Energia. Il vero problema dell’aumento delle bollette sta nel costo crescente di approvvigionamento delle materie prime, a partire dal gas fossile, causato dalla ripartenza dell’economia mondiale dopo le prime ondate della pandemia
Ci risiamo. Anche stavolta assistiamo allo stesso teatrino già visto in passato. Si esplicita un problema noto – in questo caso lo ha fatto il ministro Cingolani sui rincari della bolletta energetica – e parte un dibattito surreale in cui sul tavolo degli imputati viene messa la transizione ecologica.
Era già successo recentemente parlando del futuro del settore italiano dell’automotive all’interno della rivoluzione elettrica che sta investendo la mobilità mondiale. E la straordinaria opportunità di affrontare un problema ad oggi irrisolto – la crisi climatica – con investimenti in ricerca e innovazione, sviluppando tecnologie pulite che domani verranno vendute in tutto il mondo, diventa paradossalmente un guaio da scongiurare.
Ma davvero è la riconversione ecologica del Paese che sta facendo schizzare verso l’alto le bollette? Nulla di più falso. Il peso degli incentivi dati alla produzione di elettricità da rinnovabili sta scendendo: siamo arrivati a poco più di 11 miliardi di euro lo scorso anno, erano 14 fino a qualche anno fa. Sono sempre lì invece i costi impropri che sono stati caricati in bolletta: dai costi per lo smantellamento delle ex centrali nucleari agli incentivi alle industrie energivore, passando per i sussidi alle fonti fossili.
I costi relativi al sistema ETS di scambio delle quote di emissioni di anidride carbonica sono assolutamente minoritari. Lo ha detto anche il vice presidente della Commissione europea Frans Timmermans che proprio ieri in plenaria del Parlamento ha ricordato che solo il 20% dell’aumento del costo dell’energia può essere attribuito ai prezzi della CO2.
Il vero problema dell’aumento delle bollette sta nel costo crescente di approvvigionamento delle materie prime, a partire dal gas fossile, causato dalla ripartenza dell’economia mondiale dopo le prime ondate della pandemia. Visto che il nostro Paese produce elettricità per oltre il 35% del totale da fonti rinnovabili e per oltre il 50% dal gas, se il costo di quest’ultimo diventa sempre più alto per la speculazione degli oligopoli di settore, la bolletta non può che aumentare.
Cosa si può fare? in fase di definizione della legge di bilancio si potrebbe ripulire subito la bolletta energetica dagli oneri impropri. L’altra cosa da fare è rendere più semplice la realizzazione degli impianti che producono elettricità dalle fonti pulite, a partire dal sole e dal vento, ad una velocità di installazione che dovrebbe decuplicarsi. Le timidezze del governo sulle semplificazioni necessarie non affrontate neanche nell’ultimo decreto, imputabili soprattutto al Ministero della Cultura, e sul necessario coinvolgimento dei territori con i fondamentali percorsi partecipativi non aiutano. Lo stesso vale per le Regioni che continuano a varare moratorie senza senso sui nuovi impianti a fonti pulite, mentre continuano a funzionare centrali che bruciano gas, carbone o gas sul loro territorio. Una parte della responsabilità è in capo anche ad una parte del mondo ambientalista che, continuando ad invocare la fine dell’era delle fossili, contrasta contemporaneamente l’installazione di impianti eolici a mare e a terra o fotovoltaici.
I “signori del gas”, molto attivi anche in Italia, continuano a distorcere la realtà, promuovendo campagne mediatiche piene di fake news. Sta a chi a cuore la salute del pianeta e di chi respira i veleni prodotti dalla combustione delle fossili, ripristinare la verità, aiutando concretamente la costruzione del modello energetico “fossil free” sul territorio. Altrimenti non ne verremo mai a capo.
* presidente nazionale di Legambiente
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“Lo scorso trimestre la bolletta elettrica è aumentata del 20%, il prossimo trimestre aumenta del 40%. Queste cose vanno dette, abbiamo il dovere di affrontarle”: è questa la “bomba” sganciata ieri dal ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, durante un convegno della Cgil a Genova.
Quella di Cingolani è una dichiarazione esplosiva perché i rincari da lui prefigurati vanno ben oltre quelli registrati nel trimestre in corso, superando di 10-15 punti percentuali anche quelli stimati dai più per il prossimo trimestre.
Vedremo se e in che misura il Governo interverrà, come per altro ha già fatto in questo trimestre, per attutire l’impatto che il rincaro della materia prima energetica avrà sui portafogli di imprese e famiglie – con un numero sempre maggiore a rischio di povertà energetica.
Ma anche se ancora non si sa esattamente di quanto aumenteranno le bollette elettriche e del gas degli italiani, quel che è certo è che ci troviamo di fronte ad una dinamica di rincari di cui è necessario cercare di capire bene l’origine, se si vuole cercare di sterilizzarne le cause.
Attribuire il peso esatto di ogni concausa all’effetto finale non è mai semplice. Sicuramente, si sta verificando una sorta di tempesta perfetta di situazioni contingenti, che stanno facendo impennare i prezzi dell’energia. Ma è soprattutto una serie di errori, debolezze e carenze di programmazione che vengono da lontano a pesare sulle bollette.
Nel funzionamento del settore energetico, che per sua natura ha bisogno di muoversi con orizzonti decennali, pesano infatti più le cause di lungo termine che qualunque evento meteorologico o contingenza politico-economica.
Gli elementi contingenti della tempesta perfetta in corso sono vari, come il rincaro delle materie prime a livello internazionale, fra cui il gas metano, le cui scorte non sono state rimpinguate a sufficienza a causa del lungo inverno in Europa.
Alle condizioni metereologiche si sono aggiunte le strozzature delle consegne di gas da Russia e Norvegia. La frenata delle forniture, a seconda dell’atteggiamento più o meno dietrologico che si vuole assumere, possono essere state causate da una serie di sfortunate coincidenze, legate a manutenzioni, incidenti e alle crisi politiche in Ucraina e Bielorussia.
Oppure, come accennato in un nostro precedente articolo (Prezzi elettrici alle stelle? Segnali per puntare su efficienza energetica e rinnovabili), potrebbero dipendere da una non troppo velata volontà del presidente russo Putin di mostrare all’Europa quanto dipenda dal gas russo, in vista della controversa attivazione del nuovo gasdotto Nordstream, che collegherà direttamente Russia e Germania, bypassando l’Ucraina.
Il rincaro delle materie prime è stato dovuto anche all’aumento della domanda determinato dalla ripresa economica. Un ruolo lo ha avuto anche il rincaro dei certificati Ets di scambio della CO2, a cui potrebbero avere a sua volta contribuito anche le attese degli investitori, che sempre di più puntano sui certificati Ets come strumento finanziario capace di fornire buoni rendimenti in un periodo di bassi tassi d’interesse.
“Però il paradosso è che chi lamenta questa componente [speculativa], chi imputa alle politiche clima-energetiche europee il fatto che rincara l’energia rovescia un po’ il senso logico, nel senso che più rinnovabili avremo, meno certificati della CO2 dovremo pagare, quindi e un po’ l’inverso di quello che alcuni sostengono”, commenta l’amministratore delegato della società di ricerche Althesys, Alessandro Marangoni, sentito da QualEnergia.it
La realtà di lungo termine è che tutte queste cause contingenti stanno avendo un peso spropositato sulle bollette a causa del ruolo ancora troppo centrale che il gas metano ricopre nei sistemi energetici dell’Europa e in misura ancora maggiore dell’Italia.
È da anni che le installazioni di grandi impianti fotovoltaici ed eolici in Italia vanno a passo di lumaca, soprattutto a causa di un quadro regolatorio e legislativo contraddittorio e pachidermico.
Sappiamo che è necessario investire molto di più in capacità di accumulo, necessaria per gestire l’intermittenza delle fonti rinnovabili, e in questo campo abbiamo fatto ancora di meno che sul fronte delle rinnovabili. C’è ovviamente da ammodernare la rete, per renderla più flessibile a adatta ad un mondo di consumatori-produttori di energia distribuita, cosa che per lo meno abbiamo cominciato a fare.
L’impennata delle bollette elettriche e del gas crea, fra le altre cose, le condizioni di mercato ideali per un’ulteriore accelerazione delle rinnovabili, vista la convenienza sempre maggiore del kWh rinnovabile rispetto al prezzo unico nazionale dell’energia, trainato al rialzo dal metano.
Basterebbe cominciare a far seguire più fatti concreti, basati su dati ed evidenze scientifiche, alle parole di chi si occupa di energia e transizione energetica.
Commenta (0 Commenti)Stamattina la prima udienza a Monsoura, città natale del ricercatore. Cambiati i capi d’accusa: rischia 5 anni per un articolo del 2019
Dopo 19 mesi di carcerazione preventiva senza giustificazione legale, rinnovata di 45 giorni in 45 giorni, Patrick Zaki sarà trasferito questa mattina dal carcere di massima sicurezza di Tora, a sud del Cairo, fino a Mansoura, sua città natale situata a 130 km verso nord, dove avrà inizio il processo a suo carico. Non avendo trovato alcuna prova della «propaganda sovversiva» di cui era stato accusato adducendo alcuni post pubblicati su un account Facebook che la difesa ha dimostrato falso, il ricercatore egiziano, che dal settembre 2019 viveva a Bologna e lavorava per l’Università Alma Mater con una prestigiosa borsa di studio Erasmus Mundus, e che è stato arrestato al rientro in patria per una vacanza il 7 febbraio 2020, appena sceso dall’aereo, sarà processato per «un articolo pubblicato su Daraj, nel luglio 2019, intitolato “Spostamento, uccisione e restrizione: i diari di una settimana dei copti d’Egitto”», si legge sulla pagina Fb Patrick libero. Rischia cinque anni di carcere e la sentenza non è appellabile.
«L’ARTICOLO PRESENTA una settimana nella vita di Zaki come egiziano copto che reagisce agli eventi attuali riguardanti i cristiani egiziani, sia come questione di interesse pubblico che personale», riferisce il testo sottoscritto da una decina di organizzazioni a tutela dei diritti umani che condanna la decisione dei giudici egiziani e fa notare «l’ironia che l’incriminazione e il processo di Zaki davanti a un tribunale eccezionale giungano all’indomani del lancio della strategia statale per i diritti umani, in un evento in cui il presidente ha parlato a lungo del diritto alla libertà di religione e di credo e il diritto all’uguaglianza».
Dopo essere stato sottoposto ad interrogatorio il 13 luglio e il 9 settembre scorsi, caduta l’accusa di terrorismo, Zaki è ora chiamato a rispondere solo di uno dei capi d’imputazione originari: la «diffusione di notizie false in Egitto e all’estero allo scopo di danneggiare gli interessi nazionali, creare allarmismo nell’opinione pubblica, creare disturbo all’opinione pubblica». Davanti al «tribunale per i reati minori (di emergenza) della sicurezza dello Stato di Mansoura II, Zaki è stato incriminato sulla base degli articoli 80 (D) e 102 (bis) del codice penale», fanno sapere gli attivisti che lo sostengono.
MA, COME RIFERISCE al manifesto Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international Italia, neppure la legale di Patrick, l’avvocatessa Hoda Nasrallah, fino a ieri sera aveva contezza di
Commenta (0 Commenti)Lavoro. Come già ai tempi di Keynes, oggi la qualità dell’occupazione dipende dalla composizione degli investimenti pubblici e dalla produzione relativa di beni
Un’opera di Jeffrey Smart
È da apprezzare che il ministro Giorgetti sposi la prospettiva del “lavoro di cittadinanza” richiamandosi alla nostra Costituzione che colloca nel nesso con il lavoro il fondamento del valore dell’essere “cittadini”. Ma l’espressione ”lavoro di cittadinanza” va maneggiata con molta cura. Perché carica di significati che, a loro volta, racchiudono implicazioni dalle quali non si può prescindere, e la più riguarda l’impegno dei governi che la fanno propria a contrastare in tutti i modi la disoccupazione e a realizzare la “piena e buona occupazione”.
Dunque, tornare ad attingere alla riflessione keynesiana sulla “piena e buona occupazione” non può avere né un carattere strumentale (magari in semplicistica polemica con il “reddito di cittadinanza”), né un carattere retorico-irenico. Deve avvenire, anzi, nella consapevolezza che il modello economico ancora dominante – da cui è nata anche la pandemia – non crea naturalmente e spontaneamente occupazione e sviluppo nell’entità e nella qualità che sarebbero auspicabili. C’è bisogno di un rovesciamento di paradigma: non “alimentare la crescita sperando che ne scaturisca lavoro”, ma “creare lavoro per attivare la crescita, cambiandone al tempo stesso qualità e natura”. Tutto ciò implica la disponibilità da parte dell’operatore pubblico, piuttosto che a ricorrere solo a misure incentivanti volte a stimolare indirettamente la generazione di lavoro (come incentivi fiscali, decontribuzioni, bonus, trasferimenti monetari, riduzioni del cuneo fiscale, ecc.), ad adottare “piani diretti di creazione di occupazione” mediante un insieme articolato di progetti, facendo di “programmazione” e ”capacità progettuale” le vere parole chiave.
Keynes, nel considerare le tendenze al sottoutilizzo sistematico dei fattori fondamentali della produzione – lavoro e capitale – che egli riteneva intrinseche al capitalismo e rimediabili soltanto con una “socializzazione dell’investimento” di natura pubblica, reclamava lo Stato come employer of last resort, atto a dare vita a iniziative di “lavoro garantito”, insistendo che “non dovrebbe essere difficile accorgersi che 100.000 case nuove rappresentano un’attività per la nazione mentre un milione di disoccupati sono una passività”.
D’altro canto, la pandemia ha mostrato, una volta di più, che le cose non funzionano nei termini presupposti dai cultori dell’economia main stream convinti che esista un livello “naturale” del reddito e dell’occupazione determinato esclusivamente da tecnologia, risorse e preferenze degli agenti economici: lo testimoniano in modo eclatante le anomalie della condizione occupazionale femminile e gli alti tassi di disoccupazione e di inattività delle donne e dei giovani, anche ad elevata scolarità.
In effetti, produzione e occupazione dipendono in modo persistente dalla domanda di beni, ha mostrato la corda l’idea che esista un tasso di disoccupazione “naturale” che può essere ridotto solo mediante l’incremento della flessibilità del mercato del lavoro e la riduzione dei salari e in molti casi – si pensi a tanti ambiti della “cura”, dei “beni culturali”, dei “beni sociali”, del “risanamento ambientale” – i mercati, semplicemente, “non esistono” o sono altamente “incompleti”.
Il nodo era ai tempi di Keynes, ed è tutt’oggi, la problematicità del processo di investimento capitalistico e la sua relazione con il lavoro, quella problematicità che lo induceva a denunziare “l’atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni”. Anche oggi la riflessione va ampliata in modo da enfatizzare la connessione investimenti/lavoro e intervenire sulla composizione degli investimenti e della produzione relativa, intrecciando la creazione di lavoro con la soluzione dei problemi aperti: i bisogni sociali insoddisfatti vanno soddisfatti, i beni pubblici di cui vi è carenza vanno prodotti, i beni comuni vanno preservati e coltivati.
Questo, e non altro, è il modo di prendere sul serio il dettato costituzionale restituendo pienamente il loro valore – dopo tanti tentativi di decostituzionalizzazione – alle grandi Costituzioni del secondo dopoguerra. In esse la triplice centralità del lavoro – antropologica (il lavoro tratto tipico della condizione umana), etica (il lavoro espressione primaria della partecipazione al vincolo sociale), economica (il lavoro base del valore che obbliga a politiche di piena occupazione) – segna un “profondo distacco” dalle elitarie concezioni precedenti.
In particolare la Costituzione italiana è consapevolmente volta a costruire una gerarchia assiologica al cui vertice si colloca la “dignità” l’epicentro della quale è il “lavoro”, un lavoro che deve garantire il rispetto della “dignità umana” e il pieno sviluppo della “persona”. Così si spiega, non con banali ricostruzioni sociologiche stigmatizzanti il taglio “lavoristico”, la straordinarietà del suo articolo iniziale, l’articolo 1 – “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” – che non è un episodio incidentale, né tanto meno un semplice ornamento.
Commenta (0 Commenti)L’annuale rapporto sui consumi curato da Coop scopre che gli acquisti del cibo dopo la pandemia sono orientati da «un nuovo sistema di valori» che guarda alla salute e alla sostenibilità ambientale
Nell’annuale rapporto Coop su consumi e stili di vita degli italiani, presentato l’altro ieri in una sala del Centro svizzero a Milano, si legge che il 53 per cento delle 1.500 persone e dei mille tra imprenditori, amministratori delegati e liberi professionisti interpellati adotta «un nuovo sistema di valori» rispetto al cibo. Un italiano su sei dichiara di adeguare la propria dieta all’impatto che questa ha sul clima.
SONO I COSIDDETTI «CLIMATARIANI», un neologismo coniato da ricercatori dell’università di Oxford e reso pubblico dal New York Times per indicare chi adegua la propria dieta in maniera da non nuocere al clima. Questa «nuova tribù alimentare» – che si aggiunge a vegani, vegetariani e pescetariani – non guarda solo alla propria salute ma all’impatto ambientale dei prodotti che acquista e mette in tavola. L’88 per cento delle persone interpellate nel dossier associa al cibo il concetto di sostenibilità, che per il 33 per cento significa avere un metodo di produzione rispettoso, per un altro 33 per cento attenzione agli imballaggi, per il 21 per cento è sinonimo di filiera e origine e per il 9 per cento di responsabilità etica.
GLI ITALIANI RICONOSCONO nel riscaldamento climatico «il principale fattore di cambiamento del cibo del futuro, sia prevedendone una maggiore scarsità a causa del climate change, sia immaginando che per salvare il clima occorrerà cambiare la nostra alimentazione», si legge nel dossier, anche grazie alle innovazioni introdotte dalla scienza e dalla tecnologia. Via libera, dunque, ai cibi vegetali dal sapore di carne e a base di alghe, alla farina di insetti e alla carne prodotta in laboratorio. Una rivoluzione che secondo Coop è già in corso, visto che nel 2020 sono stati investiti 6,2 miliardi di dollari in cibi e bevande di prossima generazione.
LA PIU’ GRANDE COOPERATIVA della grande distribuzione d’Italia è impegnata da tempo in politiche di sostenibilità ambientale. Ha aumentato in maniera progressiva la percentuale di plastica riciclata nelle bottiglie e ha ridotto la grammatura degli imballaggi, ha imposto regole stringenti agli allevamenti e vietato pratiche crudeli nei confronti degli animali come il taglio della coda dei suini negli allevamenti intensivi e la soppressione dei pulcini maschi, mentre incentiva tutte le pratiche che riducono gli sprechi di acqua e di terreno, come le coltivazioni idroponiche.
«SIAMO STATI I PRIMI A PROMUOVERE l’allevamento senza antibiotici e gli unici per ora a espellere il glifosato dalla coltivazione dei nostri prodotti freschi», dice l’amministratrice delegata Maura Latini. «Il governo dovrebbe sostenere i consumi eco-sostenibili», aggiunge il presidente Marco Pedroni.
IL RAPPORTO SPIEGA COME GLI ITALIANI abbiano modificato in profondità le loro abitudini durante la pandemia ed evidenzia la nuova centralità della casa rispetto ai luoghi di lavoro tradizionali e a quelli di aggregazione. Racconta della svolta proteica e vegetariana rispetto alle diete carnivore e ricche di carboidrati, delinea un futuro senza il gigantismo dei centri commerciali e con punti vendita più piccoli e «ibridati» con il digitale.
Il rischio è che sulla strada della sostenibilità si abbatta ora la mannaia di un aumento incontrollato dei prezzi, in una spirale inflattiva che peserebbe sulle tasche degli italiani, già in difficoltà per la pandemia.
NEL PRIMO SEMESTRE DEL 2021 sono diminuiti dello 0,7 per cento, ma i costi delle materie prime e dell’energia stanno aumentando in maniera vertiginosa e questo di qui a qualche mese potrebbe riflettersi sugli scaffali dei supermercati. «Si profila una situazione in cui la domanda interna resta bassa e l’inflazione da costi esterni può avere effetti depressivi importanti sulla congiuntura economica», dice ancora Pedroni.
L’ITALIA SI STA RIMETTENDO IN MOTO dopo i lockdown, c’è ottimismo ma la ripresa è ancora fragile e rischia di essere soffocata prima ancora che faccia sentire i suoi effetti. 27 milioni di italiani nel 2021 sono stati costretti a fare delle rinunce perché in situazioni di disagio economico, cinque milioni temono ancora di non riuscire a mettere insieme il pranzo e la cena nel prossimo futuro.
L’obiettivo è arrivare ad un «prezzo giusto», che non scarichi solo sui consumatori la spirale inflattiva e tenga conto della sostenibilità ambientale e pure di quella sociale.
Intervista. Il coordinatore di «Energiaperlitalia», professore emerito a Bologna, ha lanciato un appello accorato contro il via libera estivo alle ricerche di gas a Lugo (Ravenna): mi hanno lasciato sbalordito
Le cattive notizie non vanno mai in ferie», così Vincenzo Balzani, professore emerito dell’Università di Bologna e coordinatore di Energiaperlitalia.it, inizia il suo appello diffuso via social contro le nuove trivellazioni a Lugo, nel ravennate. All’inizio del mese di agosto, il ministero della Transizione Ecologica ha infatti emesso un provvedimento di autorizzazione ai lavori di perforazione del pozzo «Longanesi 3 Dir» allo scopo di estrarre metano nella concessione «San Potito». Il nuovo pozzo avrà una profondità di circa 2.800 metri. L’autorizzazione, che fa riferimento a passate deliberazione regionali (n. 1332/2019) e alla Valutazione di impatto ambientale (n. 2266/2016), è stata concessa alla società Padana Energia s.p.a, del gruppo Gas Plus, che si autodefinisce «uno dei principali operatori nella produzione di gas onshore dell’Italia settentrionale».
Professor Balzani, perché ha lanciato questo appello contro le perforazioni a Lugo?
Questa autorizzazione mi ha lasciato sbalordito. Mi sono chiesto come sia stato possibile concederla, dopo il lancio del Next Generation Eu, il Pnrr e il recente documento dell’Ipcc sui cambiamenti climatici. I combustibili fossili attualmente estratti sono in quantità già molto superiore a quella che si potrebbe utilizzare se si vuole salvare il clima. La cosa ridicola è che il documento di autorizzazione inizia citando un Regio Decreto del 1927. Non so cosa dica quel decreto, ma so che da più di settanta anni abbiamo la Repubblica Italiana, che la prima cella fotovoltaica è stata inventata nel 1954, e che il fotovoltaico converte l’energia solare in energia elettrica con un’efficienza cento volte maggiore di quella della fotosintesi naturale senza generare inquinamento e gas serra. Oltretutto siamo il paese del Sole!
Questa autorizzazione però non è nuova, sembra un atto dovuto di un iter già avviato da anni?
Dicono che si tratta di provvedimenti già da tempo approvati e che, in caso di mancata autorizzazione finale, la compagnia petrolifera avrebbe potuto far causa al governo. A mio parere, sarebbe stata un’ottima occasione per far conoscere ai cittadini la realtà del cambiamento climatico, definito dalla conferenza di Parigi come «la minaccia più grave per l’umanità», minaccia che, come sanno bene gli scienziati e come scrive Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’, è possibile scongiurare solo smettendo di usare i combustibili fossili. Dal Ministero della Transizione Ecologica e dalla Regione Emilia Romagna, se veramente si fosse trattato di un atto dovuto, mi sarei aspettato almeno una dichiarazione per ammettere l’errore fatto negli anni passati concedendo questa autorizzazione, che ora ritengono irrevocabile.
Il ministro Cingolani ha definito gli ambientalisti dei «radical chic» accusandoli di essere «peggio della catastrofe climatica». Un’accusa pesante, non crede?
In molti abbiamo auspicato la costituzione di questo ministero, ma il ministro non si dimostra all’altezza di questo compito. Anziché incoraggiare i cittadini, fa dichiarazioni sconsiderate. Ad esempio, anziché parlare della necessità di riqualificare i lavoratori del comparto fossile per sviluppare le energie rinnovabili, parla del rischio di «bagno di sangue». Eppure è noto che la transizione energetica porterà ad un aumento dei posti di lavoro. Ugualmente, delinea un futuro funesto con frasi del tipo «morire di ambiente o morire di fame». Se il Ministero vuole informarci sui disastri, lo faccia ricordandoci che dal 1970 al 2019 si sono verificati 11.000 eventi estremi climatici che hanno causato più di 2 milioni di morti e danni per 3.600 miliardi di dollari. Ma per distrarre da questi numeri e per ostacolare la transizione alle energie rinnovabili, parla spesso di altri argomenti come il nucleare di IV generazione e della fusione nucleare, tutte tecnologie queste sì non mature e collegate a gravi problemi economici e sociali.
Il territorio italiano può produrre energie rinnovabili a sufficienza?
Ci sono già molti studi che dimostrano che la conversione dall’uso dei combustibili fossili alle energie rinnovabili (solare, eolica e idroelettrica) è non solo possibile, ma anche economicamente conveniente. In particolare, uno studio dell’Università di Stanford si interessa anche della specifica situazione italiana e dimostra che entro il 2050 l’Italia potrebbe affrancarsi dall’uso dei combustibili fossili e produrre tutta l’energia che serve con fotovoltaico (57%), eolico (26%), solare a concentrazione (13%) e idroelettrico (4%), con un aumento di 770.000 posti di lavoro e un risparmio medio per persona do 6.800 euro.
Eni e le altre compagnie Oil & Gas definiscono il metano necessario per la transizione. La stessa cosa la dice anche il ministro Cingolani.
Quello che i sostenitori del gas non ci dicono mai è che il metano è un gas serra 70 volte più potente della CO2 e che nella lunga filiera del metano (pozzi di estrazione, tubi, valvole, rubinetti) ci sono inevitabili e poco monitorate fuoriuscite di gas. Si stima che questo «metano fuggitivo» sia circa il 3% di quello consumato, per cui il metano contribuisce in maniera non trascurabile al cambiamento climatico.
L’Europa potrebbe fermare questi progetti di trivellazioni?
Non so se può entrare nei dettagli dei piani nazionali, ma grazie alla Commissione Europea il governo ha dovuto ridurre da 4,2 a 2,8 miliardi i fondi dedicati nel Pnrr all’idrogeno e ha così dovuto rinunciare a finanziare il progettato impianto Ccs (Carbon Capture and Storage) che Eni vorrebbe costruire a Ravenna e che una forte azione di lobby (102 incontri fra industria fossile e ministeri sul Pnrr) era riuscita ad inserire nel piano per produrre il cosiddetto idrogeno blu.