebbe pronunciato un altro funzionario prefettizio, Salvatore Gullì: «Io ho dovuto scrivere perché fa schifo il sistema nazionale dell’accoglienza – gli avrebbe riferito – abbiamo utilizzato questa cosa di Riace per…per dire queste cose». «Perché deve pagare Riace?», si chiede Lucano. La risposta di Del Giglio è chiara: «Siccome io ritengo che comunque Riace, al di là delle disfunzioni eventuali o delle anomalie amministrative, quindi della burocrazia, abbia realizzato una realtà evidentemente ancora unica sul territorio non solo nazionale, dovete difenderla. Con qualsiasi conseguenza». Parole che gettano ombre sul processo di Locri e sulla stessa relazione prefettizia, poi finita agli atti dell’inchiesta.
Nel ricorso in appello, Daqua e Pisapia avevano rimarcato che l’obiettivo di Lucano «era uno solo ed in linea con quanto riportato nei manuali Sprar: l’accoglienza e l’integrazione. Non c’è una sola evidenza dibattimentale (intercettazioni incluse) dalla quale si possa desumere che il fine che ha mosso l’agire del Lucano sia stato diverso». E secondo i due legali, «il giudice di prime cure si è preoccupato di trovare “ad ogni costo” il colpevole nella persona di Lucano, utilizzando oltremodo il compendio intercettativo, con un’interpretazione macroscopicamente difforme dal suo autentico significato».
LUCANO si mostra fiducioso per il prosieguo del processo. «Ma non mi interessa una riduzione di pena, sconti o altro. Io voglio l’assoluzione piena. Voglio solo ristabilire la verità». E se l’accusa è quella di aver aiutato gli ultimi, ribadisce, «io in quel caso non sono innocente e non lo sarò mai. Mi hanno condannato perché secondo loro avrei truffato lo Stato destinando i fondi dell’accoglienza ad altri progetti? Quei soldi sono serviti a fare una scuola, un frantoio e i laboratori in cui lavoravano riacesi di nascita e d’adozione. Basta venire a Riace per averne la prova». Il processo riprenderà il 26 ottobre.
Scritto da Anna Maria Merlo, PARIGI su il manifesto
EUROPA. Il voto contestatissimo del Parlamento europeo: otto i paesi contrari e Austria e Lussemburgo promettono di rivolgersi alla Corte di giustizia. Protesta dei socialisti: «Patto faustiano» tra Francia e Germania. Greenpeace: «È un regalo a Putin»
La protesta di ieri di ambientalisti italiani fuori dall’Europarlamento a Strasburgo - Ap/Jean-Francois Badias
È una «vergogna», un «risultato scandaloso», ma «la lotta continua». Verdi, sinistra e organizzazioni ecologiste criticano con forza il risultato del voto ieri al Parlamento europeo, che ha respinto con 328 voti contro 278 e 33 astensioni l’«obiezione» – che equivale a un veto – all’inserimento del gas e del nucleare nella Tassonomia delle energie rinnovabili, almeno come transizione, che era stata posta alla commissione Envi del parlamento europeo il 14 giugno scorso.
COSÌ, ROVESCIATO IL VETO, è passato il testo della Commissione presentato lo scorso gennaio che considera «durevoli» alcuni investimenti per la produzione di energia nelle centrali nucleari che non emettono Co2 costruite fino al 2030 (e che adottano un protocollo per maggiore sicurezza dal 2025 e piani per lo stoccaggio delle scorie dal 2050). Accettate anche le centrali a gas, a condizione che utilizzino le tecnologie più avanzate e che permettano la chiusura di centrali a carbone, ancora più inquinanti.
La storia però non finisce qui: Austria e Lussemburgo hanno l’intenzione di rivolgersi alla Corte di giustizia europea, una procedura giudiziaria a cui si aggregheranno le varie opposizioni. Il Consiglio europeo approva la linea della Commissione, ma c’è l’opposizione di otto paesi
Scritto da Sabato Angieri, KRAMATORSK su il manifesto
CRISI UCRAINA. Dopo il Lugansk, anche il Donetsk è vicino alla resa. A Slovjansk e Kramatorsk arrivano mezzi e uomini per la battaglia finale, su una regione che pare trasformata in una terra vulcanica
Civili tra le macerie a Slovjansk - Ap/Andriy Andriyenko
Il Donbass in questi giorni è una terra vulcanica. Dovunque ci si sposti alte colonne di fumo nero e bianco si levano dal suolo e a volte ristagnano a mezz’aria impedendo la vista. Bakhmut ieri era come Slovjansk il giorno prima, Avdiivka come Siversk, Slovjansk non ha pace da giorni e Kramatorsk continua a tremare.
Negli ultimi due giorni altri nove civili sono morti e più di 50 sono rimasti feriti. Come possano parlare di controffensiva ucraina in Donbass alcuni media resta un mistero. È un fatto che il ministero della difesa di Kiev ha diffuso una nota in cui si legge che le truppe ucraine hanno inflitto «perdite significative» ai nemici nei pressi di Verkhnokamianske, Belogorivka e Gryhorivka impedendone l’avanzata. Così come, sempre secondo i difensori, i russi sarebbero stati bloccati a Dolyna, in direzione di Slovjansk.
NOTIZIE DA INTERPRETARE, semmai, come la dimostrazione che l’esercito ucraino non è in rotta e riesce ancora a colpire gli invasori dalla distanza rallentandone l’avanzata. Ma chiunque sia in Donbass in questi giorni sa che è prematuro, se non palesemente fuorviante, parlare di «controffensiva». Anche Toretsk, dove potrebbe attestarsi l’ultima propaggine dello sbarramento ucraino che parte da Slovjansk, ieri è stata colpita da un missile balistico e almeno tre persone sono ancora sotto le macerie.
A Bakhmut le truppe del Cremlino continuano a colpire un’area di campi brulli fuori città, verso nord. Tra quelli che fino a pochi giorni fa erano campi di grano giallo e ora sono macchie nere all’orizzonte, ci sono diverse file di alberi di quelle che servono a delimitare i confini degli appezzamenti. Probabilmente sotto quelle chiome si nascondono anche postazioni di lancio ucraine ed è per questo che i russi non si risparmiano.
In quella stessa area domenica abbiamo assistito allo sgancio di un ordigno a caduta libera da un Sukhoi dell’aviazione russa. Poco dopo tutta la periferia di Bakhmut era sovrastata da un fungo di polvere e fumo e, per ore, l’ennesimo vulcano temporaneo è rimasto attivo.
POCO PIÙ A NORD, lungo la strada che passa da Soledar e arriva a Siversk, diversi campi sono in fiamme e i boati dell’artiglieria non tacciono per più di mezz’ora. Nei pochi tratti all’ombra delle macchie boschive gli ucraini ripiegano dopo aver risposto al fuoco o dopo essere usciti in perlustrazione. Si incontrano carri armati in manovra, obici e cannoni, camion per lo spostamento di truppe.
Dal centro del villaggio, dove i pochi civili rimasti vivono in rifugi di fortuna o nelle cantine dei palazzi, parte una strada sterrata che arriva a Lysychansk. Le truppe russe sono a sette chilometri, poco dopo Verkhnokamianske, nei pressi del vecchio confine tra l’oblast di Donetsk e quello di Lugansk, ora occupato interamente dagli invasori.
L’impressione è che qui le forze ucraine non abbiano approntato difese adeguate a respingere un’eventuale avanzata e che quindi in ogni momento potrebbe essere ordinata la ritirata. Intanto a Slovjansk e Kramatorsk continuano ad arrivare mezzi e uomini per prepararsi alla battaglia definitiva per l’ultimo territorio del Donbass ancora in mano ucraina.
"DECRETO AIUTI". La commedia degli equivoci nella "verifica" chiesta dai Cinque Stelle nel governo Draghi tra paternalisti neoliberali e populisti compassionevoli
I Cinque Stelle intendono restare al governo se Draghi, tra l’altro, confermerà ciò che ha già fatto: il peggioramento delle condizioni imposte ai beneficiari del «reddito di cittadinanza» ritenuti «abili al lavoro» (1 milione circa su 3,2) deciso nell’ultima legge di bilancio. È confermata la legge della crisi: tanto più si deteriora la situazione economica, salariale e sociale, tanto più i lavoratori «poveri assoluti» saranno costretti ad accettare offerte di lavoro che non ci sono.
È un paradosso, ma questo è il problema: in Italia manca una domanda di lavoro adeguata alle caratteristiche di potenziali lavoratori molto fragili, con basse qualifiche, che non possono aspirare
SCONTRO NEL GOVERNO. Pressing dem sull’avvocato: «Se si apre la crisi noi chiediamo le urne». Orlando: «Non si può fare finta di niente se M5S esce dalla maggioranza»
Enrico Letta e Giuseppe Conte - Ansa
Ufficialmente, il Pd si mostra di fronte alle tensioni tra Conte e Draghi come un saggio fratello maggiore. «Il nostro auspicio è che il dialogo tra loro prosegua e si rafforzi», il commento ufficiale dopo il vertice tra il premier e il capo del M5S. «Per affrontare la crisi sociale serve un governo solido», continua ribadire Enrico Letta.
Dietro le quinte però i toni tra dem e grillini sono durissimi. L’ultimatum di Franceschini domenica scorsa a Cortona, «se uscite dalla maggioranza niente alleanza», restano il succo della linea del Pd. Che non solo continua con svariate telefonate a dire all’avvocato che se strappa dovrà correre da solo. Ma anche che i dem, in quel caso, non sarebbero più disponibili a sostenere Draghi fino al 2023, pur in presenza di una maggioranza garantita dai parlamentari di Di Maio. La minaccia (o bluff) è molto esplicita: «Caro Conte, se esci dal governo si vota in autunno e tu andrai da solo».
Che sia una pistola carica lo potranno dire solo i fatti, se i senatori 5S convinceranno l’avvocato a uscire dalle larghe intese. Anche perché, con la guerra in corso, e una maggioranza parlamentare pronta a sostenere ancora Draghi, per Mattarella non sarebbe facile sciogliere le Camere. «Il Pd non starebbe in una maggioranza solo con Lega, Fi e Iv e chiederebbe il voto anticipato», ribadiscono dal Nazareno. «Non ci faremo carico da soli della responsabilità mentre gli altri fanno campagna elettorale. Non ci si può chiedere di ripetere quello che è successo con Monti nel 2012-2013».
Posizione legittima, quando poi dovessero partire le consultazioni con Draghi dimissionario la musica certamente cambierebbe. Così come è improbabile pensare che, con questa legge elettorale (ieri da Meloni è arrivato un altro netto stop al proporzionale, mentre Salvini ribadisce che non vuole nessuna modifica al Rosatellum), il Pd possa correre senza il suo principale alleato, che nei sondaggi ancora sta intorno al 10%.
«Se Conte strappa la coalizione la facciamo con Di Maio e la sinistra», l’altro avvertimento che arriva dal Nazareno. Dove forse non si sono letti i sondaggi che inchiodano il partitino del ministro degli Esteri (che ieri ha visto il sindaco di Milano Beppe Sala per tentare di costruire una formazione centrista) intorno al 2%.
In ogni caso, il pressing del Pd su Conte è fortissimo. «Se te ne vai perdi la reputazione che avevi accumulato da premier», un altro dei messaggi. «Saresti fagocitato subito da Di Battista». Gli argomenti non mancano, e finora stanno funzionando, visto che Conte traccheggia. «Lui vorrebbe essere responsabile, sono i suoi parlamentari che lo strattonano», il ragionamento che circola ai piani alti del Nazareno.
Anche uno prudente come il ministro del Lavoro Andrea Orlando usa parole affilate: «Se Conte esce, la maggioranza cambia di segno e anche le condizioni per le quali avevamo accettato di farne parte. Quindi vedo difficile, anzi impossibile, proseguire facendo finta di niente e non vedo un’altra possibilità di costruire una formula che arrivi in fondo alla legislatura». «Dopo una rottura, rimettere insieme i cocci è abbastanza complicato», prosegue Orlando. «E sarebbe difficile presentarsi insieme agli elettori…».
A Letta i toni dell’ultimatum di Franceschini sono parsi sopra le righe. Quasi un dito nell’occhio alla truppa grillina che ribolle. Avrebbe evitato. Tra il segretario e il ministro della Cultura c’è in realtà una diversità di vedute: Franceschini vorrebbe arrivare al 2023 anche con una maggioranza ristretta, Letta invece chiederebbe il voto. Ma è chiaro che, di fronte a una preferenza di Mattarella per una fine ordinata e naturale della legislatura (e per evitare le urne in piena sessione di bilancio) il segretario dem scatterebbe sull’attenti. Ed è questo, in fondo, che rende scarica la pistola puntata contro il leader 5S.