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IMMIGRAZIONE. Alta tensione dopo le parole del ministro Darmanin. Tajani annulla il viaggio in Francia

 La frontiera tra Francia e Italia - Foto Ap

Tutto da rifare: sofferta e sospirata, la pace tra Francia e Italia sul fronte dei migranti è durata meno di un sussurro. A rompere la tregua, stavolta, sono i francesi, più precisamente il ministro degli Interni Gérald Darmanin, quanto meno con discutibile scelta dei tempi: «L’Italia – dice – conosce una gravissima crisi migratoria e Madame Meloni, capo del governo di estrema destra scelto dagli amici di Marine Le Pen, è incapace di risolvere i problemi migratori per i quali è stata eletta». Un fiume in piena esondazione: «Meloni è come Le Pen: l’estrema destra ha il vizio di mentire».

PAROLE DURE, CHE arrivano poche ore prima della visita del ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani a Parigi per incontrare l’omologa francese Catherine Colonna. Visita e incontro che vengono inevitabilmente cancellati dopo l’affondo di Darmanin: «Offese al governo e all’Italia inaccettabili. Non andrò a Parigi. Non è questo lo spirito con il quale si dovrebbero accettare sfide europee comuni».

La ministra si attacca al telefono, chiama Tajani, prende le distanze da Darmanin, andato probabilmente più in là di quanto il presidente Emmanuel Macron e il governo intendessero arrivare.

La telefonata però non basta. Tajani decide di cancellare l’impegno. Il comunicato “riparatore” del ministero degli Esteri francese arriva poco dopo l’attacco di Darmanin, ma è goffo e imbarazzato. Ci sono il «rispetto reciproco», lo «spirito di solidarietà», l’immancabile richiamo al Trattato del Quirinale. La ministra Colonna è un po’ meno burocratica nel tweet in cui racconta di aver parlato col Tajani offeso e si augura «di poter accoglierlo presto a Parigi».

A Roma i comunicati fiammeggianti si moltiplicano. Il più ringhioso è Matteo Salvini, al cui confronto persino Darmanin sembra un maestro di diplomazia: «Non accetto lezioni da chi respinge in Italia donne, bambini e uomini mentre ospita assassini e terroristi». Più pacato Francesco Lollobrigida: «L’ultima volta che sono stato a Ventimiglia avevano schierato decine di poliziotti». In effetti sul confine Parigi ne ha inviati freschi freschi altri 150. Critica il ministro anche Calenda: «Non è la prima volta che eccede».

PROVANO A STEMPERARE Lupi e, sul fronte opposto, Casini. «Tajani ha fatto bene ma a soffiare sul fuoco si fanno male tutti», commenta il primo. «Non servono ritorsioni contro chi non conosce la buona educazione» ammonisce il secondo. Sulle pessime maniere del ministro francese stavolta non ci sono dubbi, il brutto però è che non si tratta affatto solo di scarsa urbanità. L’ennesimo incidente tra i due Paesi ha radici più profonde, che vanno anche oltre l’ostilità del presidente e del governo francesi verso un governo italiano che, per il fatto stesso di esistere, supporta l’eterna nemica Marine LePen. La sostanza ribollente però non è quella: sono i soliti «movimenti secondari» per i quali l’Italia è già stata presa di mira a Bruxelles, gli ingressi nei Paesi europei dei migranti che sbarcano in Italia e poi proseguono. Colpa dell’Italia che non vigila abbastanza. Darmanin lo dice chiaramente: «In Tunisia c’è una situazione grave che porta molti, soprattutto bambini, a risalire l’Italia, che è incapace di gestire questa pressione migratoria».

SE NON CI FOSSERO di mezzo centinaia di migliaia di persone che prima rischiano la pelle in mare e poi finiscono sballottate da un confine all’altro, sembrerebbe una serie tv scritta con poca fantasia. Gli incidenti diplomatici tra Italia e Francia si susseguono dal 2018 e la tensione è arrivata al picco con l’incidente della Ocean Viking del novembre scorso, dopo il quale Macron e Meloni si sono tenuti il muso per 4 mesi. Qualche volta i litigi tra i due Paesi sono stati teatro: nel 2018-19 la Francia aderiva con la dovuta discrezione alle stesse politiche di Matteo Salvini che bollava in pubblico con rumorosi anatemi. Stavolta il conflitto è più concreto, dal momento che riguarda l’allocazione dei migranti. È l’Europa degli egoismi nazionali, e sembra che non cambi mai

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L’Istat attesta una crescita mensile e sull'anno a marzo, per la maggioranza è un risultato del governo. Con l'imposizione delle sole mani Giorgia avrebbe fatto miracoli, a quanto pare. Dal Jobs Act a oggi: breve storia del Palazzo quando cerca di inventarsi una statistica di comodo e celebrare i propri interessi

Pubblicati 48 ore dopo il presunto varo del cosiddetto «decreto lavoro» del primo maggio, i dati sull’occupazione dell’Istat a marzo 2023 ieri hanno prodotto un carosello di dichiarazioni da parte della maggioranza su un aumento congiunturale dell’occupazione «permanente» e di quella degli autonomi sia rispetto al mese di febbraio che rispetto all’anno trascorso.

Parliamo di più 22 mila occupati a marzo, 297 mila in più rispetto a marzo 2022, la disoccupazione è in calo al 7,8 per cento (1 milione 980 mila disoccupati). L’occupazione a termine è in calo.

Per la presidente del consiglio Giorgia Meloni «è il frutto del clima di fiducia percepito dalle imprese in questi primi sei mesi di governo. Sono dati molto incoraggianti continueremo a dare risposte concrete».

Sei mesi di miracoli, a quanto pare. Dato che prima di tre giorni fa il governo non si è occupato in maniera significativa di lavoro, se non precarizzandolo e non disturbando le imprese che «fanno», ora sembra che con la sola imposizione delle mani avrebbe «riattivato il mercato».

A febbraio quando invece c’è stato un calo non ha fiatato.

La ripresa occupazionale non dipende dal governo Meloni, ma segue una scia iniziata da più di un anno, dopo la fine dei lockdown e delle casse integrazioni. Però è chiara l’ideologia sottostante alla sua narrazione. Serve a giustificare l’esistenza di un «lavoro» purchessia, senza qualità.

E questo non vale solo per motivi di consenso, ma anche per i poveri «occupabili» a cui sarà tolto il «reddito di cittadinanza». Vadano a farsi sfruttare nei campi e tra i tavoli dei ristoranti. Se non lo fanno è colpa loro.

Non c’è politico che non abbia speculato sui dati dell’Istat o dell’Inps. Al tempo del Jobs Act del Pd di Renzi si raggiunsero vette tossiche e sfondoni colossali.

La strategia è valida oggi con le destre che fanno i meterologi. Sentono cioè il «clima» del «libero mercato» e lo dirigono attraverso il governo.

Come se fossero a capo di un’economia pianificata guidata da qualche cervellone a Palazzo Chigi, o al ministero dell’Economia. Ne sono passati diversi, in pochi se ne sono accorti.

I dati dell’Istat non sono facilmente leggibili, né è chiaro in quali settori aumenti l’occupazione, quali siano le tipologie dei lavori, né la loro qualità.

Si possono fare delle ipotesi incrociando i dati congiunturali con quelli del rapporto «Il mercato del lavoro: dati e analisi marzo 2023», redatto dal Ministero del Lavoro, Banca d’Italia e Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal). L’aumento dell’occupazione va misurato rispetto al crollo registrato durante la pandemia.

Nell’ultimo anno è avvenuta una ripresa che è rallentata negli ultimi sei mesi del 2022. Tra gennaio e febbraio sono stati creati oltre 100 mila posti, al netto delle cessazioni, un incremento maggiore di circa un terzo rispetto agli stessi mesi del 2019, precedenti la pandemia.

L’aumento è trainato dai servizi, in particolare dal turismo che ha prodotto un quinto delle posizioni create nel primo bimestre di quest’anno.

Coincidenza: i voucher imposti dalle destre saranno usati anche in questo settore di lavoro precario. L’aumento riguarda anche l’industria per la ripresa dei settori a maggiore intensità energetica che, nell’ultima parte del 2022, hanno beneficiato del calo dei prezzi dell’energia. Le costruzioni fanno registrare andamenti sostanzialmente stabili.

Un altro dato dell’Istat è significativo: gli occupati totali a marzo sono 23 milioni 349 mila. Un record rispetto alle serie storiche. Ma l’andamento resta quello degli ultimi anni.

La quantità è in sostanza la stessa del 2008 con scarse oscillazioni solo in caso di crisi o per la pandemia. Lo conferma il tasso mensile di occupazione e di inattività. Sono stabili – 60,9 per cento e 33,8 per cento rispettivamente.

Sono tra i più deboli dell’Eurozona. Conferma di un’economia stagnante, con un tasso di crescita che da quest’anno tornerà ad essere da prefisso telefonico

 
 
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OLTRE LA LINEA ROSSA. I russi incolpano Kiev e annunciano ritorsioni. Il governo ucraino smentisce ogni coinvolgimento e parla di un «inside job». Il segretario di Stato Usa: «Tutto quello che arriva dal Cremlino va preso con le pinze»

Droni sul Cremlino. Mosca: «Colpiremo  il cuore dell’Ucraina» Frammenti video del drone che si è abbattuto sul Cremlino - Ansa

Un piccolo velivolo in planata tra la cupola del Cremlino e la luna in lontananza, poi un’esplosione. È il video del presunto tentativo di attentare al simbolo di Mosca: il palazzo che fu degli zar, dei vertici dell’Urss e infine dei presidenti della Federazione russa. Un simbolo di potere secolare che da oltre vent’anni è identificato con Vladimir Putin e con la sua politica.

LA SCORSA NOTTE, come riportano i media statali russi, la residenza presidenziale sarebbe stata presa di mira da due droni, che nei commenti si definiscono senza indugio di provenienza ucraina, volti a colpire nel sonno l’uomo che ha deciso l’invasione. I media locali hanno spiegato che «a seguito di azioni tempestive intraprese dai servizi militari e speciali con l’uso di sistemi di controllo radar, i droni sono stati disabilitati e resi innocui prima di essere colpiti».

Un secondo video, da una distanza maggiore, mostra un oggetto in fiamme sul tetto nero della cupola che continua a bruciare, proprio sotto la bandiera bianca blu e rossa. Il portavoce del presidente russo, Dmitrij Peskov, ha dichiarato che il capo non si trovava nel palazzo al momento dell’attacco ma «al lavoro nella sua residenza di Novo Ogarevo» poco fuori Mosca.

Inoltre, in una nota ufficiale, il Cremlino ha fatto sapere di considerare «l’attentato del regime di Kiev un atto terroristico pianificato e un attentato alla vita del presidente della Federazione russa alla vigilia del Giorno della vittoria», che si festeggia il 9 maggio e celebra la vittoria dell’Armata rossa contro le forze naziste. In ogni caso, le autorità russe si riservano «il diritto di mettere in atto misure di ritorsione contro i mandanti dell’attentato in qualunque momento e in qualunque luogo sarà ritenuto necessario».

DA QUESTA dichiarazione, affatto sorprendente ma comunque preoccupante, nascono le valutazioni più o meno allarmate di analisti e politici. Anche perché diversi politici russi hanno già dichiarato che è il momento di colpire Kiev nel suo cuore. «Dobbiamo distruggere l’ufficio del presidente, la Verkhovna Rada (il parlamento ucraino, ndr), lo Stato maggiore e gli edifici che ospitano i servizi segreti» ha tuonato il deputato Aleksei Zhuravlev.

«Si tratta di un vero casus belli per dare il via all’eliminazione dell’élite terroristica dell’Ucraina, sappiamo come colpirla nei loro bunker» gli fa eco il presidente del Consiglio della Federazione russa Sergei Mironov. Ancora più esplicito il vice capo del Consiglio di sicurezza russo, Dmitri Medvedev: «Dopo l’attacco terroristico di oggi non rimangono altre opzioni se non l’eliminazione fisica di Zelensky e della sua cricca»

Il punto è che se si interpreta il presunto attentato come un tentativo di assassinio del presidente, conclusione più che logica, il passo verso l’invocazione della «minaccia all’esistenza dello stato russo» è breve. E, ormai è noto, in tal caso Mosca si riserva il diritto di utilizzare l’arsenale atomico. Per questo, fin dal primo pacchetto di armi inviate al governo di Kiev, gli alleati avevano posto diversi limiti al loro uso.

Uno su tutti, la linea rossa evocata in più occasioni sia dal Cremlino sia dalla Casa bianca: il divieto di colpire i centri del potere russo. Ora questo limite, almeno nella narrazione che il governo russo ha costruito nelle ultime 24 ore (e che è tutta da verificare), è stato oltrepassato. «Gli Stati uniti sin dall’inizio non hanno incoraggiato o messo l’Ucraina in condizione di colpire al di là dei propri confini» ha chiarito la portavoce della Casa Bianca, Karine Jeanne-Pierre.

MA KIEV, com’era altresì prevedibile, si dice totalmente estranea ai fatti. Il portavoce di Volodymyr Zelensky, Sergii Nikiforov, ha dichiarato alla Bbc: «Non abbiamo informazioni sui cosiddetti attacchi notturni al Cremlino, ma come il Presidente Zelensky ha ripetutamente affermato: l’Ucraina sta dirigendo tutte le forze e i mezzi disponibili per liberare i propri territori, non per attaccarne altri». Nikoforov ha insistito sul fatto che l’attentato sarebbe opera dell’opposizione interna russa.

Secondo Mykhailo Podolyak, il consigliere del capo dell’ufficio presidenziale ucraino, l’attacco è un’operazione delle stesse autorità russe. «La Russia – scrive – sta chiaramente preparando un atto terroristico su larga scala». «La comparsa di droni presso impianti energetici o sopra il Cremlino può solo indicare attività di guerriglia delle forze di resistenza locali; la perdita del controllo del potere sul Paese da parte del clan di Putin è evidente. Qualcosa sta accadendo in Russia».

Dagli Usa, il segretario di Stato Antony Blinken si è mostrato molto cauto: «Non possiamo confermare nulla e comunque bisogna prendere tutto quello che arriva da Mosca con le pinze». E come a fugare il campo da un eventuale coinvolgimento di Washington: «Qualsiasi cosa sia accaduta, non c’è stato alcun preavviso».

Anche la Commissione europea ha reagito alle dichiarazioni di Mosca, affidandosi alle parole di Peter Stano, il portavoce del servizio di azione esterna: «I presunti attacchi con i droni non devono essere usati come pretesto per un’ulteriore escalation della continua aggressione della Russia al di fuori dei suoi confini».

NELLE ULTIME ORE si sono verificati almeno 3 attacchi in pieno territorio russo. Un deposito di carburante è stato colpito a Krasnodar, vicino a dove sorge il pilone del danneggiato Ponte di Crimea, un treno è deragliato a Bryansk per un sabotaggio alle linee ferroviarie e una base dell’aeronautica a Seshcha è stata colpita da missili ucraini nei pressi della frontiera con l’Ucraina

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EMERGENZA CLIMATICA. Intervista al responsabile di struttura idro-meteo-clima dell'Arpae Emilia-Romagna Sandro Nanni

«È piovuto troppo e troppo a lungo. Un evento unico tra quelli registrati finora» Sandro Nanni

In alcune zone della Romagna ha piovuto per quarantotto ore di fila, dal pomeriggio del primo maggio a ieri alle 13, scaricando in appena due giorni fino a un quarto delle precipitazioni misurate in media in un anno. Secondo Sandro Nanni, che dirige la Struttura idro-meteo-clima dell’Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia-Romagna, si è trattato di un «evento molto rilevante», che diventa «unico tra quelli registrati finora» per estensione, avendo interessato un territorio che va dalla Valsamoggia, ad Ovest di Bologna, fino alle città di Faenza (Ra) e Forlì (Fc).
Si tratta tecnicamente di un ciclone extra-tropicale. Ma in questo caso la perturbazione è rimasta più stazionaria e ha avuto una dinamica molto più lenta
Che cosa è successo?
Si tratta di un evento di lunga durata, tecnicamente un ciclone extra-tropicale. Sono le tipiche perturbazioni che interessano il Bacino del Mediterraneo, ma in questo caso, rispetto alle dinamiche più ordinarie, la perturbazione è rimasta più stazionaria e ha avuto una dinamica molto più lenta, che ha portato la pioggia per due giorni di fila.

Qual è la caratteristica delle precipitazioni registrate?
Non sono state precipitazioni di tipo estivo, convettivo, legate ai temporali, ma pioggia a bassa intensità oraria, con quantitativi anche di pochi millimetri. Questa pioggia però ha avuto una grande continuità, che ha visto registrare in alcuni dei pluviometri disposti lungo l’area pedecollinare oltre la via Emilia e fino alla prima collina valori tra i 200 e i 270 millimetri, quest’ultimo dato nel Comune di Fontanelice (a 18 chilometri da Imola, lungo il corso del Santerno, nella città metropolitana di Bologna). Le precipitazioni hanno interessato affluenti di sinistra del Reno, come il Samoggia, l’Idice, ma anche il Sillaro, il Santerno, il Senio, e poi alcuni fiumi romagnoli, come il Montone e il Lamone, quello che attraversa Faenza. In molte aree si sono toccati i 150 o i 100 millimetri, che impattano sezioni piccole, perché parliamo in alcuni casi di torrenti.

Possiamo parlare di evento estremo?
Non abbiamo ancora fatto una verifica puntuale, ma quel che è certo è che sia un evento molto rilevante. Per fare un raffronto, i 200 o 270 millimetri di pioggia rappresentano un quantitativo che può capitare in tutta una Primavera. A Pianoro (Bo), a Fontanelice Castel San Pietro Terme (Bo), i valori medi annui vanno dagli 800 ai 900 millimetri. In più veniamo da due anni, il 2021 e 2022, che sono stati tra i più poveri in relazione alle precipitazioni, con una conseguente una situazione di siccità che stiamo ancora registrando.

Tutta quest’acqua in due giorni cos’ha provocato?
Tutti i fiumi che ho nominato prima, pur partendo da livelli bassi di attenzione, man mano sono passati al livello giallo di attenzione, quando il corso d’acqua sta nel proprio letto o inizia a uscire per occupare le parti golenali, raggiungendo poi il livello successivo, l’allarme rosso, quando l’acqua sta raggiungendo la sommità degli argini. Se le condizioni di livello 3 perdurano, allora ci possono essere esondazioni, rotture arginali, com’è successo ad esempio nel caso del Sillaro. Sono molti però gli argini in situazioni critiche, perché il volume d’acqua era significativo e vengono da due anni praticamente senz’acqua. Un episodio significativo ha interessato anche la città di Bologna, dove il rio Ravone, che scende dalla collina di San Luca e all’altezza della facoltà, in via del Genio, viene tombato fino a via Saffi, vicino all’Ospedale Maggiore, ieri ha determinato problemi, perché il volume d’acqua era improvvisamente maggiore di quello che la sezione della tombatura riesce a sopportare.

Era mai successo qualcosa del genere in Emilia-Romagna?
La situazione è questa: il nostro centro funzionale è operativo dal 2004 e su alcuni di questi bacini i colmi che abbiamo registrato sono pari o superiori in alcuni casi ai massimi storici, almeno nei vent’anni da quando abbiamo iniziato a seguire le piene dei fiumi. Siamo di fronte a uno degli eventi più rilevanti mai registrato, unico tra quelli registrati finora per numero di bacini coinvolti che hanno visto un superamento del livello 3. Ciò ha causato anche molte frane in Appennino, con conseguente chiusura delle strade

 

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Il sistema idrico regionale non ha retto alla pioggia, esondati i fiumi. Due i morti e centinaia di sfollati. Faenza allagata

 Due cittadini aiutano i soccorsi con la canoa a Faenza - Ansa

Questa volta l’alluvione non era inattesa. Dopo mesi di siccità, le piogge incessanti di questi giorni lasciavano presagire il peggio. Era stata diramata l’allerta meteo, livello rosso, dalla notte tra martedì e ieri e molti comuni avevano iniziato a chiudere scuole e strade a rischio. Ma la prevenzione non è bastata. Ieri l’Emilia Romagna si è svegliata allagata e spaventata.

IN ROMAGNA È CADUTA in trentasei ore l’acqua che normalmente si vede in tre mesi. Troppo per il sistema idrico regionale. A pagarne il prezzo sono soprattutto le pianure del ravennate, dove il reticolo di piccoli torrenti si è trasformato in un dedalo di fiumi in piena.

Le immagini più impressionanti vengono da Faenza, dove il fiume Lamone è esondato travolgendo il quartiere Borgo. Sui social sono diventati virali i video delle auto sommerse fino al tettuccio e dei soccorritori costretti a raggiungere in gommone i cittadini fuggiti dai primi piani delle case. Sono centinaia gli evacuati, in gran parte ospitati nel locale palazzetto dello sport. «Siamo stupiti e spaventati. In trent’anni passati qua non ho mai visto niente di simile» ci dice un abitante del quartiere. «Stamattina mi sembrava di non riconoscere i posti in cui sono cresciuto. Sappiamo che il clima sta cambiando, ma non lo avevamo ancora visto sui nostri territori». Una paura che diventa rabbia nelle parole del portavoce di Legambiente Faenza, Massimo Sangiorgi. «L’Italia è un paese in pericolo, lo sappiamo da sempre. E invece di pensare al dissesto idrogeologico si progetta il Ponte sullo stretto». Il locale circolo dell’associazione ecologista, ironia della sorte, è intitolato proprio al Lamone.

A FAENZA I DANNI sono economici. Ma poco più a nord est le cose peggiorano. Un uomo di ottanta anni è morto a Castelbolognese, provincia di Ravenna. A ucciderlo l’esondazione del Senio. Secondo le prime ricostruzioni, ancora da confermare, la vittima stava percorrendo in bicicletta una strada chiusa quando è stato travolto dalla piena.

A San Lazzaro di Savena, provincia di Bologna, l’amministrazione ha fatto evacuare chi vive vicino al fiume. A Conselice, provincia di Ravenna, la tracimazione del Sillaro ha portato alla

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Giorgia Meloni “occupa” il primo maggio lanciando con un video un fantomatico aumento dei salari da 100 euro: «Il più importante taglio delle tasse sul lavoro da decenni». La realtà è ben diversa: cancellato il reddito di cittadinanza, penalizzati i poveri senza speranza di avere un’offerta. Aumentano precarietà e voucher

POLITICA. La premier «occupa» il primo maggio e nel suo video suona la campanella anche per i lavoratori: devono stare al loro posto

Oltre lo spot. Meloni all’assalto dei pilastri della Repubblica Giorgia Meloni ieri in conferenza stampa - foto Ansa

All’inizio la prima attrice sconta un certo imbarazzo, difetta di naturalezza. Questione di secondi, poi Giorgia Meloni si riprende, acquista padronanza mentre il piano sequenza la segue nelle sale e nei corridoi di palazzo Chigi. Alla fine neppure gli avversari negano che la trovata è stata efficace. La decisione di affidare a un video la missione di rubare ai sindacati e alla sinistra il primo maggio è stata presa all’ultimo momento. Il progetto iniziale era una classica conferenza stampa, poi, dopo l’incontro con i sindacati, la premier si è resa conto che sarebbe suonata come affronto e ha ripiegato sullo strumento a suo tempo introdotto e usato magistralmente da Silvio Berlusconi: un video.

NON MANCA L’IPERBOLE, il già celeberrimo «più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni» che si tira il commento caustico di Renzi: «Ha litigato con la matematica». Di sfuggita la deambulante Giorgia trova modo di rivendicare le sue più impopolari scelte, la cancellazione del Superbonus e quella del calmiere sulle accise: è grazie a quelle mosse che oggi ci sono a disposizione i 4 miliardi necessari per gli ulteriori 4 punti di taglio al cuneo fiscale. Uno spruzzo di vittimismo è inevitabile: «Non riesco a capire chi riesce a polemizzare persino su questa scelta». Uno dei passaggi più discutibili, la scure sul reddito di cittadinanza, è contrabbandato con un addomesticato «distinguiamo chi può lavorare da chi non può farlo». Nemmeno una parola, ovviamente, sul lato oscuro del decreto, le norme che pomperanno la precarizzazione.

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OGNI PIAZZISTA ha il proprio stile e quello della premier e del suo regista Tommaso Longobardi è diverso da quello impettito del grande venditore di Arcore. Ma la logica è identica: la politica è un prodotto che si deve saper vendere per accumulare consensi. Come il maestro, la leader di FdI si propone come testimonial. È l’underdog di Garbatella che nel giorno della festa del lavoro si rimbocca le maniche,«Fatti e non parole», sino alla conclusione, in realtà girata prima: l’ingresso nella sala affollata di ministri intorno al tavolone rotondo, per prendere posto fra Mantovano e Tajani e suonare la campanella. Al lavoro, colleghi.

MA LA MESSA IN SCENA, peraltro riuscita pur con qualche sbavatura, non deve trarre in inganno. La manovra non si limita a una trovata pubblicitaria. Dopo l’arrembaggio al 25 aprile, trasformato in Festa della Riconciliazione, la leader della destra occupa anche il giorno del Lavoro e con lo stesso obiettivo: smantellare i pilastri culturali che hanno sostenuto sinora la Repubblica, sia pur sempre più flebilmente. La visione delle relazioni di lavoro che l’erede di Almirante e Berlusconi illustra passeggiando per palazzo Chigi è depurata da ogni eco di conflittualità sociale, il cui riconoscimento era pilastro implicito della Repubblica e della sua Carta fondativa. Scompaiono gli aumenti dei salari tra i più bassi d’Europa, il taglio del cuneo, anzi, mira proprio a evitarli nonostante l’inflazione. Nessuna ambizione di redistribuzione: implicherebbe tasse mirate e a destra è una bestemmia. Nessuna voglia di restituire diritti, adeguati alla dimensione contemporanea. Il precariato è un dato di fatto. I lavoratori devono stare al loro posto e aspettare che, se e quando possibile, il governo suoni la campanella.

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QUANTO EFFICACE SIA sul piano del consenso la mossa di Meloni lo si scoprirà nei prossimi giorni. Di certo è azzardata. Il taglio resterà in vigore sino a dicembre, poi andrà rifinanziato e prorogato. La ministra Calderone ha assicurato ieri che il governo mira a rendere il taglio strutturale, aggiungendo però che «ci deve essere una situazione che lo consente». Il problema è che sui saldi del Def gravano parecchie ombre. L’inflazione è salita prima e più del previsto: dal 7,6% all’8,3%, decisamente peggio che nel resto d’Europa dove pure è in crescita ma di un solo decimale, dal 6,9% al 7%. La scommessa del Pnrr è ancora tutta al buio, la riscrittura del Patto di stabilità si profila più come una minaccia che come un’opportunità. Se il taglio del cuneo non dovesse essere confermato per il 2024, il colpo sarebbe micidiale

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