Il dibattito. La critica, che muoviamo da sempre, riguarda la mancanza di unità tra le forze che, a sinistra del Pd, vivono o sopravvivono mettendo al primo posto le loro bandiere
La nostra anima politica è parte della storia della sinistra. Di quella tradizionale – perché il manifesto nasce dopo espulsioni e radiazioni dal Pci – e di quella alternativa nata dopo il ‘68.
E per più di 50 anni, grazie a questo giornale, abbiamo cercato di tenere vive, nella nostra narrazione giornalistica e politica, le due esperienze, cercando di cogliere sempre il meglio di lotte politiche, sociali, culturali, e di criticare le chiusure, le rigidità, gli ideologismi.
Non sempre riusciamo a tenere accesa la nostra «fiaccola». Tutt’altro. E lettrici e lettori hanno il diritto di non essere d’accordo con le posizioni che assumiamo, con ciò che scriviamo con sincerità, franchezza, trasparenza, difendendo con tenacia e orgoglio, l’autonomia, l’indipendenza, la libertà.
Perché non abbiamo – né vogliamo – padrini e padroni. Economici e politici. Dico questo per sgombrare subito dal campo della discussione una delle critiche mosse da chi ci ha scritto in risposta all’editoriale sulla «Sinistra del piccolo mondo antico», sollecitato dal pessimo risultato elettorale delle liste di una parte della sinistra.
Non vogliamo, non ci interessa, non è nel Dna del manifesto, portare acqua al mulino del Partito democratico, che consideriamo una forza governativa di centro, ma nei confronti del quale ci comportiamo in modo chiaro come verso un interlocutore dell’area progressista. Non perseguiamo l’alleanza con il Pd «a prescindere», come scrive Maurizio Acerbo. Né crediamo che «l’unico orizzonte politico degno di nota sia quello accanto, all’ombra del Pd», come sostiene Giuliano Granato.
Più semplicemente pensiamo che in politica, se si ha l’ambizione di governare, o, ancora prima, se si ha l’intenzione di conquistare una rappresentanza istituzionale, allora sono fondamentali i numeri. E senza i voti del Pd, non si costruiscono governi locali e nazionali. Come sono fondamentali, per un governo progressista, anche i voti del 5S: lo hanno dimostrato i candidati progressisti eletti a Bologna e Napoli, che non avrebbero vinto al primo turno senza il sostegno di una vasta area democratica.
Senza dimenticare, come abbiamo peraltro scritto a proposito dell’analisi del voto, che il 3- 4 ottobre «hanno perso anche quelli che hanno vinto», per la perdita di voti assoluti e per l’astensionismo record.
La critica, che muoviamo da sempre, riguarda la mancanza di unità tra le numerose forze che vivono, vivacchiano, sopravvivono, a sinistra del Pd, e che mettono al primo posto le proprie bandiere, le proprie ragioni, la propria identità. Un argomento che Acerbo stesso condivide all’inizio del suo commento quando scrive «da mesi esprimo sconcerto di fronte al florilegio di liste con o senza falce e martello che hanno deciso di non convergere su un’unica candidatura a sindaco…».
Dovrebbe essere anche abbastanza chiaro che la riflessione non riguarda le lotte, le battaglie, le storie collettive di tante organizzazioni che si muovono a sinistra, mantenendo fermi alcuni princìpi, obiettivi, valori che rischiano di scomparire o di essere accantonati, se si è malati di governismo. E sentiamo profonda condivisione verso chi si mette in gioco, chi difende i diritti, chi è dalla parte degli oppressi, dei lavoratori, dei più deboli. Noi al manifesto abbiamo sempre lavorato per questo.
Però proprio in nome di questo rispetto, siamo convinti che gli impegni e gli obiettivi politici avrebbero più peso se fossero portati dentro le istituzioni dalla sinistra. Ma per raggiungere questo traguardo va evitato, appunto, il «florilegio».
Lettrici e lettori – che in primo luogo ringrazio – hanno inviato mail per esprimere dissenso o per condividere. È normale che sia così. Però c’è qualcosa che fa parte della cultura democratica e che oggi invece viene dimenticato: la dispersione dei voti.
Allora mi chiedo: esiste una responsabilità politica verso il mondo di riferimento oppure conta soprattutto l’affermazione di se stessi? Perché se a Roma le liste Partito Comunista, Pci, Potere al Popolo, Sinistra Rivoluzionaria, Roma Ti Riguarda, prendono in media lo 0,5 per cento dei voti, è giusto o no domandarsi che senso ha avuto la partecipazione elettorale? Se a Milano 5 liste della sinistra radicale hanno meno consensi del senatore populista Paragone, è sbagliato sostenere che sarebbe stato meglio presentarsi uniti?
Se queste domande appaiono come «tradimento della causa», possiamo solo che prenderne atto. Però non è così. Non è mai stato così, perché sappiamo che non poche compagne, non pochi compagni, che leggono il manifesto hanno votato per le diverse liste di sinistra. Tuttavia devo ricordare che la rappresentazione elettorale ultra frammentata è ormai una «tradizione» consolidata che, secondo noi, dovrebbe essere finalmente abbandonata. E stavolta i limiti della auto rappresentazione sono stati superati.
Certo che mettiamo in evidenza le esperienze di sinistra e ambientaliste che hanno ottenuto dei buoni risultati. E non perché ci sono più simpatici Fratoianni o Elly Schlein, ma per il loro tentativo unitario. E non c’è nulla di scandaloso se l’unità di intenti comporta un cammino comune con il Pd. A meno che non si consideri questo partito un «nemico da abbattere», come mi sembra di cogliere tra le righe di qualche lettera. Per noi invece è, e rimane, un componente del campo progressista con il quale bisogna confrontarsi e, se necessario, possibile, giusto, allearsi per sconfiggere gli avversari, o meglio, i nemici che sono e restano i fascio-leghisti (come verosimilmente avverrà ai ballottaggi).
Questo significa essere subalterni? Liberisti? Filo-Draghi?
Magari se il manifesto venisse letto più frequentemente e con maggiore attenzione, si eviterebbero certe affermazioni quanto meno superficiali. E a proposito di lettori, certo che siamo minoranza. Però, Luca Fini, lo siamo sempre stati. E quella percentuale di copie vendute in edicola, che in realtà è più alta, è storicamente sempre la stessa.
Noi paghiamo, come tutti gli altri quotidiani, la crisi profonda e irreversibile della carta stampata. Ma non abbiamo ambizioni velleitarie, non ci candidiamo a sindaco a Roma o a Milano. Abbiamo però questa convinzione: nonostante il numero di copie vendute, siamo convinti di avere lettrici e lettori della sinistra nelle sue varie versioni. Ed è per questo che pensiamo di non essere minoritari.
Proprio perché penso sia possibile «costruire una sinistra, con la massa critica sufficiente, autonoma e alternativa al Pd», ritengo un gravissimo errore andare alle elezioni solo per amore di bandiera. Aggiungo, che la dispersione elettorale è il più grande favore che si possa fare al Partito democratico: il Pd, grazie a voti perduti nelle urne, resta quasi unico rappresentante di un’area molto più vasta. Anche elettoralmente.
A Luigi Caputo che ci ha scritto (non riusciamo a pubblicare tutte le lettere) polemizzando sulle liste-flop, capolista Valpreda, del manifesto del 1972, ricordiamo che la scelta di presentarsi alle elezioni – non eravamo un partito – fu preceduta da un aspro dibattito interno, con una frattura tra Luigi Pintor da un lato e Rossana Rossanda e Aldo Natoli dall’altra. La sconfitta fu bruciante, e venne accompagnata da una profonda autocritica. Che poi portò a scelte diverse, tant’è che alle elezioni successive del 1976 ci fu l’alleanza del Pdup (ex Manifesto) con Avanguardia Operaia e Lotta Continua, che sfociò nelle liste di Democrazia proletaria, ottenendo una piccola pattuglia parlamentare.
Chiedo: le forze, i militanti, i dirigenti delle liste chiamate adesso in causa, sono in grado di avviare un processo autocritico oppure preferiscono lamentarsi per l’editoriale del manifesto?
Ugo Menesatti, Roberto Pietrobon, Stefano Proietti hanno colto il significato del commento post-elettorale e li ringrazio per le osservazioni critiche e garbate (che non guasta mai) per le sollecitazioni e i suggerimenti. Uno dei quali è già nelle nostre intenzioni, avendo a cuore due obiettivi: una riflessione ampia, aperta, profonda tra le forze di sinistra e democratiche sulla costruzione di una organizzazione politica che riesca a mettere insieme le tante anime della sinistra. È un progetto ambizioso? Sì. È realizzabile? Sì, pur sapendo che unire è difficile. Ma non dovremmo mai dimenticare che l’unione fa la forza.
Intervista. Parla la sociologa e filosofa esperta di politiche sociali: «I No Vax sono sempre esistiti, non è una novità». «L’idea complottistica non è contro la scienza in sé ma contro quello che viene vissuto come un apparato di controllo e comando, in cui ci si sente in qualche modo negati o sfruttati»
Roma, corteo No Green pass di sabato sera © LaPresse
«Il Green pass è diventato il capro espiatorio di ogni malcontento». La matrice fascista – quella che sfugge alla leader di Fd’I, Giorgia Meloni – la sociologa e filosofa Chiara Saraceno la vede benissimo, negli assalti di Roma. Ma vede anche il resto.
Nei cortei di sabato a Roma e Milano c’era una componente di matrice non fascista. Addirittura persone che una volta si sarebbero orientate a sinistra. Cosa sta accadendo, secondo lei?
Credo anch’io che dire sia stata soltanto una manifestazione fascista sia sbagliato. Certo, organizzata e manovrata, ma che poteva contare su una diffusa insofferenza, un disagio che non è solo economico. Vi sono motivazioni diverse. Come si vede anche nel resto d’Italia: le manifestazioni dei Cobas, per esempio, o il corteo studentesco dei centri sociali che a Torino ha lanciato uova marce contro il municipio. Insomma, credo che adesso chiunque voglia protestare trovi contro il Green pass una buona occasione. La carta verde è diventata il capro espiatorio di ogni malcontento. Il disagio c’è per buone o cattive ragioni: c’è gente che non sta bene, che non riesce a capire cosa stia succedendo e succederà, che si sente tagliata fuori da ogni decisione. Poi c’è sempre anche una parte di ragazzini che esprime il bisogno di ribellione senza avere neppure molta consapevolezza. Però rimane il fatto che queste formazioni neofasciste hanno più capacità di altri di intercettare queste forme di disagio – senza dare alcuna risposta ma offrendo solo una sponda – perché vi lavorano da anni. Il problema è che manca qualunque altra forma di aiuto alla elaborazione.
Non è il segno di una profonda crisi culturale, di una sfiducia nella scienza?
Beh, ma quarant’anni fa non è che ci fosse più fiducia nella scienza o più conoscenza scientifica. Credo semmai che ci sia una sfiducia nelle autorità, questo sì. È più un indicatore di scoesione sociale che di sfiducia nella scienza. Una mancanza di fiducia generalizzata verso “quelli che comandano”. E, anzi, continuare ad invocare la voce della scienza ad ogni decisione rischia, agli occhi di chi non si fida delle istituzioni, di far immaginare un “grande complotto”. L’idea complottistica non è contro la scienza in sé ma contro quello che viene vissuto come un apparato complessivo di controllo e comando, in cui ci si sente in qualche modo annientati o negati o sfruttati.
Questa cultura del complotto è aumentata negli ultimi anni?
Forse un po’ sì, perché esattamente speculare alla perdita di fiducia.
Dove potremmo orientativamente collocarla questa perdita di fiducia?
Da diversi anni abbiamo un dibattito politico inconsistente, tutto basato sull’oggi, e che non si preoccupa minimamente di costruire un discorso pubblico sensato. I social fanno da amplificatore, certo, ma credo ci sia una grossa responsabilità della nostra classe politica.
C’è chi punta il dito contro un certo «effetto Samarcanda», nato con un giornalismo d’assalto che ha fatto da sponda a certi movimenti complottisti e qualunquisti. Lei cosa ne pensa?
Non c’è dubbio. Viviamo nell’era dei talk show che per creare audience favoriscono l’assalto reciproco, e gli invitati preferiti sono quelli che urlano di più. Con conduttori che si sentono inviati da Dio e hanno le loro verità in tasca.
Con la pandemia è aumentato lo scollamento generalizzato con la realtà?
Forse non nella prima fase ma successivamente sì. Un po’ perché si era sperato che finisse presto, che sarebbe andato tutto bene, e invece la realtà è ben diversa. Dunque la delusione ha fatto la sua parte e un po’ di potenziale di fiducia è andato perso. Soprattutto, a proposito di fiducia nella scienza, a questa non hanno dato un gran contributo i conflitti tra virologi agiti in diretta tv. Perché si sa che la scienza procede per tentativi ed errori, ma di solito le discussioni avvengono in consessi dedicati e davanti a pubblici che ne sanno comprendere le sfumature.
Lei cosa pensa del Green pass? Creerà problemi nel mondo del lavoro?
Questo non lo so, però se fosse vero che mancheranno i camionisti, come ho letto, o altre tipologie di lavoratori, credo che avrebbe potuto essere previsto. Non si può arrivare alla scadenza e poi fare delle eccezioni, come temo succederà, solo perché non si è riusciti a trovare una soluzione prima.
È stato gestito male, il Green pass?
Forse ottimisticamente si pensava che l’obbligo della carta verde per lavorare avrebbe incentivato la vaccinazione. E invece non sempre è così. Poi c’è una parte di popolazione che è stata immunizzata con vaccini che non vengono riconosciuti e dunque non accede al Green pass. Comunque parliamo sempre di una minoranza.
Una minoranza No Vax persiste sempre, perché secondo lei?
Perché c’è chi ha più paura del vaccino che di ammalarsi, ma non è una novità: ci sono sempre stati. Pensiamo all’obbligo vaccinale a scuola e a quanti ancora protestano. E non solo in Italia. Eppure nessuno si sognerebbe mai di eliminarlo, quell’obbligo.
Commenta (0 Commenti)Marci su Roma. Tante gente al presidio davanti alla sede nazionale. Il segretario: sabato grande manifestazione "Mai più fascismi". Delegazioni da tutti i partiti
La manifestazione della Cgil davanti alla sede nazionale dopo l'assalto fascista di sabato © Foto Cgil
A meno di sedici ora di distanza dall’assalto fascista alla sede nazionale della Cgil la risposta di mobilitazione democratica arriva pronta ed efficace. Davanti a Corso d’Italia già mezz’ora prima delle 10 non si riesce a camminare. Almeno un migliaio di persone rispondo subito all’invito del sindacato per reagire “all’assalto squadrista”. Mentre si prepara già la grande manifestazione unitaria con Cisl e Uil “Mai più fascismi” per il 16 ottobre, sabato pomeriggio con piazza San Giovanni già prenotata per le troppe richieste che renderebbero piazza del Popolo troppo piccola.
Tanti giovani che cantano a squarciagola e ripetutamente “Bella ciao” e “Ora e sempre Resistenza”, fin troppi politici e persone da tutta Italia che restano a scambiarsi indignazione e voglia di mobilitarsi ben dopo il discorso di Maurizio Landini, unico a parlare. A Roma come in tutte le Camere del Lavoro, obiettivo ieri come esattamente cento anni fa dei fascisti.
La devastazione della “Capitol Hill italiana” è impressionante. I Forzanuovisti di Roberto Fiore hanno devastato buona parte del piano terra della sede dalla Cgil, distruggendo computer e uffici, rovinando quadri sotto le foto di Di Vittorio.
“Un atto fascista e squadrista: deve essere chiaro: se qualcuno ha pensato di intimidirci, di metterci paura, di farci stare zitti, deve sapere che la Cgil e il movimento dei lavoratori hanno già sconfitto il fascismo in questo Paese e riconquistato la democrazia. Non ci intimidiscono, non ci fanno paura”, esordisce il segretario generale della Cgil.
Leggi tutto: Landini: risponderemo con la partecipazione all’assalto squadrista
Commenta (0 Commenti)Dopo il voto. L’entusiasmo con cui si è commentata l’affermazione del centro-sinistra, nasconde la dissoluzione del «popolo» dei 5Stelle che ha alimentato l’astensione
Un'opera di Fernand Leger
Il comprensibile entusiasmo con cui il centro-sinistra (Cs) sta guardando ai risultati delle comunali del 3-4 ottobre sta portando a ritenere che quel «ciclo elettorale» iniziato ormai più di un lustro fa si sia concluso. Se quel «ciclo», che aveva visto l’affermazione del «populismo egalitario» dei 5 Stelle accanto a quello «sovranista» della Lega, starà forse estinguendosi, non per questo sono i consensi del Cs ad aumentare, forse perché le ragioni che ne avevano sancito il successo sono ancora tutte lì.
I 5 Stelle – che già dal 2013 avevano iniziato ad attrarre fino a un quarto dell’elettorato – avevano avuto il merito di coagulare attorno a sé il malcontento di quella fascia di elettori delusa dal Cs, e dal Pd in primis, e dalla svolta neo-liberista cui questo aveva accondisceso: i ceti medio-bassi delle aree urbane e peri-urbane dei giovani adulti precari e sotto-pagati del centro-nord, i ceti medio bassi di città e periferie del meridione. La geografia politica di questa tornata elettorale è, com’è naturale, variabile e articolata. L’aritmetica dei voti espressi e non espressi, tuttavia, offre più di un’indicazione (come ha colto Andrea Fabozzi sul manifesto del 5 ottobre).
Ha un bel da affermare Enrico Letta «che rivincita su chi criticava il Pd!», ma il fatto è che non uno degli elettori che il suo partito aveva perso cinque anni fa pare essere «tornato all’ovile». Perché è la politica del Pd e del Cs tutto che non è cambiata ed è la percezione sulle sue direttrici di fondo che non è mutata. Gli esclusi sono rimasti tali e i commentatori possono pure intonare i soliti «peana» sull’astensionismo. Una partecipazione al voto più bassa di sempre – soprattutto nelle grandi città, dove si afferma il Cs – non è solo «disaffezione». Dissoltasi l’illusione pentastellata – com’era prevedibile, sia per come un classe dirigente inadeguata era stata selezionata che per l’inconsistente e confusa pratica politica messa in atto – l’elettore che, frustrato, emarginato e non rappresentato dalla sinistra, aveva guardato all’universo illuminato dalla stella di Beppe Grillo, si è definitivamente allontanato.
Guardiamo ai numeri delle grandi città. A Bologna, portata ad esempio di un «nuovo» Cs esteso, dalla sinistra ai 5 stelle al Pd ai moderati inclusi i verdi, la coalizione porta a casa 92mila voti. Nel 2016, pur divisa, ne aveva raccolti quasi 110mila. I votanti, che erano stati più di 179mila, scendono di 22mila unità. E mentre i 5 Stelle si dissolvono, perdendo 23mila voti (i cinque sesti), il Pd mantiene i suoi, forse prendendone a sinistra e al centro, senza però guadagnarne uno in più dagli ex elettori «grillini» che, evidentemente, preferiscono astenersi.
A Roma, in un quadro più complicato, non pare esservi un trend differente. Nel 2016, i votanti al primo turno erano stati 1.348mila, oggi sono quasi 200mila in meno. I consensi dimezzati di Virginia Raggi (220mila voti in meno) non compensano i 150mila voti in più dei candidati Gualtieri e Calenda rispetto a quelli di Pd e sinistra 5 anni prima, spartendosi questi il voto di sinistra e di centro (il centro-destra è in calo). È il Pd che non attira gli elettori 5 Stelle.
A Torino, i votanti sono calati di 67mila unità. Cinque anni fa, al primo turno, il candidato Pd aveva ricevuto 160mila voti, contro i 118mila della Appendino (M5S), perdendo poi al secondo turno. Oggi, il candidato di Cs ne raccoglie 140mila, quello del Cd 124mila, mentre la candidata pentastellata si ferma a 28.700. È chiaro come, anche in questo caso, l’elettore 5 Stelle abbia preferito astenersi o votare a destra che scegliere diversamente.
A Napoli, con 60mila votanti in meno del 2016, Gaetano Manfredi, sostenuto da una eterogenea coalizione, è stato eletto al primo turno. Il Pd ottiene 39mila voti (ne aveva 44mila) e i 5 Stelle 31mila (ne avevano 36.500). A Milano, con quasi 60mila votanti in meno, Sala è passato anch’egli al primo turno, il Pd ottiene 152mila voti (appena 6mila in più), mentre Sinistra per Milano perde 8mila voti dei 19mila che aveva. Il candidato 5 Stelle si ferma a 13mila (ne aveva 54mila).
In sostanza, dove i 5 Stelle avevano capitalizzato un considerevole consenso, come a Roma o a Torino, si sono dissolti e i loro elettori si sono dispersi, per lo più astenendosi. A Napoli, dove pure hanno mantenuto una loro base modesta, e a Bologna, dove sono praticamente svaniti, risultano ininfluenti al successo del candidato del Cs. E il Pd non avanza nel numero dei consensi se non a Milano, più a spese della sinistra che dei 5 Stelle.
L’entusiasmo per il risultato di oggi appare dunque eccessivo: gli elettori che avevano scelto i 5 Stelle sono ancora ben lontani da riconoscersi nel «nuovo corso». Perché le ragioni della loro lontananza sono ancora tutte lì e il sostegno del Cs a Draghi e alle sue scelte sulla distribuzione, sul lavoro e sull’inclusione non fa nulla per accorciarle. Quei ceti medio bassi urbani e periferici degli esclusi e dei «non protetti» che avevano dato il loro consenso al populismo egalitario 5 Stelle sono ancora fuori dal radar del «nuovo» centro-sinistra. Che dovrà ripensarsi a fondo prima che, magari, arrivi un «Trump de noantri» a richiamarli.
Commenta (0 Commenti)Autonomia differenziata. Le polemiche a partire dai pre-accordi tra Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna e il governo Gentiloni, e poi la pandemia, hanno messo in luce un paese assai più frammentato e diviso di quanto molti fossero consapevoli
Un'opera di Mimmo Paladino
«Fear of the walking dead» recita il titolo di una nota serie televisiva. Bene si adatta all’autonomia differenziata, che dovrebbe a buona ragione essere defunta, e invece cammina ancora tra noi. Lo testimonia l’inserimento tra i collegati al bilancio del disegno di legge attuativo dell’art. 116.3 della Costituzione, fatto con la Nota di aggiornamento del DEF (NADEF). Con il danno collaterale di una probabile sottrazione al referendum abrogativo, per il limite delle leggi di bilancio di cui all’art. 75 della Costituzione. Intendiamoci. L’inserimento di per sé non dà certezze quanto ai tempi o all’approvazione. Molti collegati non hanno poi visto la luce. Ma qui abbiamo due dati significativi.
Il primo, è che in una originaria stesura dell’elenco dei collegati il ddl sull’autonomia differenziata non era presente, ed è poi comparso nella versione definitiva, al primo posto. Questo ci dice di una pressione politica per l’inserimento che non ha trovato opposizioni significative.
Il secondo, che il ddl si inserisce nella dialettica interna alla maggioranza, e specificamente nel tormentone del dualismo Lega di lotta e di governo. Per cui il ddl può essere visto o come offa per la Lega di governo vicina a Draghi (i Fedriga, Zaia, Giorgetti) o come ciambella di salvataggio per Salvini mentre affonda – come indica il voto amministrativo – il suo disegno nazional-sovranista. O entrambe le cose. Ci stupirebbe se l’autonomia non entrasse nell’agenda degli annunciati appuntamenti settimanali di Salvini con il premier Draghi.
Ma era giusto ritenere l’autonomia differenziata defunta, o almeno caduta in catalessi? Ragionevolmente, sì. Le polemiche a partire dai pre-accordi tra Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna e il governo Gentiloni, e poi la pandemia, hanno messo in luce un paese assai più frammentato e diviso di quanto molti fossero consapevoli. Per il diritto alla salute, il regionalismo ha nei fatti distrutto il sistema sanitario nazionale, come bene afferma da ultimo l’Anaao-Assomed. Per l’istruzione, la pressione della pandemia ha aggravato il ritardo già pesante che lede i diritti degli studenti di tutte le età in un terzo del paese. In molteplici settori si è evidenziata la necessità di forti politiche pubbliche nazionali e di regole volte a ridurre il divario Nord-Sud secondo le indicazioni dell’Europa. Mentre i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) non sono nemmeno giunti alla pista di lancio.
Invece, vengono segnali negativi sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Le polemiche sulle risorse “territorializzabili”, l’aggiunta ai fondi europei di quelli per la coesione già destinati al Sud, il “repackaging” di vecchi progetti, i bandi che aprono alle zone forti del paese come quello sugli asili nido, la comparativa debolezza delle amministrazioni meridionali, la mancanza di una chiara strategia su punti nodali come i porti, la logistica e la manifattura, prefigurano una mera riparazione dei danni da Covid e un ripristino delle preesistenze.
L’intento di costruire un paese nuovo e diverso rischia di dissolversi. Capiamo che il momento favorisce ciò che fa ripartire subito il PIL. Ma se solo questa è la logica, l’esito è concentrare le risorse sulle aree forti del paese, dove il rendimento a breve termine degli investimenti può essere presentato come maggiore, più agevole e certo. E dove, non a caso, il lobbying su chi decide è più efficace.
È bene che i governatori del Sud protestino perché mancano 7 miliardi, ed è scontata la difesa di ufficio di Giovannini sul 40% per il Sud. La questione del quantum, però, è più complessa, e si aggiunge ad altre. In specie, l’autonomia differenziata si scontra con gli obiettivi di rilancio del paese tutto assegnati a parole al PNRR. I governatori dovrebbero pretendere di vedere le carte tuttora nascoste, farle valutare da studiosi ed esperti indipendenti, e cercare sinergie da far valere nelle sedi di concertazione. Proprio in quelle il Sud negli anni è stato colpito e affondato, per colpa dei suoi ignavi governanti e per dolo degli altri.
Lasciamo perdere la favola menzognera che l’autonomia differenziata conviene al Sud come al Nord. Mettiamo la questione almeno in standby per il tempo del PNRR, e vediamo quale paese viene dall’attuazione del Piano. Diversamente, il rischio è una collisione che spinge il Sud tra i walking dead. Per essere poi seguito dal paese tutto, che rimane nella stagnazione.
Il discorso. La critica del premio Nobel per la fisica alla Pre-Cop26 in Parlamento: "Governi inadeguati sulla crisi". «il Pil non è una buona misura per economia e clima». E poi un nuovo appello per l'istruzione e la ricerca pubblica: "Dare ai bambini un'educazione scientifica a partire dalla scuola materna"
Il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi
Un manifesto per la giustizia climatica al tempo delle emergenze e delle pandemie globali. Lo ha pronunciato ieri alla Camera il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi rivolgendosi ai parlamentari riuniti per la pre-conferenza sul clima che si svolgerà a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quello della Camera Roberto Fico e del Senato Elisabetta Casellati, della speaker della Camera statunitense Nancy Pelosi. Il fisico romano ha esortato a adottare «scelte essenziali per contrastare con forza il cambiamento climatico» e a abbattere il totem del capitalismo fossile: il prodotto interno lordo (Pil) che risponde all’imperativo della crescita quantitativa, prodotto dell’età del produttivismo e dell’antropocentrismo. «Se il Pil resterà al centro dell’attenzione, il nostro futuro sarà triste».
IN POCHE, e intensissime parole, il premio Nobel Giorgio Parisi ha mostrato ieri alla Camera come la scienza, strumento per analizzare e prospettare l’impatto del capitalismo sul pianeta e su tutte le sue forme di vita, risponda anche a una passione civile e politica. «Sono decenni che la scienza ci ha avvertito che i comportamenti umani stavano mettendo le basi per un aumento vertiginoso della temperatura del nostro pianeta». «Se la temperatura» della Terra aumenterà di più di due gradi entreremo in una terra incognita in cui ci potranno verificarsi altri fenomeni che non abbiamo previsto e che possono peggiorare enormemente le situazione. Incendi di foreste colossali come l’Amazzonia che immetterebbero in maniera catastrofica quantità enormi di gas serra. Gli oceani che assorbono molti dei gas serra che emettiamo continueranno a farlo con due gradi di più? Mentre il limite inferiore dei due gradi è qualcosa sul quale possiamo essere abbastanza sicuri, è molto più difficile capire quale sia lo scenario più pessimistico: potrebbe essere molto ma molto peggiore di quello che noi immaginiamo».
IL FISICO ROMANO non è sembrato molto ottimista sul fatto che il suo allarme sia raccolto (« ma la speranza è l’ultima a morire», ha detto). E ha criticato i politici con questa immagine: «Uscire dalla crisi climatica è come guidare di notte: le scienze sono i fari, ma poi la responsabilità di non andare fuori strada è del guidatore, che deve anche tener conto che i fari hanno una portata limitata. Il vostro compito storico – ha detto – è di aiutare l’umanità a passare per una strada piena di pericoli».
L’ALTERNATIVA non può essere basata sulla ricerca ossessiva dell’incremento del Prodotto interno lordo attorno al quale il governo e la sua maggioranza sono riuniti nella speranza che il «Piano di ripresa e resilienza» non lasci il Pil a zero com’era prima del Covid. L’invito di Parisi a cambiare il metodo di calcolo della crescita presuppone un cambiamento degli interessi sociali che dovrebbe seguire la «transizione ecologica» alla quale in Italia è stata dedicato anche un ministero. Sulla scia del dibattito economico che ha fissato i termini del problema Parisi ha detto che «il Pil sta alla base delle decisioni politiche, e la missione dei governi sembra essere di aumentarlo il più possibile, obiettivo che è in profondo contrasto con l’arresto del cambiamento climatico. Il Pil non è una buona misura perché cattura la quantità ma non la qualità della crescita. Sono stati proposti molti indici diversi, tra cui l’indice di sviluppo umano e l’indice di benessere economico sostenibile» «Chi pianifica il nostro futuro deve usare un indice che consideri altri aspetti dell’esistenza».
IL DISCORSO DI PARISI ieri era rivolto ai giovani. «Bloccare il cambiamento climatico è un’impresa che impegnerà l’umanità per moltissimi anni e le nuove generazioni avranno un ruolo fondamentale. L’educazione è un punto cruciale. I giovani devono essere in grado di capire la situazione generale e di formarsi le proprie idee. Dobbiamo dare ai bambini un’educazione scientifica a partire dalla scuola materna».
Commenta (0 Commenti)