GOVERNO E MEDIA . Trentacinque anni fa, dopo l’omicidio del rifugiato sudafricano Jerry Masslo, avvenuto nell’agosto del 1989 a Villa Literno, il 7 ottobre di quell’anno, un vasto schieramento di forze sociali promosse la […]
Alcuni momenti della manifestazione dei lavoratori braccianti ieri a Latina - foto di Andrea Sabbadini
Trentacinque anni fa, dopo l’omicidio del rifugiato sudafricano Jerry Masslo, avvenuto nell’agosto del 1989 a Villa Literno, il 7 ottobre di quell’anno, un vasto schieramento di forze sociali promosse la prima grande manifestazione contro il razzismo. Quella data segna la nascita di un movimento antirazzista per i diritti delle persone di origine straniera e contro ogni forma di discriminazione.
A distanza di 35 anni, la condizione del mondo dell’immigrazione è peggiorata e, nonostante il numero di migranti sia cresciuto (da poche centinaia di migliaia del 1989 a più di 5 milioni oggi), abbiamo visto diminuire la visibilità e il protagonismo di migranti e rifugiati, in parallelo a un aumento della politicità dell’argomento e di un uso sempre più strumentale a fini elettorali.
La scarsa presenza nel dibattito pubblico sull’immigrazione dei protagonisti, insieme all’uso aggressivo di argomenti razzisti, ha portato a una progressiva disumanizzazione delle persone, permettendo a politici e giornalisti spregiudicati di usare argomenti esplicitamente razzisti senza alcuna vergogna. Questa condizione ha autorizzato chiunque a considerare stranieri, migranti, rifugiati, lavoratori e lavoratrici come numeri, la cui vita evidentemente non vale nulla.
Le affermazioni di Renzo Lovato, datore di lavoro di Satnam Singh, sulla responsabilità del lavoratore morto «per mancanza di attenzione», cancellano le circostanze che
Leggi tutto: La costruzione del nemico migrante - di Filippo Miraglia
Commenta (0 Commenti)L'APPELLO. La crudeltà a Gaza e in Cisgiordania, ha oltrepassato ogni limite. Crediamo spetti agli ebrei della diaspora e a chiunque abbia a cuore il futuro di Israele e dei palestinesi appoggiare chi in Israele chiede le dimissioni del governo Netanyahu
Tel Aviv, 22 giugno, manifestazione anti-Netanyahu - Ap
Il livello di violenza e crudeltà in Palestina, nella striscia di Gaza e in Cisgiordania, ha oltrepassato da molto tempo ogni limite. Ci eravamo espressi a gennaio, in occasione del Giorno della Memoria, e lo facciamo di nuovo, a distanza di cinque mesi, perché l’inerzia e l’indifferenza di fronte alla strage della popolazione palestinese decimata e affamata è insopportabile.
Da mesi, la risposta di Israele all’aggressione di Hamas si è trasformata in guerra di sterminio contro il popolo palestinese. L’azione del governo Netanyahu sta infliggendo al Paese un vulnus che peserà per generazioni.
Il nome stesso di Israele, già compromesso, desta ora ostilità e disprezzo crescenti nel mondo, crea isolamento e insicurezza, e fomenta l’antisemitismo.
Crediamo che mai come ora spetti agli ebrei della diaspora e a chiunque abbia a cuore il futuro di Israele e dei palestinesi appoggiare le donne e gli uomini che in Israele, da settimane, si vanno ormai mobilitando non più solo per la liberazione degli ostaggi, ma chiedendo anche le dimissioni del governo Netanyahu. Sosteniamo gli israeliani che vogliono uscire dal tunnel di strage e distruzione in cui è stato trascinato il Paese.
Si cessi il fuoco immediatamente e sia adottato un piano che ponga fine alle sofferenze, ora.
Francesco Moshe Bassano, Guido Bassano, David Calef, Paola Canarutto, Giorgio Canarutto, Franca Chizzoli, Beppe Damascelli, Annapaola Formiggini, Paola Fermo, Sabetay Fresko, Bice Fubini, Nicoletta Gandus, Adriana Giussani Kleinefeld, Bella Gubbay, Joan Haim, Cecilia Herskovitz, Francesca Incardona, Stefano Levi Della Torre, Annie Lerner, Gad Lerner, Bruno Montesano, Guido Ortona, Giacomo Ortona, Bice Parodi, Mario Davide Sabbadini, David Terracini, Renata Sarfati, Eva Schwarzwald, Susanna Sinigaglia, Sergio Sinigaglia, Stefania Sinigaglia, Jardena Tedeschi, Mario Tedeschi, Fabrizia Termini, Claudio Treves, Roberto Veneziani, Micael Zeller, Marco Weiss.
Irene Agovino
Maria Alampi
Massimo Arena
Mietta Albertini
Silvana Appiano
Gabriele Aronov
Paola Azzali
Claudio Azzimonti
Renzo Bacci
Alessandro Balducci
Nadia Baher
Danilo Barbieri
Stefano Bartolini
Saverio Benedetti
Daniele Benaroio
Elena Bolgiani
Gianfranco Bottoni
Ugo Brunoni
Andrea Bellelli
Gabriella Belvisi
Marina Benveniste
Anthony Gad Bigio
Laura Bosio
Angela Bresciani
Piero Budinich
Mariarosa Caldara
Giovanna Cardarelli
Alberto Castelli
Alessandro Cassin
Paola Cavallari
Luisa Cetti
Anna Chiarloni
Renata Colorni
Andrea Corbella
Giuliana Cunéaz
Albertina Cuppini
Guido Celentano
Lodovica Danieli
Antonella D’Arma
Maria De Giglio
Stefano de Crescenzo
Anna Grazia Del Monte
Iris Deutsch
Eleonora Dicati
Luciana Di Battista
Dario Di Nepi
Marco Di Castro
Donatella Di Cesare
Peggy Eskenazi
Giusi D’Urso Hermes
Mariannina Failla
Alessandra Elda Falcone
Deanna Farneti Cera
Carlo Fei
Lorenzo Feltrin
Assunta Ferrari
Maria Teresa Finzi
Alberto Fiz
Ida Finzi
Andrea Fioroni
Enrico Franco
Marco Francesconi
Roberta Foresta
Susanna Fresko
Michele Frova
Andrea Fubini
Bianca Maria Gabrielli
Elena Gaetti
Sylvie Galante
David Gentili
Arianna Ghilardotti
Franco Maria Giovannini
Giuseppe Girgenti
Lorenzo Gobbi
Maria Rita Grazioso
Gabriella Guerci
Roberto Gulli
Pietro Ioly Zorattini
Marco Gulli
Elena Gulli,
Paola Greco
Surya Greco
Simonetta Heger
Micol Incardona
Patrizio Innamorati
Helena Janeczek
Paolo Jedlowski
Emilio Jona
Fabrizio La Rosa
Stefania Jahier
Pietro David Jona Lasinio
Giovanni Jona Lasinio
Sergio Lattes
Giovanni Leone
Paola Leoni
Danielle Levy
Nathan Levi
Maurizio Lichtner
Fernanda Lupinacci
Giovanna Majno
Giorgio Marcon
Amelia Massetti
Maria Pia May
Guy Meltzer
Elisabetta Menetti
Nicoletta Meroni
Giorgio Mieli
Sara Modigliani
Guido Moltedo
Veronica Menghi
Chiara Milano
Giorgio Mosci
Piero Morpurgo
Gaddo Morpurgo
Anna Masturzo
Norma Naim
Alessandro Natalini
Nicoletta Nechama Alberio
Piero Nissim
Gianni Oropallo
Angelo Palozzo
Lorenzo Pedol
Andrea Pedol
Ghita Pedol
Francesco Pedol
Mario Pedol
Rosangela Pesenti
Andrea Parrino
Elisabetta Pellarin
Marina Piazza
Tamar Pitch
Rossella Perugi
Roberta Persieri
Marco Pierro
Annamaria Piussi
Stefania Portaccio
Simona Podestà
Stefano Poli
Antonio Prete
Francesca Romana Preziosi
Luciano Pulcrano
Alessandro Ramolini
Linda Ester Ravenna
Luciana Rebecchi
Giuseppe Reitano
Daniela Radaelli
Fabrizio Repetto
Patrizia Rigoni
Marco Riva
Chiara Rossi
Micol Roubini
Dario Davide Sabbadini
Luciana Scandiani
Fausto Sacerdote
Emilio Sacerdoti
Massimiliano Salvini
Roberto Saviano
Claudia Scott
Giovanni Scalabrini
Paul Sears
Margherita Sestieri
Giorgio Seveso
Marc Silver
Ralph Siegel
Benedetta Silj
Scilla Sonnino
Alessandro Soria
Mila Spicola
Ivana Staudacher
Eleonora Stillitani
Larry Stillman
Daniela Scotto di Fasano
Paolo Stucchi
Arturo Tagliacozzo
Roberta Tazzioli
Luciana Tavernini
Davide Terracini
Gianna Terni
Ruben Tolentino
Letizia Tomassone
Simona Toscano
Costantino Trapani
Anna Tumiati
Gianna Urizio
Andrea Urbini
Alida Vitale
Enrica Valabrega
Adriana Valabrega
Sandro Ventura
Elena Vivarelli
Maria Zioni
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Alla protesta dei lavoratori sikh a Latina di sabato scorso - LaPresse
La drammatica vicenda di Satnam Singh, il bracciante morto qualche giorno fa a Latina, ci ha sbattuto in faccia una semplice verità: nell’epoca dell’intelligenza artificiale vi sono ancora vaste aree dell’economia italiana che generano profitti sfruttando in modo barbaro lavoratrici e lavoratori. Le parole del presidente Mattarella esprimono meglio di altre lo sdegno e la rabbia di molti, ma purtroppo, temo, non di tutti.
Ma lo sdegno non basta e se giustamente è stato da molti invocato il pieno rispetto e applicazione della legge 199/2016 contro il caporalato (che ha inasprito pene e individuato strumenti contro chi beneficia dello sfruttamento), agire esclusivamente la repressione, come è evidente, non è sufficiente. Serve una radicale e al contempo semplice scelta, normativa e di modello economico, volta a prevenire tutto ciò, distinguendo alla radice le imprese serie che rispettano leggi e contratti, e i malfattori.
L’esperienza fatta in questi anni nel settore dell’edilizia potrebbe venire in soccorso ed essere, con i necessari aggiustamenti, riproposta per il settore agricolo.
Mi riferisco al Durc di Congruità, introdotto con Decreto 143 dal Ministro del Lavoro, Andrea Orlando, nel 2021 recependo l’accordo tra tutte le associazioni datoriali del settore (Ance, Cooperative, Artigiani, Confapi) e sindacati edili.
In meno di tre anni, il Durc di Congruità (che altro non è che una certificazione – obbligatoria per tutti i lavori edili pubblici indipendentemente dall’importo e per tutti i lavori privati di valore superiore ai 70mila euro – che indica, per i diversi tipi di lavori da fare e per i vari importi, un numero minino, «congruo» appunto, di lavoratori da denunciare) ha certificato (dati Cnce) oltre 40,6 miliardi di euro di lavori e oltre 270mila cantieri, individuando circa duemila imprese irregolari (a fronte di decine di migliaia regolari).
Risultato: l’emersione indotta di 100mila lavoratori prima totalmente o parzialmente sconosciuti a Inps, Inail e fisco (con vantaggi per tutti anche per le ristrette disponibilità finanziarie dello Stato).
E allora perché, come chiesto anche dalla Cgil proprio il giorno della manifestazione a Latina, sabato scorso, non replicarlo nel settore agricolo? Soprattutto perché non farlo di fronte al fatto che già, in tutte le regioni, vengono periodicamente redatte delle tabelle (dette «ettaro colturali») che, per ogni tipo di coltivazione (grano, fragole, pomodori…), per ogni tipo di terreno (pianeggiante, collinare, montuoso), valutando anche i diversi macchinari, individuano un numero minimo di ore/lavoro per ettaro?
Si, perché questi dati ci sono, simulazioni ed indicatori anche, ma questi sono oggi usati per accedere ad alcuni sgravi (come il gasolio) o per distinguere un agriturismo da un B&B, ma non per certificare la regolarità (o se vogliamo la congruità) di un’impresa agricola.
Basterebbe, con tutti gli accorgimenti del caso e coinvolgendo i sindacati dei lavoratori agricoli, adattare questi indicatori e porre l’obbligo (come è in edilizia) che per vendere i prodotti della terra, così come sono o trasformati, essi devono provenire da imprese agricole in regola con «il Durc di congruità agricolo».
Trattando i venditori (mercati o grandi supermercati che siano) o i trasformatori (Barilla, Ferrero, Cirio, per esempio) come in edilizia si trattano i committenti, ovvero sia imponendo loro di acquistare prodotti agricoli solo da aziende con il Durc di congruità agricolo, pena il sequestro della merce e la loro responsabilità in solido con multe e sanzioni.
Sarebbe una cosa facile ed immediata da fare che spezzerebbe ogni convenienza e che darebbe qualità (e prezzi più giusti) all’intera filiera, con un effetto di legalità e di emersione indiretta potentissimo. E sono certo, come è stato in edilizia, che tante imprese serie non avrebbero nulla da obiettare, anzi avrebbero tutta la convenienza a contrastare così forme di concorrenza sleale che spingono l’intero settore verso il basso.
Ecco una proposta concreta, cari ministri Calderone e Lollobrigida, che potreste fare vostra, coinvolgendo da subito i tanti bravi rappresentanti dei braccianti organizzati da Cgil, Cisl e Uil. Ecco un’iniziativa politica e parlamentare anche per le tante forze politiche in piazza sabato scorso, per dare continuità ad una battaglia in nome dei tanti, troppi sfruttati delle nostre campagne, stranieri e italiani, spesso anche donne. Certo non sarebbe la soluzione a tutti i problemi (a partire da quella trappola che incentiva illegalità e clandestinità – e quindi ricatto – chiamata legge Bossi-Fini) ma sicuramente un segnale nella direzione giusta. Quella di affrontare i problemi per quello che sono, senza voltarsi, per opportunismo o connivenza poco interessa, dall’altra parte.
*L’autore è il segretario generale della Fillea Cgil
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QUALCOSA IN COMUNE. Questa destra si può battere e si può sconfiggere anche il suo progetto di cambiare i connotati della repubblica
Elly Schlein, Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni durante il corteo promosso dall'Associazione Libera contro le mafie. Roma, 21 marzo 2024 - ANSA/ANGELO CARCONI
Una tripletta nelle principali sfide – Firenze, Bari, Perugia – e, a conti fatti, una tripletta anche tra europee e primo e secondo turno delle amministrative. Che Elly Schlein abbia reali motivi di soddisfazione per l’esito delle elezioni di giugno lo dicono i numeri. Quelli assoluti del voto per Strasburgo, che ha visto il partito di Giorgia Meloni crescere in percentuale ma perdere 700mila elettori mentre il Pd ha guadagnato sia in percentuale che in termini assoluti, e quelli del numero di città (in tutto sei capoluoghi di regione) in cui il centrosinistra, nelle sue diverse articolazioni, ha vinto: in tre casi, Cagliari, Perugia e Potenza, le amministrazioni uscenti erano di centrodestra.
Ma se il risultato puntella senza dubbio la segretaria alla guida sia del Partito democratico che di un campo dentro il quale anche Giuseppe Conte sembra ormai aver deciso di piantare le tende seppure, a malincuore, da comprimario (uscire da questo campo, del resto, significherebbe per l’ex premier consegnarsi a mani alzate ai “puristi” del Movimento pronti a impallinarlo), è la stessa Elly Schlein a segnalare involontariamente il punto debole del centrosinistra: «Le città hanno bocciato la destra che governa e mandato un messaggio chiaro a Giorgia Meloni», sottolineava ieri la leader dem.
A Firenze trionfa Funaro, destra toscana al tappeto
Le città, appunto. I centri più piccoli, non necessariamente «Italia profonda», continuano a guardare prevalentemente a destra. Non è una novità e non è una tendenza solo italiana o solo europea. Ma è comunque segno che nei famosi “territori”, dove spesso agiscono anche rendite di posizione e trasformismi, il centrosinistra ha ancora molto lavoro da fare.
A Perugia esplode la festa per Vittoria Ferdinandi sindaca
Tra le città capoluogo di regione, il segnale più interessante viene da Perugia, dove il centrodestra governava da dieci anni. La candidata sindaca vincitrice, Vittoria Ferdinandi, non solo è riuscita a mettere insieme un’alleanza larghissima, ma ha cementato un’alleanza vera – non un mero cartello elettorale – tra partiti, comitati, associazioni in un confronto continuo con la cittadinanza su temi concreti. E forse non è un caso che Ferdinandi, a fronte di un calo dell’affluenza tra il primo e il secondo turno di 5 punti percentuali, abbia riportato alle urne tutti i suoi elettori. Dato allarmante dei ballottaggi è infatti il crollo della partecipazione, scesa dal 62,83% del 9 giugno al 47,71% di ieri. Il 15% dei votanti al primo turno ha pensato di avere fatto già abbastanza allora.
Bari, Leccese supera il 70% e archivia mesi di divisioni: «Vince una coalizione unita»
Alle opposizioni al governo Meloni (quelle che pensano davvero a sconfiggere la destra più che agli sgambetti tra leader, a Matteo Renzi il giochino stavolta è andato malissimo), l’inizio dell’estate porta una boccata d’aria fresca: questa destra si può battere e si può sconfiggere anche il suo progetto di cambiare i connotati della repubblica. Ma, come ribadiscono sia i dem che Avs, altra forza in piena salute, e ora ammette anche un ridimensionato Giuseppe Conte, va costruita quell’unità non di facciata che gli elettori di centrosinistra confermano di premiare. Opponendo al disegno di Meloni e alleati progetti, visione e un po’ di fantasia per non ricadere nei vecchi e logori schemi
Commenta (0 Commenti)AUTONOMIA. De Luca, Emiliano, Giani, Todde danno una disponibilità. Per l’Emilia-Romagna Bonaccini su Repubblica ci dice che a causa della sua prossima partenza per l’Europa la questione è allo studio
L'italia-all'asta di Luciano Fabro, 2008
Che accade dopo la definitiva approvazione dell’autonomia differenziata? Sono in evidenza sia un referendum abrogativo ex articolo 75 della Costituzione, sia ricorsi in via principale alla Corte costituzionale da parte di una o più regioni. Abbondano polemiche e fakenews, su cui è bene fare chiarezza. Il referendum può essere chiesto, dopo la promulgazione e pubblicazione in gazzetta ufficiale della legge, da 500mila elettori o da 5 consigli regionali. La richiesta deve essere presentata entro il 30 settembre, per votare tra aprile e giugno 2025. Se il termine fosse superato, si voterebbe non prima del 2026.
Si annunciano mobilitazioni per la raccolta delle firme. Ma non sfugge che i tempi sono ristretti. Lo sarebbero anche di più se il callido Calderoli riuscisse da Palazzo Chigi a ritardare anche di poco la pubblicazione. Assume dunque rilievo la richiesta da parte di 5 regioni. Le abbiamo?
De Luca, Emiliano, Giani, Todde danno una disponibilità. Per l’Emilia-Romagna Bonaccini su Repubblica ci dice che a causa della sua prossima partenza per l’Europa la questione è allo studio. Per la legge 352/1970 sul referendum la richiesta spetta al consiglio regionale. La domanda è: la partenza di Bonaccini impedisce al consiglio regionale di chiedere il referendum?
La risposta è no. Nel caso di scioglimento anticipato (articolo 32 statuto) l’assemblea rimane in vita fino alle successive elezioni, e può certamente compiere gli atti urgenti e indifferibili, ad esempio perché assoggettati a termini. Come è appunto il 30 settembre. Che è poi un termine ultimo. Il consiglio regionale potrebbe deliberare anche il giorno dopo la pubblicazione della legge.
I diritti dei cittadini non sono quelli delle regioni
Lo stesso vale per il ricorso in via principale. In caso di cessazione anticipata dalla carica del presidente subentra il vicepresidente (art. 32.3 bis statuto). L’esecutivo rimane in vita e funziona. E siamo di fronte a un termine – 60 giorni dalla pubblicazione – che abilita ad adottare l’atto di impugnativa anche in regime di ordinaria amministrazione. Evitiamo dunque dubbi inutili. Potrebbero indurre il sospetto che il vero problema sia la poca voglia di schierarsi contro, con il supporto di fragili argomentazioni. Tra le quali si segnala quella della legge Calderoli come costituzionalmente necessaria, perché in diretta attuazione della Costituzione, e come tale sottratta in tutto o in parte all’abrogazione in via referendaria e persino alla dichiarazione di illegittimità da parte della Corte costituzionale.
Un errore. Cancellando la legge Calderoli non si lede l’autonomia differenziata, che rimane tutelata dall’art. 116.3 della Costituzione. Quindi, non è in alcun senso «necessaria». La prova è nel fatto che al tempo del primo tentativo della ministra Stefani con il governo gialloverde nemmeno si parlava di legge quadro, introdotta solo successivamente. Mentre un dubbio sull’ammissibilità del referendum può venire per il collegamento alla legge di bilancio. L’inammissibilità non è certa, perché può mostrarsi strumentale e non giustificato un collegamento al bilancio laddove contestualmente si prescrive l’invarianza di spesa. Ma il dubbio rimane.
Come rimangono i dubbi «politici», che concorrono a sollecitare la presentazione comunque dei ricorsi in via principale. Ad esempio, per l’effetto negativo di un mancato raggiungimento del quorum della maggioranza degli aventi diritto, particolarmente arduo in un contesto di forte astensionismo dal voto. O per i tempi del voto popolare relativamente lunghi, che lascerebbero una finestra per l’avvio immediato dell’autonomia differenziata in materie di rilievo. Non a caso, Il presidente della Calabria Occhiuto (Forza Italia) teme per il commercio con l’estero, materia immediatamente devolvibile e già nel mirino degli aspiranti secessionisti. Occhiuto ci mostra che l’autonomia differenziata introduce un modello – largamente inedito per il nostro paese – di competizione, e probabile conflittualità, tra regioni. In cui i territori più deboli potrebbero solo soccombere.
Una realtà per nulla colta dai commentatori che – come Feltri su La Stampa, Velardi sul Riformista e Libero, Cottarelli su Repubblica – non vanno oltre banalità e luoghi comuni ormai fuori tempo. Sono gli ultimi giapponesi. Persino l’Europa si aggiunge ai molti e diversi mondi che in Italia si sono espressi contro l’autonomia differenziata. L’opinione pubblica è già spaccata, e nel voto europeo ha dato messaggi chiari. Da tutto questo è intelligenza politica ripartire.
Commenta (0 Commenti)Sembra che l’apparato di regole, obblighi di trasparenza contabile, rappresentanza di settore lasci abbastanza zone grigie nelle quali i tanti imprenditori agricoli come i Lovato possono muoversi e i tanti Satnam Singh lavorare e morire nell’indifferenza
Nelle campagne di Latina non ci sono soltanto lavoratori fantasma, ma anche aziende fantasma. Per chi lavorava davvero Satnam Singh? E a chi arrivavano gli ortaggi che coltivava nei campi? Attraverso quali canali sono approdati, forse, nei nostri piatti di abitanti di Roma che mangiano i prodotti dell’Agro Pontino?
Ho promesso agli ascoltatori di Prima Pagina di provare a capirlo, ma ho scoperto che la vera notizia è confrontarsi con una nebbia di informazioni, dettagli imprecisi, risposte negative. Quindi posso farvi il racconto di un tentativo, che comunque permette - credo - di scoprire qualcosa.
Sappiamo che c’entra la famiglia Lovato: Antonello Lovato è indagato dalla Procura di Latina perché ha abbandonato il povero Satnam mutilato di un braccio invece di accompagnarlo in ospedale e provare a salvarlo.
Il padre di Antonello, Renzo Lovato, è quello che alle telecamere della Rai ha parlato di “una leggerezza” da parte di Satnam. Insomma, è colpa sua, del morto.
Quindi nei campi c’erano sia Antonello che Renzo Lovato.
L’azienda si chiama Agrilovato.
Ma è davvero quella per cui lavorava Satnam? I sindacati stanno provando a capirci qualcosa, Stefano Morea con la Flai Cgil è andato sul posto, ha chiesto informazioni. Per ora circolano solo notizie frammentate: ci sarebbe una azienda titolare del terreno, un’altra che lo gestisce, rimpalli di responsabilità.
Fatto sta che sul posto c’erano i due Lovato, padre e figlio. E allora faccio una visura alla loro azienda, la Agrilovato. Trovo un bilancio così strano che proprio non riesco a capirlo. ...
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