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C’è davanti ai nostri occhi lo spettro sempre più evidente della Terza guerra mondiale, tutta insieme non più a pezzi come denunciava inascoltato papa Francesco. Questa va impedita, non è un ricatto è il baratro nel quale ci siamo inseriti

Mariupol,  cadaveri deposti  in una fossa comune

Mariupol, cadaveri deposti in una fossa comune © Ap

Scrivo come una persona che le guerre le ha viste e raccontate insieme al patire dei civili straziati sotto le bombe. E che per questo è contro ogni guerra. Così vedo in una sequenza temporale unica insieme all’elenco criminale delle stragi sanguinose in corso in questi giorni in Ucraina ad opera dei bombardamenti russi a Mariupol, Irpin Kharkiv, anche la memoria testimoniata dei tanti «effetti collaterali» dei bombardamenti della Nato nel 1999 sull’ex Jugoslavia – Surdulica e Grdelica, strage di bambini la prima e di viaggiatori di un treno la seconda – , e quelle delle vittime civili dell’ospedale afghano di Medici Senza Frontiere a Kunduz colpito dai raid della Nato nell’ottobre 2015.

E proprio sotto l’effetto della tragedia delle donne e dei bambini dell’ospedale di Mariupol bersaglio delle bombe di Putin, mi interrogo rispetto alla scelta scellerata dell’Europa che, ringraziando Putin, riarma e su questo si ricompatta sotto l’egida della Germania che assegna 100 miliardi di spese militari alla Bundeswer – una svolta preoccupante all’indietro di 360 gradi della Storia europea -, e poi decide, Italia compresa, di inviare armi in sostegno a Kiev. Ma così si pensa davvero di fermare la guerra in Ucraina? Ce ne sono forse poche di armi in Ucraina? Oppure è vero il contrario che, nei tre mesi dell’ammassamento di truppe russe alla frontiera, ogni paese occidentale – Gran Bretagna in primis – ha inviato tonnellate di armi e istruttori a quel paese.

Forse che sono pochi i foreign fighters in quella crisi che ne ha visti a migliaia combattere dal 2014, l’inizio del conflitto, visto che si esaltano ora «i combattenti internazionali»? È vero esattamente il contrario. Come è tragicamente vero che più armi servono solo ad allargare il conflitto: il paese che le invia diventa cobelligerante agli occhi del nemico o no? E peggio, servono a rendere questa guerra endemica, un Afghanistan nel cuore d’Europa, un altro Afghanistan dove l’invio di armi è servito a cacciare nel 1989 i sovietici, poi l’invio di armi ha sostenuto i mujaheddin, poi ha aiutato i talebani, ai quali abbiamo fatto guerra con una occupazione militare di 20 anni per restituire il potere nelle mani dei nemici. Che ha risolto quella guerra da noi scientemente alimentato se non a riempire di strumenti di morte gli arsenali dell’integralismo islamico, come in Siria?

E se siamo tutti impegnati nell’accoglienza dei profughi e perché i civili possano fuggire con i corridoi umanitari, argomento vitale di ambigue trattative tra russi invasori ed ucraini, che cosa produrrà nei confronti dei civili in fuga, l’esistenza parallela di “corridoi per le armi” che diventeranno obiettivi militari da colpire? Tanto per essere chiari: le armi italiane e di altri Paesi saranno allocate -se già non lo sono – in Polonia e poi ci saranno “corridoi” per andare a prenderli e consegnarli a quali paramilitari? Saranno o no occasione di nuove battaglie in un territorio che a quel punto non sarà solo l’Ucraina?

Inviamo armi per la resistenza degli ucraini, ma quali? Perché l’arma più efficace sarebbe quella aerea, nelle due opzioni: la no-fly zone, corridoi aerei di interdizione ai jet nemici, quelli russi, e invio di caccia militari sempre alla Polonia da inviare (come?) in Germania e poi in Ucraina sul fronte di guerra.
Zelensky ad ogni pié sospinto lo chiede, ma è la stessa la Casa bianca a dire no, spiegando che la decisione porterebbe ad un confronto militare diretto con la Russia. In buona sostanza solo una soluzione negoziata del conflitto in corso, con un ruolo dell’Ue non appiattita alla Nato e delle scomparse Nazioni unite, potrà fermare la guerra. E invece nuove armi – vere non simboliche – inviate tanto per costruire il martirio altrui che ci salvi dai nostri sensi di colpa, responsabilità e colpevole ignoranza di questa crisi durata 8 anni di guerra civile, allargheranno la guerra al punto che «non sarà possibile più nessun compromesso» scrive sul New York Times Thomas Friedman.

Perché c’è una domanda, la più importante, che aleggia nell’aria: come mai le belle promesse di tenere la guerra lontana dall’Europa, «mai più la guerra», promesse sono rimaste avendo l’Europa delegato la propria sicurezza e politica estera a Washington e alla Nato? C’è davanti ai nostri occhi lo spettro sempre più evidente della Terza guerra mondiale, tutta insieme non più a pezzi come denunciava inascoltato papa Francesco. Questa va impedita, non è un ricatto è il baratro nel quale ci siamo inseriti. Ma dichiarare questa verità è “pacifismo cinico”? Rispetto per tutti, ma attenzione a non indossare l’elmetto invece di comprendere la tragedia che stiamo vivendo, come fanno in Europa solo Podemos, Syriza, Linke in piazza come noi contro l’aggressione di Putin.

E poi basta con il doppio standard: perché gli Stati occidentali non inviano allora armi anche ai palestinesi, ai kurdi, agli yemeniti – popoli abbandonati come paria -, oppure è impossibile perché magari è proprio l’Occidente ad essere l’aggressore o a sostenere gli aggressori?
E Il Vietnam? Il Vietnam vinse perché aspirava ad una sua rivoluzione e a riunificare legittimamente un Paese insidiato da una divisione artificiale sostenuta dagli Usa invasori. Una memoria personale. Quando i vietnamiti impegnati nelle trattative di pace di Parigi passarono per Roma per parlare con il Pci, chiesero di incontrare Aldo Natoli che nel frattempo era stato radiato con il gruppo del Manifesto. L’incontro ci fu e a conclusione ricordo le parole di Aldo: i vietnamiti non voglio armi, né combattenti, vogliono che intensifichiamo le manifestazioni per la pace perché la guerra deve finire altrimenti non fanno più la loro rivoluzione…E quelle manifestazioni, quella potenza mondiale di milioni di giovani in tutte le piazze del mondo – credo che sia nata allora – pesò sui destini della guerra molto più di ogni invio di armi.

Ultimo interrogativo. Ma che farebbe in queste ore Gino Strada, strumentalizzato spesso come un santino ma poi dimenticato, non un pacifista a chiacchiere ma un uomo che per tutta la vita è stato “contro la guerra” – così amava definirsi – non dal divano di casa ma lì dove la guerra distrugge le vite degli esseri umani: invierebbe e porterebbe ospedali da campo e aiuti sanitari e umanitari, oppure chiederebbe all’Italia di inviare mitra, sistemi antiaereo e proiettili anticarro?

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È insopportabile che chi si batte per la pace venga accusato di essere imbelle se non complice di Putin, come molti commentatori e urlatori da talk show strepitano in questi giorni

Del pacifismo, nelle sue diverse espressioni e gradi di radicalità, dei suoi limiti e delle sue virtù, si discute da sempre. Neppure le fedi religiose ne sono venute a capo. E se ne continuerà a discutere. Ma non si può certo sopportare che venga sbeffeggiato volgarmente, accusato di essere imbelle se non complice dell’aggressione russa contro l’Ucraina, come molti commentatori e urlatori da talk show strepitano in questi giorni.

D’altro canto è anche improprio accusare di bellicismo e legittimazione della guerra quanti, magari richiamandosi all’articolo 51 della Carta delle Nazioni unite, quello dedicato al diritto all’autodifesa, ritengono che di fronte a una enorme sproporzione di forze un paese aggredito debba essere sostenuto, anche con la fornitura di armi, per la difesa della sua indipendenza e autodeterminazione. Non è un caso che il movimento tedesco contro la guerra abbia preferito, in diverse occasioni di mobilitazione, aggirare la questione per evitare incolmabili fratture. Tuttavia, il problema non manca di riproporsi.

Se non ci si vuole ispirare al modello di Masada (l’estrema resistenza ebraica contro Roma, finita in un suicidio collettivo) converrebbe dismettere tonalità eroiche e disporsi a forme di resistenza e di conflitto meno suicidarie e alla fine più efficaci e compatibili con il lavoro diplomatico della guerra totale che il precipitoso riarmo dell’Ucraina e l’irresponsabile civettare di Zelensky con la terza guerra mondiale sembrano suggerire. Libertà o morte è una formulazione retorica del tutto irrazionale. I morti non sono liberi ma semplicemente morti. L’antica saggezza dei disertori non smette di ripetercelo, contro la miserabile celebrazione del sacrificio e del sacro suolo

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A tutto gas. Se le sanzioni economiche avranno, come speriamo, un effetto sul governo russo, e purtroppo anche sul popolo russo che è contro Putin e questa guerra, non possiamo pensare di scansare gli effetti di queste sanzioni sulla nostra economia e società, sui nostri consumi e stili di vita

 

In tante piazze in tante parti del mondo si parla di pace, ed è bello sentire e vedere rinascere un movimento della pace in un momento così drammatico. Ma attenzione ai falsi profeti, come denunciava Geremia quando li accusava di dire “Pace! Pace! Quando pace non c’è” (Geremia, 6,14). È facile invocare la pace quando non costa niente farlo. Non è certamente così per il popolo della pace in Russia che rischia la galera, le bastonate e forse peggio. Per gli ucraini che, nelle città occupate dalle truppe russe, scendono coraggiosamente in piazza a mani nude di fronte ai carri armati, come nella Praga del 1968. Ma nella Ue chi invoca la pace e non agisce di conseguenza o pensa che basti invocarla perché accada, si comporta come i falsi profeti dell’Antico Testamento. O peggio ancora invocare la pace e inviare le armi che servono solo a prolungare l’agonia di un popolo, a moltiplicare la carneficina, ad alzare il livello militare dello scontro. Volere veramente la pace per il popolo ucraino significa lottare con tutti i mezzi pacifici per dare un contributo in questa direzione, come ci ricordava Luciana Castellina nel suo recente intervento. E sapere che questo ha un costo.

Se le sanzioni economiche avranno, come speriamo, un effetto sul governo russo, e purtroppo anche sul popolo russo che è contro Putin e questa guerra, non possiamo pensare di scansare gli effetti di queste sanzioni sulla nostra economia e società, sui nostri consumi e stili di vita. Come è noto ormai a tutti siamo dipendenti, noi e la Germania in primis, dal gas e dal petrolio della Russia ed è per questo che le sanzioni sono state escluse da queste due fonti energetiche. Il paradosso è, come ha denunciato per primo Alberto Negri su questo giornale, che in questo modo finanziamo la guerra e lo zar Putin che diciamo di voler combattere.

Il governo Draghi sta cercando altri paesi in grado di fornirci il gas di cui abbiamo bisogno, ma i tempi non sono brevi e rischiamo di continuare a finanziare indirettamente la guerra. Mi domando: chi si ricorda che esiste una cosa che si chiama “risparmio energetico”? Chi ricorda le domeniche a piedi del 1974 quando il prezzo del petrolio aumentò di botta del 400 per cento? Certo, non è quella la soluzione ma lo cito solo per dire che occorre, ed è urgente, una seria politica di risparmio energetico che coinvolga gli enti locali, le imprese e le famiglie. Non è accettabile che in molti enti locali, Università ed altre strutture pubbliche ci sia uno spreco energetico per noncuranza, sciatteria, irresponsabilità di cui ho fatto diretta esperienza e potrei documentare. Lo stesso avviene in molti uffici privati, dove un’alta temperatura d’inverno e bassa d’estate costituiscono una sorta di status simbol dell’impresa. Senza dimenticare che nelle nostre case in pieno inverno si sta con le tshirt e d’estate col maglione, che nei negozi mentre i condizionatori vanno al massimo si lasciano le porte aperte, che c’è tutto un modo di vivere e consumare che è finalizzato allo spreco, di alimenti quanto di energia.

Certamente una seria politica di risparmio energetico richiede un minimo di sacrifici, di cambiare gli stili di vita, mentre l’alternativa è continuare a finanziare questa guerra o far pagare ai ceti sociali a basso reddito il costo della crisi energetica. Infatti, ci sarà comunque un risparmio energetico “forzoso”, per via della crescita esponenziale dei prezzi, che stanno già pagando pesantemente i ceti a reddito medio e basso. Pertanto, una seria politica di risparmio energetico deve essere accompagnata da una giustizia fiscale redistributiva (come sostiene da tempo Piero Bevilacqua e tanti altri), e da una coerente politica ambientale che, con l’alibi della crisi energetica, non ci faccia tornare al passato funebre del carbone.

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Energie . La transizione energetica è a un bivio: puntare sulle rinnovabili o investire sui rigassificatori, sul carbone o su nuove estrazioni di gas

Rinnovabili e clima, quali progressi stanno facendo i paesi per rispettare  Parigi? | QualEnergia.it

Liberarsi dal gas russo o liberarsi dal gas? Con la guerra in Ucraina e i prezzi di gas e petrolio fuori controllo, la transizione energetica è giunta ad un bivio. Il governo può scegliere di accelerare fortemente lo sviluppo delle fonti rinnovabili, con il duplice obiettivo di garantirsi indipendenza energetica e taglio delle emissioni di CO2, come chiede Elettricità Futura (Confindustria), il salotto buono dell’impresa elettrica italiana, pronto a investire 85 miliardi nei prossimi 3 anni per tagliare il 20% delle importazioni di gas. Oppure può imboccare la via di nuovi investimenti sui rigassificatori, di incrementi della capacità produttiva a carbone, dell’estrazione del gas nazionale, e via con le fonti fossili, senza progressi verso la riduzione strutturale della vulnerabilità energetica, con passi indietro nel processo di decarbonizzazione, rischiando investimenti che in pochi anni potrebbero diventare stranded assests, ovvero beni «incagliati», che si svalutano perché superati.

La richiesta di Elettricità Futura di autorizzare subito impianti di fonti rinnovabili per 60 GW di potenza da realizzare nei prossimi 3 anni con un investimento di 85 miliardi di euro servirebbe a tagliare del 20% le forniture di gas russo. Secondo i calcoli di Elettricità Futura, i 90 TWh di energia elettrica rinnovabile che si potrebbero produrre con i 60 GW di impianti costerebbero 6 miliardi al prezzo delle ultime aste del GSE di 65€/MWh, mentre oggi, con il prezzo del gas alle stelle (il Prezzo Unico Nazionale è sui 450€/MWh) il costo è 41 miliardi. Inoltre, altri studi di settore indicano anche una forte riduzione dei costi degli impianti fotovoltaici (-77% rispetto al 2014) ed eolici (-49% rispetto al 2014).

Per scongiurare gli effetti di una ipotetica chiusura dei rubinetti da parte della Russia – ma per ora il gas continua a fluire – il governo sta correndo ai ripari firmando nuovi contratti di forniture di gas che arriverà attraverso i metanodotti che ci collegano ad Algeria, Libia e Azerbaijan e valutando la possibilità di creare nuovi rigassificatori (si torna a parlare di Porto Empedocle, ma anche di Gioia Tauro) per aumentare gli acquisti di Gnl, il gas naturale liquefatto che può essere trasportato con le navi metaniere da qualsiasi parte del mondo, anche dagli Stati Uniti dove si produce prevalentemente shale gas che si estrae con il metodo molto inquinante della fratturazione idraulica (fraking).

SECONDO GLI ESPERTI DI ECCO, un think tank italiano indipendente su clima ed energia, per mettere in sicurezza il paese non servirebbero nuovi rigassificatori, sarebbe sufficiente sfruttare al massimo quelli che abbiamo. Nel report «Come dimezzare la dipendenza dal gas russo con risparmio e rinnovabili» scrivono che «il grado di utilizzo dei 3 rigassificatori italiani (Livorno, Rovigo e La Spezia) ha ancora un margine di aumento di circa il 20% rispetto all’utilizzo del 2020 (dati Arera». I tre impianti sono localizzati al Centro-Nord, quindi averne uno, o più di uno, al Sud può fare comodo a diversi settori produttivi. Sono sottoutilizzati anche i gasdotti non russi di Passo Gries, Mazara del Vallo e Gela (16%, 24% e 45% rispettivamente nell’anno 2019-2020).

«La politica degli ultimi 4-5 governi italiani ha puntato a voler fare dell’Italia un vero e proprio hub europeo del gas – spiega Luca Iacoboni, responsabile delle politiche nazionali di Ecco – e questo ci ha resi estremamente dipendenti da questa fonte e quindi vulnerabili. Per questo noi sosteniamo che è urgente un cambiamento strutturale delle politiche energetiche. L’obiettivo non è sopravvivere a una possibile crisi per un taglio delle forniture del gas russo, ma eliminare progressivamente l’utilizzo del gas che è stata la fonte di transizione dal 1990 al 2000 e oggi non può più essere considerata tale oggi anche per questioni di sicurezza, oltre che per affrontare la crisi climatica».

OGGI E DOMANI AL VERTICE INFORMALE dei capi di stato di governo convocato a Versailles si discute la Comunicazione della Commissione europea REPowerEU: azione congiunta per un’energia a buon mercato, sicura e sostenibile, anticipata nei giorni scorsi al Parlamento europeo. Per affrontare la crisi energetica l’UE chiede di diversificare le fonti di approvvigionamento, utilizzare più Gnl, più biometano, aumentare la produzione da rinnovabili velocizzando le autorizzazioni degli impianti e di migliorare l’efficienza energetica. «Nel concreto, questa Comunicazione propone di sostituire la dipendenza dal gas russo con la dipendenza dal gas di altri paesi, mentre non ci ho trovato nessuna azione prioritaria mirata all’efficienza energetica. Ogni punto percentuale di aumento dell’efficienza energetica fa diminuire del 2,6% il consumo di gas, oltre a creare posti di lavoro e contribuire alla salvaguardia del clima – commenta la parlamentare europea del Verdi Eleonora Evi – con una guerra in corso che stiamo finanziando con l’acquisto di gas e petrolio russi, mi sarei aspettata misure più incisive e veloci. Perché dobbiamo aspettare fino a giugno per l’iniziativa sui Tetti solari per dispiegare il più possibile il fotovoltaico? Il gruppo dei Verdi aveva proposto di destinare l’1% del Pil di ogni stato membro a efficienza energetica e rinnovabili, ma questi obiettivi non ci sono nel documento. Noi chiediamo da tempo anche un provvedimento mirato all’indipendenza energetica dell’Europa, un tema di cui si inizia a parlare, ma ancora in modo troppo cauto».

LE MISURE DELLA COMMISSIONE ricalcano il piano in 10 punti suggerito dall’Agenzia internazionale per l’energia (IEA) pubblicato la scorsa settimana dove, tra le altre cose, non si menziona il carbone e si suggerisce agli stati di tassare temporaneamente gli extra-profitti delle aziende energetiche (tutte, anche le rinnovabili) per calmierare le bollette di imprese e cittadini: da questa azione si potrebbero ricavare 200 miliardi di euro da redistribuire.

Inoltre, la Commissione annuncia di voler indagare sul comportamento potenzialmente distorsivo della concorrenza di Gazprom che nei mesi scorsi ha diminuito i suoi stoccaggi di gas al 16% (mentre gli altri stoccaggi sono al 44%), per poi incrementare il suo flusso di gas nelle ultime settimane, con un tempismo un po’ sospetto.

GLI INTERROGATIVI GENERATI DA QUESTO CHOC energetico non finiscono qui: la deputata di Leu Rossella Muroni ha presentato nei giorni scorsi un’interrogazione parlamentare sui contratti pluriennali delle forniture di gas per capire come si formano i prezzi del gas e a cosa vengono indicizzati i prezzi, se alle quotazioni del petrolio (aumentato del 57%) o a quelle del mercato spot del gas (+ 389 %), per capire chi sta facendo effettivamente gli extra-profitti.

«Qui bisogna rendersi conto che l’interesse collettivo non corrisponde più a quello di Eni. Il governo deve prendere un’iniziativa. Il vero problema è la trasparenza, che assolutamente non c’è – dice Muroni, ancora senza una risposta dal governo – io credo che il Parlamento sia il luogo dove questo meccanismo deve essere spiegato. Altrimenti servirà una Commissione parlamentare d’inchiesta dedicata. C’è in gioco la sicurezza del paese ma anche una filiera industriale, quella delle rinnovabili, che non riesce a svilupparsi perché mancano certezze e prospettive. Con questa crisi rischiamo di tornare indietro di 30 anni. Io rimango stupita quando sento che c’è una parte di Confindustria così arretrata da proporre di rallentare la transizione ecologica. Questa è una posizione che sfida anche noi ecologisti: forse non abbiamo dialogato abbastanza in questi anni».

A una interrogazione simile presentata dai deputati Vallascas e Vianello (M5S) in cui si chiedevano il numero dei contratti a lungo termine, il quantitativo di gas per ogni contratto e i metri cubi previsti per ogni punto di ingresso, la sottosegretaria Gava ha risposto che «sotto molteplici profili, innanzitutto per preminenti ragioni di sicurezza, oltre che per ragioni di tutela di dati sensibili, anche sotto il profilo commerciale, si ritiene non opportuno fornire indicazioni così puntuali».

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Per l'ex presidente di Emergency l'unica soluzione possibile è il disarmo totale, una sfida che il movimento pacifista e non violento deve raccogliere e vincere a tutti i costi quando il conflitto in Ucraina sarà concluso. Ne va della vita dei nostri figli

Con Emergency di tragedie ne ha viste e vissute tante. Una lunga avventura per proteggere i diritti e le vite degli altri che Cecilia Strada, figlia del fondatore dell’organizzazione umanitaria Gino, attivista e saggista, adesso prosegue con ResQ People saving people, una Onlus che soccorre i naufraghi nel Mediterraneo, sulla rotta migratoria tra Africa ed Europa. Quando pensa a questa guerra alle porte del nostro continente dice che va fermata, “non abbiamo alternative: buttarla fuori dalla storia credo che sia l’unica opzione realistica che abbiamo, se teniamo alla pelle dei nostri figli”. L’abbiamo incontrata alla manifestazione di Roma del 5 marzo “Europe for peace”, una mobilitazione partecipata che però, come hanno fatto notare in molti, è arrivata in ritardo rispetto allo scoppio del conflitto in Ucraina.

Che cosa pensa di questa critica?
Questa è stata la prima iniziativa nazionale, ma nelle ultime settimane ce ne sono state altre, in tante città. Io vengo da Milano, dove abbiamo visto presidi molto partecipati, sebbene questo strumento negli ultimi anni non raccolga grandi folle. Vuol dire che su questo tema c’è sensibilità.

Crede che le persone abbiano paura?
Beh sì, c’è paura. Io naturalmente mi auguro che la guerra si concluda il prima possibile per via diplomatica. Poi però c’è qualcosa che dobbiamo fare dal giorno immediatamente dopo: cambiare il sistema. Dobbiamo renderci conto che quando questa guerra finirà, ce ne saranno altre

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Servizio pubblico. «Misura necessaria», ma proseguono le polemiche sul corrispondente da Mosca Marc Innaro. Rientrano i quattro inviati mentre i due corrispondenti possono scegliere se restare

 

 Servizio da Mosca del corrispondente Rai Marc Innaro

La Rai, l’Ansa e il Tg5 da ieri hanno sospeso i servizi giornalistici dalla Russia – al pari dei broadcast Bbc, Cnn, delle tedesche Ard e Zdf, la spagnola Rtve e le agenzie Bloomberg e Efe, e altre testate internazionali – a causa dell’entrata in vigore della nuova normativa imposta da Putin che prevede pene fino a 15 anni di carcere per chi diffonde informazioni sulla guerra in Ucraina ritenute false dalle autorità federali. Una decisione necessaria ma che si inserisce, per quanto riguarda la Radiotelevisione italiana, sul solco delle polemiche sollevate, dal Pd prima e poi anche da Forza Italia, nei confronti del giornalista Marc Innaro, il capo dell’ufficio di corrispondenza Rai di Mosca, giudicato troppo filorusso, soprattutto per un servizio pubblico. Al punto di dare l’impressione (tra i sindacalisti) che si stia cogliendo l’occasione per sostituire lo storico corrispondente con qualcuno meno “asservito” – secondo i suoi detrattori –  alla propaganda del Cremlino.

LA SOSPENSIONE dei servizi da Mosca, spiegano i vertici Rai, «si rende necessaria al fine di tutelare la sicurezza dei giornalisti sul posto e la massima libertà nell’informazione relativa al Paese. Le notizie su quanto accade nella Federazione Russa verranno per il momento fornite sulla base di una pluralità di fonti da giornalisti dell’Azienda in servizio in Paesi vicini e nelle redazioni centrali in Italia». Allo stesso modo l’agenzia di stampa nazionale italiana spiega che i servizi «saranno comunque forniti attraverso la sede centrale di Ansa e gli altri uffici di corrispondenza dell’Agenzia all’estero».

MARC INNARO, che sta organizzando come disposto dalla Rai il rientro in Italia dei quattro inviati in Russia (da Mosca Alessandro Cassieri per il Tg1 e Giammarco Sicuro per il Tg2; Marina Lalovic per Rai News 24, e Nico Piro da Rostov sul Don per il Tg3), spiega al manifesto che invece ai due corrispondenti – se stesso e Sergio Pani – è stata lasciata la libertà di «scegliere se rimanere qui o tornare, ma siamo stati messi in ferie da subito». Alla domanda se abbia intenzione di rientrare in Italia, vista l’impossibilità di svolgere il proprio mestiere liberamente dopo le minacce penali di Putin, risponde: «No, assolutamente. Rimarrò qui in ferie qualche giorno. Poi si vedrà…». Innaro però rimanda la nostra domanda ai vertici aziendali quando gli chiediamo se pensa che nella decisione presa dalla Rai abbiano influito le pressioni del Pd.

Il gruppo dem in Commissione vigilanza Rai infatti aveva già presentato un’interrogazione all’indomani del servizio di approfondimento di Marc Innaro al Tg2 Post del 26 febbraio, con l’accusa rivolta al giornalista di aver «sostanzialmente confuso il piano dei fatti con quello delle opinioni attribuendo, come un fatto acquisito, la responsabilità della guerra in Ucraina all’avanzare della presenza della Nato ad Est».

Altre polemiche sono state sollevate anche venerdì sera quando Innaro nel dare la notizia dell’attacco russo alla centrale nucleare di Zaporizhzhia ha riportato solo la versione di «fonti militari russe» secondo le quali l’esercito russo avrebbe preso il controllo dei reattori già il 28 febbraio scorso con l’«obiettivo di mettere in sicurezza le centrali nucleari», mentre ad appiccare l’incendio alla struttura sarebbe stato «un gruppo di sabotatori» che avrebbe attaccato «un centro di addestramento del personale della centrale».

A PRESCINDERE dai convincimenti politici di Marc Innaro e dalla sua etica professionale, la richiesta di rimozione di un corrispondente Rai in un Paese dove i giornalisti già in tempi “normali” sono tra i più perseguitati al mondo rischia di produrre ancora più danni alla libera informazione che in Russia fa fatica a sopravvivere. «Se qualcuno vuole la sua sostituzione abbia almeno il coraggio di dirlo apertamente e ne spieghi le ragioni – scrivono in una nota congiunta i sindacati Usigrai e Fnsi – L’attacco della politica al corrispondente della Rai da Mosca, mentre infuria la guerra, appare oggi strumentale e pericoloso».

 

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