FRANCIA. Non appena sono stati resi noti i risultati del secondo turno delle elezioni parlamentari francesi si è scatenata una ridda di opinioni e commenti che però non devono oscurare le […]
Non appena sono stati resi noti i risultati del secondo turno delle elezioni parlamentari francesi si è scatenata una ridda di opinioni e commenti che però non devono oscurare le due lezioni fondamentali da trarre da queste elezioni. La prima, preoccupante ma ricca di potenzialità, è che la Francia sta attraversando una crisi politica e istituzionale senza precedenti. La seconda, positiva ma fragile, è la conferma che la cultura repubblicana è ancora ben radicata nel cuore dei francesi.
La nuova Assemblea eletta dopo la «dissoluzione» decisa da Emmanuel Macron ha confermato la tripartizione delle forze politiche. Ognuna di queste forze ha registrato una vittoria e una sconfitta. La sinistra è la prima famiglia politica, ma ha solo una maggioranza relativa. Il centro macronista ha ottenuto un risultato inaspettatamente alto visti i risultati delle elezioni europee, ma ha perso un gran numero di deputati rispetto alla precedente legislatura. Infine, l’estrema destra non è mai stata così forte ma, contro tutte le previsioni, non è riuscita a conquistare né la maggioranza assoluta, né quella relativa. Il problema non è sottolineare l’incapacità dei francesi di dare vita a un governo tecnico, come avrebbero potuto fare gli italiani, o di creare un’ampia coalizione, come sarebbero in grado di fare solo i tedeschi. Queste analisi modeste essenzializzano i popoli e non reggono a un esame più serio. Dimenticano che sono le istituzioni a determinare le regole politiche. La Quinta Repubblica francese si basa su una diarchia del potere esecutivo e può funzionare correttamente solo con maggioranze chiare. Questo sembra impossibile, hic et nunc.
Il difficile funzionamento del sistema parlamentare e la crisi del principio di autorità – più che mai oggi il Re è nudo – sono avvenimenti che non hanno precedenti storici. Sono il culmine della crisi organica che la Francia sta attraversando da diversi anni. La crisi si è manifestata con l’irruzione nella storia di una grande massa di persone che fino a quel momento erano rimaste passive (i gilet gialli) e continua ad esprimersi nel declino della classe media che crede a torto o a ragione nelle virtù del sistema politico. Infine, c’è la crisi dell’egemonia della classe dirigente.
Mutatis mutandis, le analisi di Gramsci nel settimo Quaderno del carcere offrono una stimolante interpretazione di questa situazione. Emmanuel Macron sogna senza dubbio un’uscita dalla crisi attraverso un «cesarismo senza Cesare», cioè attraverso una riorganizzazione delle élite per mezzo di un’ampia coalizione il cui punto di equilibrio sarebbe la sua formazione politica e che escluderebbe l’estrema destra e la sinistra, stigmatizzata come «estrema sinistra». Il vecchio sogno dell’orleanismo politico!
Vista con le lenti della storia politica italiana l’attuale situazione francese ricorda i tempi di Cavour quando c’era una Camera eletta sulla base del suffragio censitario, la cui missione era quella di realizzare il connubio tra le famiglie politiche liberali favorevoli al Risorgimento ed escludeva i neri (le forze clericali) e i rossi (i mazziniani) dall’arena politica. Ma quel tempo è definitivamente passato. Nell’attuale situazione francese un’operazione del genere sarebbe puramente politicistica e, cosa più grave, metterebbe in discussione il secondo insegnamento di queste elezioni: la riaffermazione della cultura repubblicana.
Un’altra volta ancora la «disciplina repubblicana» è riuscita a bloccare l’estrema destra. Gli elettori di destra e di centro, ma soprattutto quelli di sinistra – gli unici ad avere ricevuto indicazioni chiare e inequivocabili – hanno espresso il loro voto per il candidato opposto a quello del Rassemblement National. Con questa scelta, la stragrande maggioranza dei francesi ha dimostrato il proprio attaccamento all’identità francese nella misura in cui essa deriva dai principi filosofici repubblicani: un francese è colui che rispetta il contratto sociale, cioè i valori della Repubblica. Allo stesso tempo, è stata rifiutata un’identità basata su un approccio naturalistico al concetto di «popolo». Questa teoria ritiene che un francese sia solo colui che fa parte della comunità di sangue. Oggi la cultura politica repubblicana resta quindi la cultura politica dominante. Conserva la forza nazional-popolare che ha avuto sin dalla metà del XIX secolo.
Ma fino a quando durerà? Questa è la grande domanda che tutti i cittadini devono porsi, in primo luogo quelli che occupano posizioni di responsabilità. Come ai tempi dell’affare Dreyfus, dobbiamo raccogliere la sfida della storia costruendo un governo di difesa repubblicana. Il Nuovo Fronte Popolare, riaffermando senza ambiguità la sua cultura repubblicana, ha colto questa profonda esigenza. Ora bisogna dargli i mezzi per rendere meno dolorosa la «questione sociale», consentendogli di applicare i punti essenziali del suo programma. Questo è l’unico modo per sanare una società francese fratturata. Agire diversamente porterebbe la Francia, come ha scritto Gramsci, in «interregno (dove) si verificano i fenomeni morbosi più svariati».
*Docente di storia contemporanea all’Università di Rouen, autore della biografia Antonio Gramsci: Vivre, c’est résister, Dunod.
(traduzione di Roberto Ciccarelli)