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RIFORME. Nonostante il successo iniziale, sull’onda delle iniziative referendarie, la scelta maggioritaria non si è consolidata e, nel corso degli anni, una serie di riforme ci hanno consegnato un sistema misto che presenta squilibri di vario tipo

Quel modello fuori tempo massimo 

Confesso di essere stato un convinto sostenitore del «modello Westminster». All’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, quando la crisi del sistema dei partiti che si era formato nel dopoguerra stava per diventare irreversibile, siamo stati in molti a guardare alla più antica democrazia parlamentare dell’Occidente come un esempio da imitare.

Un governo forte, sostenuto da una maggioranza stabile, una competizione elettorale tra due partiti (o tra due alleanze) che si presentano agli elettori con piattaforme chiare e alternative, la possibilità di un’alternanza tra maggioranze di governo come meccanismo fisiologico di ricambio e di rinnovamento dell’offerta politica.

A dare un contributo decisivo alla mia convinzione fu la lettura di un saggio di Augusto Barbera pubblicato su Micromega (4/92). L’attuale presidente della Corte costituzionale era in quegli anni uno dei protagonisti del dibattito sulla riforma della Costituzione, e in quell’intervento, che si legge ancora oggi con profitto, delineava in modo chiarissimo le ragioni di fondo della scelta del modello Westminster, partendo proprio dalla crisi del sistema dei partiti. Barbera assumeva come un dato la tesi della «fine delle ideologie» novecentesche e la convergenza, da parte di tutte le forze politiche, su un «minimo comune denominatore» che rendeva obsoleta una competizione politica basata su fattori identitari.

Nella sua ricostruzione, la politica italiana si era finalmente laicizzata (uso un’espressione non sua, ma credo che essa catturi in modo efficace l’idea di fondo espressa in quel saggio), e questa novità imponeva un cambio di paradigma: l’abbandono del proporzionalismo per passare al maggioritario. L’obiettivo da realizzare era, secondo Barbera, quello di «un sistema politico che funzioni (per riprendere un’immagine di Duverger) come un trasformatore di energia, che raccoglie il consenso e lo trasforma in vincolo programmatico reale, e non come una macchina fotografica». Una prospettiva che, rafforzata dal richiamo all’esempio britannico, mi appariva allora straordinariamente efficace.

Come sappiamo, le cose non sono andate come auspicava Barbera. Nonostante il successo iniziale, sull’onda delle iniziative referendarie, la scelta maggioritaria non si è consolidata e, nel corso degli anni, una serie di riforme ci hanno consegnato un sistema misto che presenta squilibri di vario tipo, non solo sul piano del sistema elettorale, ma anche su quello della rappresentanza (la riduzione del numero dei parlamentari, un’ipotesi che nel 1992 Barbera giustamente criticava) e delle autonomie (la riforma del titolo quinto).

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Guerra e diritti, cambiare programma

Nel frattempo, buona parte delle certezze che facevano da sfondo al ragionamento di chi si ispirava al «modello Westminster» si sono sgretolate, tanto che oggi appare azzardato evocarlo ancora, come fa qualcuno, come ispirazione per nuovi interventi di riforma della Costituzione e del sistema elettorale.

La crisi non è locale, ma globale, e riguarda sia l’offerta politica, che è mutata in modo significativo in tutte le democrazie occidentali (con la crisi delle socialdemocrazie, anche nella loro versione aggiornata dalla Terza Via, la mutazione profonda dei partiti conservatori, che si sono spostati molto più a destra di quanto si potesse immaginare negli anni Novanta, e l’ascesa e la capacità di attrazione di nuove forze della destra radicale, che in molti casi dettano l’agenda anche a quelle che tradizionalmente avremmo descritto come riformiste o moderate), sia le politiche, che oggi riportano in primo piano la questione della giustizia sociale, che appariva superata nel clima di ottimismo del post ’89, e indicano la salienza senza precedenti di quella ambientale.

Persino nel paese dove è nato, il «modello Westminster» è stato messo in discussione, con esiti che appaiono ancora incerti, ma che portano a escludere un ritorno al passato. Uno dei più autorevoli costituzionalisti britannici, Vernon Bogdanor, ha osservato che, a partire dal 1997, ci sono stati almeno quindici cambiamenti costituzionali di primaria importanza nel Regno Unito, e che l’impatto che essi sono destinati ad avere rende del tutto ragionevole parlare di una nuova costituzione, che sta prendendo forma sotto i nostri occhi, ma il cui esito finale è difficile da prevedere. Per fare solo un esempio, particolarmente rilevante per il nostro tema, a partire dal 2009 sono impiegati nel Regno Unito almeno quattro sistemi elettorali, oltre a quello tradizionale del first-pass-the-post, e questo mette in discussione persino l’assunto che il sistema maggioritario ancora in uso per l’elezione del parlamento sia il complemento naturale della costituzione.

Pensare per modelli è un metodo essenziale per le scienze sociali, ma l’esperienza di questi anni dovrebbe invitarci alla cautela nell’uso dei modelli. Soprattutto quando essi vengono isolati dal contesto storico e sociale (come purtroppo tendono a fare i giuristi)

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PREDRAG MATVEJEVIC. Dall'archivio. Riproponiamo brani dell’intervista uscita il 9/2/2014 all'intellettuale morto nel 2017

«Serve il giorno dei “ricordi”, per la dignità di un dolore corale» Predrag Matvejevic

È sempre critico il giudizio di Predrag Matvejevic – l’autore di Breviario mediterraneo che ama definirsi «jugoslavo» – sull’istituzione del Giorno del Ricordo (10 febbraio 2004).

Che bilancio va fatto di questo “giorno”?
Che non bisogna smettere di raccontare la verità. André Gide diceva: «Bisogna ripetere nessuno ascolta». Ognuno in questa epoca sembra chiuso nella propria sordità. Il bilancio non è positivo, se a celebrare il precedente Giorno della memoria alla Risiera di San Sabba, il lager nazista al confine tra due popoli, accorrono anche i post-fascisti. E ogni anno abbondano fiction e rappresentazioni che invece di raccontare il pathos collettivo che riguarda almeno due popoli, riducono tutto alla sola tragedia delle vittime italiane. Ho scritto sulle vittime delle foibe anni fa in ex Jugoslavia, quando se ne parlava poco in Italia. Ero criticato. Ho sostenuto gli esuli italiani dell’Istria e della Dalmazia condividendo il loro cordoglio nazionale per le vittime innocenti. L’ho fatto prima e dopo aver lasciato il mio paese natio e scelto, a Roma, una via fra asilo ed esilio. Continuo anche ora che sono ritornato a Zagabria. Credevo comunque che le polemiche e le strumentalizzazioni fossero finite. Invece no.

C’è un caso che ricorda?
Il caso del 2008 dello scrittore di confine Boris Pahor che ha fatto della coralità del dolore la sua materia, raccontando la tragedia dei crimini commessi dai fascisti in terra slava e il lascito di odio rimasto. Di fronte all’onorificenza offertagli dal presidente della repubblica Giorgio Napolitano, insorse dichiarando che l’avrebbe rifiutata se dalla presidenza italiana non arrivava una chiara presa di posizione contro i silenzi sugli eccidi di Mussolini.

Che cosa fu in realtà il crimine delle Foibe?
Sì, le foibe sono un crimine grave e la stragrande maggioranza di queste vittime furono proprio gli italiani. Ma per la dignità di un dolore corale bisogna dire che questo delitto è stato preparato e anticipato anche da altri, che non sono sempre meno colpevoli degli esecutori dell infoibamento. La tragica vicenda è infatti cominciata prima, non lontano dai luoghi dove sono stati poi compiuti quei crimini atroci. Il 20 settembre 1920 Mussolini tiene un discorso a Pola (una scelta non casuale). E dichiara: «Per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre; di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara». Ecco come entra in scena il razzismo, accompagnato dalla pulizia etnica.

Gli slavi perdono il diritto che prima, al tempo dell’Austria, avevano, di servirsi della loro lingua nella scuola e sulla stampa, il diritto della predica in chiesa e persino quello della scritta sulla lapide nei cimiteri. Si cambiano massicciamente i loro nomi, si cancellano le origini, si emigra Ed è appunto in un contesto del genere che si sente pronunciare, forse per la prima volta, la minaccia della foiba. È il ministro fascista dei Lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si era affibbiato da solo il nome vittorioso di Giulio Italico, a scrivere già nel 1927: «La musa istriana ha chiamato Foiba degno posto di sepoltura per chi nella provincia d’Istria minaccia le caratteristiche nazionali dellIstria» (da Gerarchia, IX, 1927) aggiungendo anche i versi di una canzonetta dialettale già in giro: «A Pola xe l’Arena, La Foiba xe a Pisin».

Le foibe sono dunque un’invenzione fascista. E dalla teoria si è passati alla pratica. L’ebreo Raffaello Camerini, che si trovava ai lavori coatti in questa zona durante la seconda guerra mondiale, ha testimoniato nel giornale triestino Il Piccolo (5. XI. 2001): «Sono stati i fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari». La vicenda «con esito letale per tutti» che racconta questo testimone italiano, fa venire brividi.

Cosa risveglia il “Giorno del Ricordo” nell’ex Jugoslavia?
La storia (con la S maiuscola) aggiunge altri dati poco conosciuti in Italia. Uno dei peggiori criminali dei Balcani è il duce (poglavnik) degli ustascia croati Ante Pavelic. Il loro campo di Jasenovac è stato una Auschwitz in formato ridotto: lì il lavoro micidiale veniva fatto a mano, mentre i nazisti lo facevano in modo industriale. Il criminale Pavelic con i suoi seguaci, poté godere negli anni Trenta dell’ospitalità mussoliniana a Lipari, dove ricevevano aiuto e corsi di addestramento dai più rodati squadristi.

Le camicie nere hanno eseguito numerose fucilazioni di massa e singole. Tutta una gioventù ne rimase falciata in Dalmazia, in Slovenia, in Montenegro. Senza dimenticare la catena di campi di concentramento, dall’isola di Mamula all’estremo sud dell’Adriatico, fino ad Arbe, di fronte a Fiume. a dove spesso si transitava per raggiungere la Risiera di San Sabba a Trieste e, in certi casi, si finiva ad Auschwitz e soprattutto a Dachau. I partigiani non erano protetti in nessun paese dalla Convenzione di Ginevra e pertanto i prigionieri venivano subito sterminati come cani. E così molti giunsero alla fine della guerra accaniti: infoibarono anche gli innocenti, non solo di origine italiana. Singole persone esacerbate, di quelle che avevano perduto la famiglia e la casa, i fratelli e i compagni, eseguirono i crimini in prima persona e per proprio conto.

La Jugoslavia di Tito non voleva che se ne parlasse. Noi abbiamo cercato di parlarne. Oggi ne parlano purtroppo a loro modo soprattutto i nostri ultra-nazionalisti, una specie di neo-missini slavi. Ho sempre pensato che non bisognerebbe costruire i futuri rapporti in questa zona sui cadaveri seminati dagli uni e dagli altri, bensì su nuove esperienze culturali. Per questo auspico la proclamazione congiunta del «Giorno dei Ricordi»

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FOIBE. Lo sguardo sugli anniversari che ricorrono a 80 anni dalla Liberazione di Roma, città medaglia d’oro al valor militare, aiuta a raccontare molto dell’uso pubblico del passato, al tempo del governo degli eredi del Msi, e della traiettoria della memoria storica in Italia

31 luglio 1942, soldati italiani fucilano cinque abitanti del villaggio di Dane in Slovenia, foto Museo storico di Lubiana31 luglio 1942, soldati italiani fucilano cinque abitanti del villaggio di Dane in Slovenia, foto Museo storico di Lubiana

Lo sguardo sugli anniversari che ricorrono a 80 anni dalla Liberazione di Roma, città medaglia d’oro al valor militare, aiuta a raccontare molto dell’uso pubblico del passato, al tempo del governo degli eredi del Msi, e della traiettoria della memoria storica in Italia.

Il 24 gennaio 1944, in piena occupazione nazista, due antifascisti condannati a morte evasero dal carcere di Regina Coeli grazie ad una straordinaria operazione della Resistenza socialista. Erano Alessandro Pertini e Giuseppe Saragat e sarebbero divenuti entrambi presidenti della Repubblica, incarnando la catarsi antifascista dell’Italia dopo gli anni del regime.

Dal Quirinale, nel nome della comune esperienza partigiana, i due costruirono un rapporto di amicizia e rispetto con Josip Broz Tito, a sua volta comandante della Resistenza jugoslava, l’unica in Europa a liberare da sola il proprio Paese dall’occupazione nazifascista.

In ragione della necessità di instaurare buoni rapporti tra i due Stati (dopo l’aggressione fascista ed i crimini di guerra perpetrati dal regio esercito italiano nei Balcani) e della strategica collocazione geopolitica tra i «non allineati» di Belgrado nel quadro della Guerra Fredda, Tito venne insignito da Saragat della Gran Croce al Merito della Repubblica italiana il 2 ottobre 1969.

L’avversione dell’estrema destra fu assai vivace e culminò con i due attentati dinamitardi contro la scuola slovena di Trieste e al cippo confinario a Gorizia in occasione del viaggio di Stato di Saragat a Belgrado del 2-6 ottobre 1969. A compierli fu la cellula veneta del gruppo Ordine Nuovo, la stessa che il 12 dicembre successivo realizzò la strage di Piazza Fontana. Nei luoghi dove vennero rinvenute le bombe i neofascisti lasciarono dei volantini firmati da un sedicente Fronte anti-slavo che recitavano «no al viaggio di Saragat in Jugoslavia» e «no alle foibe».

Oggi è il partito Fratelli d’Italia a rivendicare l’intenzione di revocare il riconoscimento a Tito disconoscendo l’operato del primo Presidente partigiano.

La politica di amicizia italo-jugoslava proseguì e, ancora dal Quirinale, fu Alessandro Pertini ad incontrare Tito nell’ottobre 1979 e poi a recarsi in visita ufficiale per i suoi funerali l’anno seguente. Una presenza che scatenò, di nuovo, la reazione scomposta dell’estrema destra la cui eco è risuonata qualche tempo fa attraverso un falso propalato da stampa e social-media che rappresentarono la foto del Pertini affranto ai funerali di Enrico Berlinguer, piegato sulla bara del segretario del Pci, spacciandola per un omaggio al capo di Stato jugoslavo nel giorno delle sue esequie.

Già rivelato dalla scelta del 10 febbraio come data celebrativa (anniversario del Trattato di Pace di Parigi del 1947), in Italia l’uso strumentale della storia praticato dalla destra nel giorno del ricordo (che dovrebbe rievocare le violenze delle foibe insieme alla «più complessa vicenda del confine orientale») finisce per richiamare non solo il passato remoto del fascismo storico, con il suo corollario di crimini di guerra in Jugoslavia rimasti impuniti in ragione della realpolitik della Guerra Fredda anticomunista, ma anche il passato prossimo dell’Italia repubblicana che mantenne nel suo seno un’estrema destra sempre ostile alla Costituzione ed alla sua radice fondativa: la Resistenza.

Dopo aver attraversato la catarsi antifascista negli anni di Saragat e Pertini oggi assistiamo, per mano degli eredi del Msi, ad una rivalsa che disconosce ciò che dal vertice della Repubblica i due presidenti partigiani avevano costruito.

Così l’annunciato museo delle foibe assume le sembianze dell’ennesimo tentativo di riscrittura del passato finalizzata al governo del presente, che trasforma il tempo in cui l’Italia è stata aggressore in un ricordo vittimistico che cancella responsabilità ed eredità del regime fascista. Un passo che allinea sempre più la nostra contemporaneità al disarmo culturale volto a spogliare la Repubblica del suo vestito antifascista e a relegare la discussione pubblica sulla riemersione odierna delle peggiori istanze regressive (largamente presenti nel corpo della società) a un vacuo dibattito sull’applicazione della misura giudiziario/penale della sanzione al neofascismo.

Un approccio che, in tempi di crisi della democrazia, disperde e cancella dalla sfera pubblica quel patrimonio di analisi politico-culturale che permise di individuare le ragioni storiche alla base (in Italia prima di ogni altro luogo) della nascita, dello sviluppo e dell’ascesa di un regime reazionario di massa.

Una lettura dei caratteri di fondo di quel fenomeno che fu il lascito di figure come Piero Gobetti («il fascismo come autobiografia della nazione»), Antonio Gramsci («il sovversivismo delle classi dirigenti») e Aldo Moro («la radice del totalitarismo fascista affonda nel corpo sociale della nazione, là dove sono privilegi che non vogliono cedere il passo alla giustizia»). Eredità storiche, queste sì, da ricordare

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COMMENTI. Il ritiro del regolamento sui pesticidi di Ursula von der Leyen vuol dire «Incentivi e libertà di inquinare»: così i gattopardi del potere riaffermano la sostanza e la natura del sistema
La protesta dei trattori

L’annuncio di Ursula von der Leyen sul ritiro del regolamento sui pesticidi ha il sapore di un prodotto scaduto, e al pari tempo di una mela avvelenata. Che sia una merce senza valore è testimoniato bene dal voto contrario al regolamento di gran parte del Parlamento europeo. Anche quanti avevano sostenuto le buone intenzioni del documento “From farm to fork” sono stati costretti a votare contro un regolamento arrivato morto in Parlamento dopo il lavorio delle multinazionali e delle associazioni agricole corporative.

Ma sarebbe errato pensare che la presidente si sia limitata a vendere una patacca ai manifestanti. Il suo messaggio è un imbroglio, ma ha anche il sapore della complicità con i settori più retrivi del sistema. Breve, molto breve è stata la vita coraggiosa di Ursula von der Leyen. “Incentivi e libertà di inquinare” con questa formula della Presidente i gattopardi del potere riaffermano la sostanza e la natura del sistema .

In questo contesto la protesta non solo è un’occasione persa per cambiare realmente le cose, e paradossalmente nel tempo produrrà danni ancor più seri e profondi all’intero sistema agricolo e non solo.

Che sia un’occasione persa è del tutto evidente. La grande difficoltà, la crisi del mondo agricolo e dei produttori è reale e profonda. Una crisi che trova la sua prima ragione nella contraddizione irriducibile fra la produzione di un bene comune essenziale, quale è il cibo e il cosiddetto libero commercio. Una contraddizione che ha prodotto e produce enormi difficoltà economiche dei produttori, abbandono delle campagne, crisi demografica delle zone rurali, frammentazione sociale e collasso ambientale.

Una crisi che la speculazione dell’intermediazione e l’invadenza dei soggetti forti dell’agro-industria rendono ancora più grave. I prezzi sono fissati dai giganti della grande distribuzione e alla fine chi viene penalizzato è l’agricoltore che è alla base della filiera costretto a vendere a prezzi bassi e sotto ricatto. Una crisi figlia di una burocrazia asfissiante che non tiene in alcuna considerazione il fatto che in Italia più del 70% delle aziende sono piccole e medie.

Infine una crisi aggravata dell’uso improprio della Pac, infatti l’80% dei fondi europei vengono destinati al 20% dei grandi proprietari. Ridurre questo ordine di problemi al pannicello caldo degli incentivi è come buttare il bambino e tenere l’acqua torbida.

La mela diventa poi avvelenata, quando la Von der Leyen abbandona il green deal e apre le porte alla libertà di intossicare produttori, cittadini e suolo.

Il green deal non è una delle opzioni, dovrebbe essere la via maestra per dare un futuro all’agricoltura liberandola giorno dopo giorno dalla chimica di sintesi. Agricoltura che dovrebbe avere un ruolo fondamentale nella produzione di cibo, come nel contrasto al cambiamento climatico. Il suolo è una spugna dove viene assorbita il doppio dell’anidride carbonica che è in atmosfera. Trasformare il suolo in una discarica chimica, spingerlo verso la desertificazione, privarlo della materia organica è un autentico colpo al cuore all’equilibrio ecologico del pianeta.
Per affrontare i grandi interrogativi di questa nostra epoca dalla sicurezza alimentare al cambiamento climatico, dalla coesione sociale ad un nuovo e virtuoso equilibrio città-campagna è fondamentale il protagonismo e la partecipazione di gran parte del mondo agricolo, ma perché questo sia possibile è decisivo il riconoscimento sociale ed economico di chi vive e lavora la terra.

Le manifestazioni dei “trattori” hanno fatto esplodere il problema, ma le risposte non solo sono insufficienti, ma riportano indietro la ruota della storia, sono tre passi indietro.

Siamo ad un bivio, e mettere la testa sotto la sabbia sarebbe un grave errore. Questo è il momento della chiarezza e non dei tatticismi. E’ il momento per affermare il legame agricoltura\ambiente e operare per passare dalle reti alle alleanze – anche fra molto diversi – al fine di offrire una nuova prospettiva strategica a chi opera e vive di agricoltura che non è solo produzione, ma relazione con la natura ed il pianeta tutto.
O si afferma un nuovo percorso veramente sostenibile del sistema di produzione agricola e si pone l’agricoltore al centro di questo progetto o diversamente si continuerà sulla strada distruttiva dello sfruttamento intensivo dei campi e si condanneranno “ i produttori agricoli” alla marginalità economica e sociale. Come accade ora .

* Presidente del Biodistretto della via Amerina e delle Forre (Viterbese)

** Presidente del Biodistretto dell’Appennino Bolognese

 
 
 
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Continuiamo così. Il parlamento approva la proroga per inviare armi all’Ucraina ancora un altro anno. Il Pd vota a favore: continua lo sforzo bellico e non parte quello diplomatico. Ma il conflitto è impantanato e Zelensky silura il capo di stato maggiore che lo ha criticato

L’aula della Camera durante la discussione del disegno di legge sull’invio di armi all’Ucraina foto di Angelo Carconi/Ansa L’aula del Senato - foto di Antonio Masiello/Getty Images

Facciamo l’ipotesi che il Pd, alla testa di un’opposizione unita (qui già l’ipotesi traballa) segni un punto in quella che evidentemente considera la partita politica più importante del momento, la conquista di uno spazio maggiore nella televisione pubblica. Bene, da queste casematte guadagnate – o più realisticamente difese – quali contenuti intende diffondere il Pd, tanto diversi da quelli che quotidianamente ci propone tele-Meloni?

Prendiamo tre questioni che a noi sembrano le più urgenti, tutte e tre hanno a che fare con le guerre.

Ieri la camera dei deputati ha approvato la proroga per tutto il 2024 delle procedure eccezionali necessarie per continuare ad armare l’Ucraina.

Per un altro anno si mettono tra parentesi le leggi ordinarie che vietano di cedere armi agli stati in guerra e obbligano in ogni caso a informare sempre dettagliatamente e pubblicamente il parlamento sul materiale trasferito all’estero. Otto spedizioni segrete si sono già succedute e tra pochi giorni saranno due anni dall’invasione russa. I gruppi 5 Stelle e Sinistra/Verdi hanno votato contro ma il Pd ha votato a favore (con quattro eccezioni) dunque giudica che si possa continuare così. Quando ormai la possibilità che l’Ucraina armata dall’occidente sconfigga la Russia e la ricacci indietro è esclusa da

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VIALE MAZZINI. All’inizio del 2012, governo Monti, l’allora segretario del Pd Bersani tentò la mossa del cavallo. O meglio, chiese risolutamente al presidente del consiglio di disarcionare i partiti dal cavallo di […]
Elly Schlein al sit-in per una corretta informazione alla Rai, foto Cecilia Fabiano /LaPresse Elly Schlein al sit-in per una corretta informazione alla Rai - Cecilia Fabiano /LaPresse

All’inizio del 2012, governo Monti, l’allora segretario del Pd Bersani tentò la mossa del cavallo. O meglio, chiese risolutamente al presidente del consiglio di disarcionare i partiti dal cavallo di viale Mazzini accelerando la riforma della governance Rai. In ogni caso, avvertì, i dem non avrebbero partecipato alla spartizione della tv pubblica e (contando su un’inesistente sponda dell’Udc), avrebbero bloccato le nomine.

Finì che la riforma adombrata da Monti non si fece e Bersani se la cavò invitando alcune associazioni a indicare i nomi dei consiglieri d’amministrazione che spettavano al Pd (furono scelti Gherardo Colombo e Benedetta Tobagi).

Il «fuori i partiti dalla Rai», invocazione sacrosanta, è prima diventato un logoro slogan e ormai sembra una barzelletta anche perché nel frattempo a fare una riforma ha pensato Matteo Renzi, rafforzando la presa della maggioranza e dello stesso governo sulla televisione pubblica.

E gli alti lai dei 5 Stelle contro il sistema, le caste, le scatolette di tonno e le lottizzazioni di ogni sorta hanno raggiunto il massimo dei decibel quando Giuseppe Conte, a novembre 2021, annunciò l’aventino pentastellato dai programmi Rai perché al Movimento, nella nuova tornata di nomine, non era stato lasciato nemmeno un lotto degno di questo nome.

Anche l’astinenza da talk show durò poco, ma Conte cercò di attutire l’impatto della repentina retromarcia con l’ennesima promessa di riforma della tv pubblica.

Insomma, il dossier Rai richiederebbe massima circospezione, valutando tutte le possibili trappole, pena il rischio di finire, volenti o nolenti, fagocitati dal grande blob.

L’attuale segretaria del Pd Elly Schlein ha deciso tuttavia di affrontare la sfida, ma prima ancora di scendere sul campo di battaglia, con il sit-in di ieri sera a viale Mazzini, si è ritrovata su un terreno cosparso di mine. Dunque: Schlein la settimana scorsa ha annunciato il sit-in contro la propaganda di regime, invitando tutte le opposizioni, in difesa della libertà di stampa e di «un sevizio pubblico che non può essere TeleMeloni».

Tutte le opposizioni unite contro gli invasori telecomandati da palazzo Chigi? Macché.

Conte ha subito dato forfait tuonando contro l’«ipocrisia» perché l’occupazione della Rai è fenomeno antichissimo e in effetti praticato a destra e sinistra, nonché peggiorato dalla riforma del Pd renziano, e ha dunque ritirato fuori la parola magica, «riforma».

Renzi ha tacciato a sua volta Conte di ipocrisia perché in effetti hanno lottizzato anche i grillini, e oltretutto sulle nomine meloniane il consigliere 5S si è limitato a una sospetta astensione. E così al sit-in, forse per fare un dispetto a Conte e spargere un altro po’ di zizzania tra lui e Schlein, oltre a Fratoianni e Bonelli di Avs e a Magi di +Europa è andata anche Italia viva con Maria Elena Boschi. Che ha ringraziato la leader del Pd per la «scelta libera, forte e coraggiosa», l’ha abbracciata e baciata, ma non ha chiesto una riforma: del resto è ancora in vigore quella di Renzi.

Calenda non è andato a manifestare, però lui invece sì, ha chiamato a raccolta intorno a un tavolo per provare a scrivere finalmente le regole della nuova governance.

Oltre al danno la beffa: ieri pomeriggio a viale Mazzini manifestava anche Unirai – il nuovo “sindacato” della destra – per difendere i giornalisti della tv pubblica melonizzata dagli attacchi dell’opposizione. Del resto Giorgia Meloni, la stessa leader di Fratelli d’Italia arrivata a palazzo Chigi per combattere l’occupazione da parte di «un intollerante sistema di potere» in nome del «merito», è riuscita poi proprio da palazzo Chigi a rivendicare la contro-occupazione, pardon il «riequilibrio». Insomma, adesso tocca “a noi”.

E così Elly Schlein ieri sera ha certo manifestato, e certamente con parecchie ragioni, contro TeleMeloni, ma ha anche dovuto invitare tutti a fare autocritica (non si può sempre dire «io non c’ero»), promettendo: «Lavoreremo insieme per una riforma del servizio pubblico». Come e quando chissà. Al governo c’è saldamente la destra, l’attuale opposizione va pure in ordine sparso tirandosi frecciate, ma davanti al cavallo immerso nel buio di viale Mazzini si torna a invocare: «Fuori i partiti dalla Rai». E si canta «Bella ciao».

Proprio come Amadeus e Marco Mengoni a Sanremo. Mentre al presidio dell’Unirai si sfregano le mani. Lì è tutta un’altra musica, si suona l’Inno di Mameli: Fratelli d’Italia

 
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