INTERVISTA. Francesco Silvestri, capogruppo del Movimento 5 Stelle alla Camera: «Trump è lontano da noi, ma rivendichiamo il diritto di criticare Biden sulla guerra»
Francesco Silvestri e Giuseppe Conte - Ansa
«Se qualcuno ha bisogno di categorizzare e semplificare, faccia pure». Così Francesco Silvestri, capogruppo del Movimento 5 Stelle alla Camera, smentisce che l’equidistanza manifestata da Conte tra Biden e Trump rappresenti il ritorno del vecchio M5S «né di destra nè di sinistra». «Nell’ultimo anno – prosegue Silvestri – Ci hanno dato dei putiniani perché volevamo fermare le armi in Ucraina e degli antisemiti perché ci siamo battuti, e ci stiamo battendo, per fermare il massacro a Gaza».
Anche lei non sceglie tra i due contendenti?
Trump è molto lontano da noi e dalle logiche progressiste, ma rivendichiamo di poter criticare Biden per le strategie militari del governo statunitense. Il punto è che la nostra identità non si poggia sulle bandiere di altri, ma sulle nostre convinzioni, che sono forti e radicate. Per noi contano i cambiamenti che riusciamo a ottenere per i cittadini.
Non crede neppure che queste polemiche possano inficiare il vostro avvicinamento al gruppo dei Verdi europei?
No, non ho questo genere di timori. La nostra storia dimostra che non snaturiamo le nostre convinzioni per opportunismo. Non si possono vincere battaglie nelle quali non si crede.
Elly Schlein dice che il suo avversario è il governo Meloni, e che vuole evitare divisioni con il M5S. Cosa rispondete a questo invito all’unita d’azione?
È innegabile che con il Partito democratico esistano posizioni differenti su temi come la guerra e l’ambiente. Ci tengo però a dire che è sbagliato leggere queste differenze di opinioni come uno scontro.
Dunque, i distinguo sono destinati a proseguire fino alle europee di giugno?
Per noi quello con il Pd è un confronto politico che ci auguriamo possa essere costruttivo, ma perché lo sia deve finire la stagione in cui la diversità sono un problema e non una ricchezza. Per essere alternativi al governo Meloni, per prima cosa bisogna essere sinceri e leali. Il 31 gennaio per alcune banche scadeva il termine in cui, sulla base della norma del governo Meloni, dovevano decidere se pagare le tasse sugli extra profitti o ricapitalizzare.
Cosa c’è che non funziona in questo meccanismo?
Niente. Non funziona niente. Ed è anche una presa in giro verso le famiglie in difficoltà. Dopo tanti annunci trionfalistici, dove sembrava che Meloni volesse fare sua la mia proposta di legge, evidentemente qualche colletto bianco ha chiamato la presidente del consiglio e le ha fatto fare marcia indietro. Alla fine di questa penosa sceneggiata, per le banche è stata fatta una tassa «facoltativa» che ovviamente hanno scelto di non pagare. In un momento storico come questo, dove milioni di cittadini versano in condizioni critiche, serviva tassare gli istituti di credito che hanno fatto margini miliardari proprio sulle sofferenze di queste persone. Meloni però se n’è guardata bene. La tattica della premier è sempre la stessa: parla al popolo, ma poi si siede con i banchieri.
È stata calendarizzata la sua proposta sugli extra profitti. In cosa si caratterizza?
La mia proposta è estremamente semplice, prevede di tassare gli extraprofitti bancari derivanti dall’aumento dei mutui per istituire un fondo che aiuti chi non riesce a pagare le rate e rischia di perdere la casa.
Avrà il sostegno delle altre forze d’opposizione?
Mi auguro che tutte le opposizioni convergano su questa proposta che io e il Movimento 5 Stelle giudichiamo di buon senso. È inutile riempirsi la bocca delle sofferenze dei cittadini se poi non si ha il coraggio di affrontare chi li mette in difficoltà.
Insomma, invece di tassare le banche il governo fa cassa con le privatizzazioni?
Sì, il che significa smantellare i principali asset del paese e perdere migliaia di posti lavoro, con nuove tasse e tagliando ogni tipo di sostegno sociale per le persone in difficoltà. Questo esecutivo non ha esitato nemmeno un attimo prima di cancellare il reddito di cittadinanza, gli sconti sulla benzina e tutte quelle misure che potevano dare un po’ di sollievo ai tanti cittadini in crisi. Il governo Meloni fa così: cerca di nascondere i suoi clamorosi fallimenti economici e non ha uno straccio di idea per lo sviluppo del paese, ma intanto fa cassa sui più fragili e non se ne vergogna
Gli interventi di Michele Santoro e Luigi de Magistris richiamano la necessità storica, morale e politica di una “lista per la Pace” per le prossime elezioni europee. I due interventi condividono un aspetto cruciale, una base importante per la costruzione di un percorso comune. L’idea che “la Pace” non è una categoria dello spirito, ma – come ricorda spesso Emiliano Brancaccio su questo giornale – un obiettivo che chiama in causa le logiche di potenza, i meccanismi di accumulazione del capitale, i modelli di civiltà e le “grandi sfide” (ecologica, tecnologica, di legittimità, socio-economica) che il mondo sta affrontando.
Sfide di fronte alle quali l’Europa è muta, se non complice. Sfide, va sempre ricordato, di fronte alle quali le destre si stanno attrezzando per arrivare all’appuntamento pronte: con i più forti seduti dalla parte dei vincitori e i più deboli a pagarne i costi. Anche, e forse soprattutto, per questo una “lista per la Pace” non può e non deve essere separata dalle più ampie questioni politiche, economiche e sociali. La Pace è neutrale, ma non neutra. Il rischio, altrimenti, è di costruire una pace-tofu: un ingrediente che assorbe il sapore del cibo che ha vicino. Una pace priva di personalità, buona per tutte le stagioni. Come, effettivamente, sta accadendo nel dibattito pubblico, dove la Pace è un abito adatto a ogni taglia, anche se non soprattutto invocata da chi fa di tutto per allontanarla.
Una connotazione politica di questo tipo include ma non coincide solo con il campo della sinistra. Lo include, perché i temi costitutivi sono storicamente propri di tale campo; non coincide, perché non sono solo temi di sinistra. Sono, cioè, temi-di-confine dotati di una certa plasticità, adattabili a diversi “mondi” (ma non a tutti…), che acquistano significati parzialmente diversi in relazione agli interlocutori, pur conservando un nocciolo duro condiviso. Inoltre, non può coincidere con una campo esclusivamente di sinistra perché la Pace non è monopolio di questo campo e perché tanto Michele Santoro che Luigi de Magistris hanno – per biografia politica e identità progettuale – un raggio non solo e non completamente coincidente con quello che, politicamente e storicamente, caratterizza la sinistra in questo Paese. Se la Pace è un tema-di-confine, potremmo dire, Santoro e de Magistris sono figure-di-confine, connettori potenziali tra campi.
Certo, questo lavoro di connessione richiede alcune condizioni di processo. Diventa vera forza politica aggregante solo se rispetta un metodo di lavoro. Anzitutto, una lista per la Pace non è e non può essere un nuovo partito: si deve configurare come “un’alleanza miope”, quindi un’alleanza che si impone di non progettare più in là delle europee. Un’alleanza “di scopo”, come la definisce il segretario di Rifondazione Comunista nel suo intervento, che, come Ulisse con l’ammaliante ma mortale canto delle sirene, disegna in anticipo i propri vincoli per raggiungere l’obiettivo, senza però morire nel farlo.
Un’alleanza, poi, che si configura come una dialogo tra persone e organizzazioni che, pur piccole, hanno esigenze politiche. Organizzazioni nascenti che, come Unione Popolare, stanno cercando faticosamente di federare un campo frammentato e che soffre del monopolio della rappresentanza a sinistra del PD. Organizzazioni che, tra loro, si devono parlare e non devono avere solo relazioni indirette e “a raggiera”, connesse solo da un centro che, come il mazziere nel poker, distribuisce le carte a giocatori tra loro in competizione. Se, come ricorda sempre Acerbo, la lista per la Pace non può essere una mera sommatoria, da ciò vanno tratte alcune conseguenze logiche, prima che politiche.
La ricerca di una sintesi politica, infatti, passa solo da confronto acceso, informato, aperto e ragionevole che sottoponga scelte e alternative all’esplosione paritaria dei diversi punti di vista, interessi e priorità. Centralizzare senza un centro, senza un’organizzazione e in assenza di un ruolo formale legittimo, è davvero inutile e sbagliato. Inoltre, la ricerca della sintesi non deve fomentare divisioni e vivere di tatticismi (questi sì, dannosamente “miopi”). Ciò vale tanto per chi propone la lista per la Pace, quanto per le singole forze politiche che vi partecipano: pensare di correre e di salvarsi da soli è una pia illusione. Occorre un ritmo comune, non fughe in avanti o scambi bilaterali nel retroscena. Infine, il tempo di farlo è ora. Stare alla finestra o trascinare in avanti le decisioni importanti è un suicidio politico.
Sono, queste, le condizioni minime affinché l’obiettivo di una “lista per la Pace” non entri in tensione distruttiva con l’assenza della “pace in una lista”. Porsi obiettivi nobili senza essere capaci o pronti a fare un passo di lato, senza farsi tentare dalle fughe solitarie, senza essere pronti a mediazioni pragmatiche e ad “alleanze miopi”, sono contraddizioni che non ci si può permettere. Il tempo è poco e la posta in gioco è troppo alta
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SINISTRA/EUROPEE. Il dibattito della sinistra sulle pagine del manifesto su come presentarsi alle prossime elezioni europee
Condivido le preoccupazioni di Emilio Molinari e Basilio Rizzo in vista delle ormai imminenti elezioni europee. E per questo sostengo dall’inizio l’appello di Michele Santoro e Raniero La Valle per una lista per la pace che metta al centro della campagna elettorale la deriva guerrafondaia dell’Italia e dell’Unione europea al seguito della Nato e degli Usa, lo stop all’invio di armi in Ucraina (rivotato da destra e Pd), il taglio delle spese militari, la solidarietà coi popoli palestinese e curdo, la riforma e il rilancio dell’Onu per la risoluzione delle controversie internazionali, il Trattato Onu per la messa al bando delle armi nucleari.
Una lista per la pace che non può non avere un programma di giustizia sociale e ambientale alternativo all’ordoliberismo europeo e alle politiche razziste e xenofobe. La proposta di Michele Santoro e Raniero La Valle ha il pregio di non proporre semplicemente sommatorie elettorali – che tra l’altro non sempre funzionano come verificato cinque anni fa con la Sinistra – ma un compito ben più importante e necessario, quello di far uscire l’Italia dalle guerre e dalle logiche di guerra, di portare nel parlamento europeo la voce di chi si riconosce nel ripudio della guerra sancito dall’articolo 11 della Costituzione. La «lista per la pace» va fatta non tanto per unire i partiti ma per imporre la centralità della questione della guerra e la critica della deriva dell’Unione europea. Proprio per questo offre un terreno positivo di convergenza.
La «sinistra pacifista, ambientalista, dei diritti sociali e civili così ben scritti nella nostra Costituzione» ha il dovere di dare il proprio contributo superando ogni autoreferenzialità. Ricordo che anche alle elezioni politiche noi proponemmo la coalizione del fronte pacifista e quindi come Rifondazione Comunista abbiamo dato la nostra disponibilità alla costruzione di una lista «di scopo» che unisca su un programma condiviso chi ha assunto posizioni coerentemente contro la guerra.
Dentro Unione popolare abbiamo proposto una linea che coincide con quella riassunta dal portavoce Luigi de Magistris nel suo intervento su queste pagine e lavoriamo perché altre componenti come Potere al Popolo superino la propria posizione di contrarietà sulla base di un profilo programmatico convincente. Non abbiamo mai posto pregiudiziali.
Una lista per la pace con idee e candidati che siano credibili
Anzi nel mio intervento al congresso nazionale di Sinistra italiana lo scorso novembre ho proposto le medesime argomentazioni di Rizzo e Molinari, riprese anche da Alfonso Gianni e Vincenzo Vita. Ho invitato a non ripetere l’errore che nel 2009 fecero Sel e Rifondazione respingendo un appello unitario promosso da tante personalità della sinistra e dei movimenti, tra cui voglio ricordare compagni preziosi come Paul Ginsborg e Pino Ferraris.
Il risultato fu la dispersione di circa il 7% dei voti pur avendo entrambe le liste superato il 3%. Segnalo che una convergenza è stata sollecitata sia dal gruppo parlamentare europeo della Sinistra che dal partito della Sinistra europea. Purtroppo il gruppo dirigente di Si/Verdi per ora si è dimostrato impermeabile come ha potuto constatare anche Mimmo Lucano che da Riace aveva lanciato un appello. Ho la sensazione che Si/Verdi, essendo gli unici a sinistra del Pd nell’attuale parlamento, preferiscano correre il rischio di non avere eletti alle europee pur di conservare questo piccolo monopolio nello spazio della rappresentanza.
Spero che venga superata questa posizione autoreferenziale. Intanto è positivo che Michele Santoro abbia scritto che intende andare avanti a prescindere dalla partecipazione di questo o quel partito perché il progetto può e deve parlare molto al di là dei confini della sinistra e già ha perso mesi preziosi. Bisogna chiamare a raccolta tante energie e intelligenze che sono fuori dai partiti, ma soprattutto cercare di far emergere un sentimento popolare diffuso. L’Italia è il paese dove più forte è l’avversione verso la guerra. Possiamo lanciare un segnale importante in Europa
Commenta (0 Commenti)PIANO MATTEI. Intervista ad Angelo Bonelli, deputato di Alleanza Verdi Sinistra e portavoce di Europa Verde
Giorgia Meloni ha sostenuto che quello messo in scena al vertice di Roma è un «confronto tra pari». Al contrario, Angelo Bonelli, portavoce di Europa verde e deputato di Avs considera il cosiddetto «Piano Mattei» alla stregua di un disegno neocoloniale.
Come mai secondo lei non siamo davanti a un dialogo paritario?
Si tratta di una dichiarazione di profonda ipocrisia. Il vero obiettivo di questa «conferenza che ho battezzato «Eni Meloni», perché è così bisogna chiamarla, sta nelle stesse dichiarazioni della premier. La presidente del consiglio ha detto che in questa occasione porterà la sua visione sul futuro dell’Africa. Ma il futuro dell’Africa devono decidere africani, non la presidente del consiglio dell’Italia.
Avete definito questo atteggiamento come un meccanismo «predatorio».
L’amministratore delegato di Eni, vero ministro degli esteri per l’Africa, ha detto al Financial Times: loro hanno l’energia e noi no. La vera missione è dunque prendere il gas e far diventare l’Africa un grande gasdotto. E trasformare paesi come il Congo e il Ruanda insieme a tutto il Centro Africa in coltivazioni estensive di bio-carburante. Non cambia nulla rispetto a quello che hanno fatto i paesi occidentali per tutto il secolo scorso.
Sembra inoltre sparito, al contrario, ogni tipo di riferimento alla cooperazione allo sviluppo.
Quella voce non solo viene cancellata, viene del tutto demolita. L’obiettivo di raggiungere lo 0,7 % del Pil in cooperazione entro il 2030 non sta neanche più nel libro dei sogni: siamo fermi allo 0,27%. Nella legge di bilancio hanno tagliato 50 milioni di euro sui progetti di cooperazione e pace.
E che ne è della questione del debito?
Altra cosa del tutto rimossa. Il tema gigantesco del debito estero e della sua cancellazione: fu una battaglia dei movimenti. L’ammontare di questo debito per tutti i paesi africani supera i 1300 miliardi di dollari. Nel 2019 questi stessi paesi hanno speso più soldi per pagare gli interessi su questo debito di quanto abbiano investito in sanità pubblica. Questo è un vero disastro ma nessuno se ne preoccupa più. Per non parlare degli obiettivi climatici: si punta a nuovi giacimenti e ai combustibili fossili.
Altra omissione vistosa: praticamente non si parla neppure di ambiente. Come mai?
Mettono sul piatto tre miliardi di fondi per il clima per andare a prender energia e fermare flussi migratori. Tutto ciò è inaccettabile. Oltretutto, all’Africa andrebbe riconosciuto anche un debito ecologico. Si pensi agli ogoni che vivono nel delta del Niger, dove le sette sorelle, Eni compresa, sfruttano i giacimenti di petrolio: loro non hanno neanche la luce dentro casa.
Eppure la retorica di Meloni sostiene che è finito l’assistenzialismo, che darà all’Africa la possibilità di decidere il proprio destino…
Di che assistenzialismo parliamo? Neanche quello è stato fatto. Se fosse fatta assistenza umanitaria sarebbe stato utile. La comunità internazionale si è dimenticata della carestia e dei morti per fame nel Centro Africa. Oggi l’Italia decide di entrare in affari, prova a mettere il cappello sui giacimenti di gas, come in Mozambico e Angola. E nel frattempo abbiamo paesi come il Ghana, lo Zambia e l’Eritrea che sono al default.
In tutto ciò il Senato è occupato dall’evento, è diventato zona rossa. È la rappresentazione di un deficit democratico?
Quello che ritengo più grave, da questo punto di vista, è che anche la società civile africana sia stata esclusa, assieme ai sindacati e alla diaspora africana. Come Alleanza Verdi Sinistra, con un emendamento abbiamo proposto che esponenti della società civile potessero dire la loro, ma è evidente che si vuole escludere questa forma di partecipazione.
Cosa farete adesso, di fronte a tutto ciò?
Per cominciare, gli investimenti che vorranno fare vanno monitorati. Per questo vogliamo dar vita insieme ai movimenti a un osservatorio di controllo su quello che farà la cabina di regia sull’Africa
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COMMENTI. Era il 1950 e per il ministro francese Schuman la Ceca la prima ’unione europea’, serviva al compito storico di «sviluppare l’Africa». Di lì a poco scoppiava la rivolta dell’Algeria
Agosto 2010, Il leader libico Muammar Gheddafi in visita in Italia accolto dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi - Ansa
Le istituzioni italiane sono come i polli di Renzo, ognuno vuole la sua parte e becca l’altro senza neppure sapere il perché. Per un Piano Mattei dedicato allo «sviluppo» dell’Africa che è come l’araba fenice di Metastasio «che vi sia ciascun lo dice ove sia nessun lo sa».
Il Piano, per quel che abbiamo letto, ha come sola dotazione gli emolumenti per funzionari dello stato che l’Africa la vedono, se va bene, solo sulla carta geografica. Il resto è noia, come avrebbe detto Califano, nato africano a Tripoli e celebrato ora anche in una brillante serie tv.
Tutto questo avviene, come scriveva ieri Tommaso Di Francesco mentre una parte del Sud del mondo non dimentica i massacri coloniali in Africa e la lotta di liberazione in Sudafrica dall’apartheid che Mandela paragonava a quella della Palestina.
Ma gli africani se la bevono? Anche no, perché ormai la Cina ha surclassato la Francia come maggiore esportatore nel Continente africano. E pensare che nel maggio 1950 il ministro francese degli Esteri Schuman salutava la costituzione della Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, affermando, testualmente: «l’Europa sarà in grado di proseguire nella realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano». Eh sì, come no.
Comincia il summit. L’Ue benedice il ponte di Meloni con l’Africa
Ai francesi (e agli americani) la Ceca, embrione della futura Unione europea, serviva per tenere a bada la Germania e soprattutto le sue colonie africane che, come l’Algeria, di lì a poco si sarebbe rivoltata contro Parigi con una delle guerre anticoloniali più sanguinose della storia (più di un milione di morti).
Oggi in Africa, come ricordava Marco Boccitto in un acuto editoriale sul manifesto, oltre ai cinesi ci sono i russi «e Vladimir Putin, forte di una verginità coloniale russa in Africa, può atteggiarsi a moderno castigatore del neo-imperialismo occidentale». Ai cinesi e ai russi si aggiunge la Turchia neo-ottomana del sultano della Nato Erdogan, visitato di recente dallo stesso premier italiano Giorgia Meloni.
La vicenda, se non ci fossero di mezzo gli interessi energetici italiani, appare quasi comica. Meloni avrebbe chiesto a Erdogan di darci una mano in Tripolitania per frenare i flussi migratori. Ma nel novembre 2019 quando il generale Khalifa Haftar attaccava Tripoli siamo stati a guardare che la Turchia, con un limitato intervento militare, salvasse il «nostro» governo tripolino. I turchi firmarono allora un memorandum con libici per lo sfruttamento delle risorse del Mediterraneo tracciando, in barba a ogni Legge sul Mare, un confine che va dalle coste libiche a quelle turche, incuneandosi tra Grecia e Cipro. Per far capire chi comanda adesso, Erdogan manda i suoi militari sulle motovedette libiche regalate dall’Italia. Mentre il gasdotto Greenstream tra Italia e Libia, della portata di 10 miliardi metri cubi, ormai è ridotto a poco più di un decimo della sua capacità.
Estrattivismo a casa loro? Energie rinnovabili addio in Africa
Ma queste cose il nostro governo le sa? Le conosce perfettamente perché la nostra intelligence e quella dell’Eni informano quasi quotidianamente di quanto avviene sulla sponda Sud che nel 2011, con l’intervento militare franco-americano-britannico e la caduta di Gheddafi, è sfuggita alla nostra influenza. Accadde con il governo Berlusconi di cui oggi celebrano il nefasto trentennale della sua discesa in campo.
È anche grazie alla sua suprema imperizia che i francesi decisero di attaccare la Libia nel contesto delle cosiddette “primavere arabe”. Berlusconi, che in pompa magna aveva ricevuto a Roma in agosto Gheddafi, perse ogni credibilità internazionale e non sapeva cosa fare: nel ridotto del teatro dell’Opera di Roma passò la scottante questione al presidente Napolitano dicendo: «Presidente lei è il capo delle forze armate quindi decida». Fu così che poche settimane dopo l’Italia si unì ai raid aerei bombardando il nostro maggiore alleato nel Mediterraneo, quello che avevamo salvato persino dall’ira di Reagan e degli americani. Più o meno lo stesso di quel che facciamo adesso, andando a sparacchiare nel Mar Rosso contro gli Houthi yemeniti, senza neppure sapere chi sono e che sono stati bombardati per anni da sauditi e americani, anche con le bombe italiane fabbricate dai tedeschi in Sardegna.
Sono cose che gli africani sanno perfettamente perché la nostra credibilità sul Continente da allora è scesa a zero. Il generale egiziano Al Sisi neppure si presenta domani a Roma, sa perfettamente che proseguiamo nelle nostre consegne di armamenti e conta sul fatto che in questo Pese di sonnambuli ci siamo già dimenticati di Giulio Regeni, torturato e ucciso dai suoi poliziotti. Questa è la “nostra” Africa, lo specchio della nostra ignavia, il resto sarebbero sciocchezze se non ci fossero da prevedere nuovi conflitti e il tentativo di Giorgia Meloni, avamposto dell’Ue, di trovare un altro «posto al sole» tardo-coloniale per istituzionalizzare in Africa, dopo i tentativi criminali e falliti in Libia e Tunisia, un nuovo universo concentrazionario, modello Albania, di «posti sicuri» per i migranti
Commenta (0 Commenti)VERSO LE EUROPEE. Ho seguito con interesse il dibattito sul manifesto in vista delle prossime europee e da ultimo l’intervento di Michele Santoro. Considero assolutamente necessario fare ogni tentativo possibile, con lealtà e […]
Ho seguito con interesse il dibattito sul manifesto in vista delle prossime europee e da ultimo l’intervento di Michele Santoro. Considero assolutamente necessario fare ogni tentativo possibile, con lealtà e serietà, per costruire una lista per le elezioni, la più chiara e popolare possibile, per la pace e contro le guerre.
Un fronte pacifista coerente e credibile che si unisca intorno a un manifesto di pochi punti netti e forti: fuori l’Italia dalla guerra, stop all’invio di armi in Ucraina e in Israele, condanna dei crimini di guerra e del genocidio da parte dello Stato d’Israele contro il popolo palestinese, cessate il fuoco in Ucraina e Palestina, autodeterminazione del popolo palestinese a cui va garantito subito la nascita di uno Stato autonomo e indipendente. Porre fine al riarmo e firmare i trattati per la messa al bando delle armi nucleari. Impegnarsi per il progressivo superamento della Nato e interrompere la subalternità economica e militare europea agli Stati uniti che è cosa differente dall’amicizia ed alleanza tra i popoli.
Costruire un’Europa unita nelle diversità dal Portogallo alla Russia come auspicavano Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, per contribuire a realizzare il continente dei popoli per un mondo multipolare senza alcuna supremazia di nessun tipo se non quella della pace contro tutte le guerre.
Una lista per le pace non può essere disgiunta dalla giustizia sociale, economica e ambientale. Per realizzare pace e giustizia si deve dire basta all’Unione europea dell’austerità e dei patti di stabilità che soffocano i diritti fondamentali e la vita delle persone, ma consolidano vendita e traffico di armi, speculazioni finanziarie ed economiche, l’accumulazione della ricchezza in poche mani.
Quindi è necessaria un’Europa capace di redistribuire le ricchezze che favorisca la coesione sociale. Così come non è più eludibile una radicale svolta ambientalista, perché la distruzione del pianeta è strettamente connessa alle politiche di guerra e della prevalenza del capitale sulle persone e sulla natura.
Se penso alla lista per la pace penso anche a una forza che sia in grado di porre fine, con politiche di solidarietà internazionale e cooperazione decentrata, al più grande cimitero d’Europa dopo la seconda guerra mondiale che è divenuto il mar Mediterraneo. Per realizzare una lista per la pace sono necessari capacità, volontà, coraggio, passione, forza, innovazione in grado anche di suscitare entusiasmo. Ma non basta mettere insieme dirigenti di partito e di organizzazioni, si deve provare ad attivare partecipazione e interesse concreti per poi provare a candidare persone credibili e coerenti, con storie personali o collettive coerenti e credibili, perché tutti si dicono per la pace, contro le guerre, contro le mafie, contro le corruzioni e per l’acqua pubblica e poi sappiamo dove ci sono fiumi di parole e invece zero fatti.
In Europa la lotta è difficile perché ci vuole autonomia, competenza e coraggio per opporsi al sistema che ci ha portati sull’orlo della guerra nucleare, nell’abisso dei cambiamenti ecologici, nel baratro delle terribili disuguaglianze sociali ed economiche. Una lista per la pace che possa superare la soglia di sbarramento è necessaria per dare finalmente voce agli oppressi contro gli oppressori.
Si deve provare a costruire una lista in cui prevalgano le ragioni dell’unità pur nelle differenze ma con l’obiettivo vero di attuare la Costituzione antifascista e rispettare un programma netto e radicale. È un obiettivo che dovrebbe unire chiunque si collochi al di fuori del sistema e che vuole dimostrare anche nelle istituzioni che un’alternativa è possibile
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