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I LAVORI AL SENATO. Il 10 gennaio 2024 meriterà un richiamo speciale nella storia dell’autonomia differenziata. Le opposizioni hanno proposto di invertire l’ordine del giorno anteponendo la trattazione del disegno di legge di iniziativa […]

Roberto Calderoli, foto LaPresse Roberto Calderoli - LaPresse

Il 10 gennaio 2024 meriterà un richiamo speciale nella storia dell’autonomia differenziata. Le opposizioni hanno proposto di invertire l’ordine del giorno anteponendo la trattazione del disegno di legge di iniziativa popolare al testo di Calderoli. La maggioranza ha detto no.

È troppo forte la pressione dello scambio perverso tra autonomia e premierato, che cementa la destra a palazzo Chigi. Ha ragione De Cristofaro, quando dice che lo scambio non si può fare «né sulla pelle dei cittadini, e nemmeno sulla pelle di questo parlamento». Scambio invece che il leghista Romeo ritiene utile e fisiologico.

Di più. Il governo ha collegato il disegno di legge Calderoli al bilancio. Una «vergognosa violazione delle regole» per il senatore Giorgis (e per Boccia, strumentale e disonesta), dato che si certifica l’assenza di oneri sul bilancio. Il fine è stato continuare il lavoro sul testo anche durante la sessione di bilancio. Con l’effetto collaterale di aprire a un rischio inammissibilità per un eventuale referendum abrogativo. E comunque con l’effetto ultimo di vanificare l’obiettivo posto dall’articolo 74 del regolamento del senato, che è – come dicono il senatore Patuanelli e le senatrici Maiorino e Musolino – di portare in aula la volontà popolare espressa nel disegno di legge.

Ma, per il senatore Lisei e lo stesso Presidente Balboni, una lettera ha impedito l’ordinato svolgersi del lavoro in Commissione, con l’inopinato arrivo in aula di un disegno di legge non ancora approfondito. Ebbene, sono colpevole. È una lettera scritta e sottoscritta da me, come presidente del Coordinamento della democrazia costituzionale, sostenitore e sponsor della raccolta delle firme. Essendo scaduti i termini previsti, ho sollecitato l’approdo della legge di iniziativa popolare in aula.

Perché? Quale callido disegno?

Nessuno, ma solo il già citato articolo 74 del regolamento. La mia lettura è che la norma offre all’iniziativa popolare un percorso speciale, privilegiato e garantito, affinché l’istituzione si debba esprimere in modo diretto e specifico su quello che volontà popolare propone. L’inciampo per la Commissione non è venuto da un Don Chisciotte di passaggio, ma dalla forza della regola. Nel merito, la maggioranza decide. Ma assumendo una precisa responsabilità su punti determinati. Lo stesso sarà per le opposizioni.

Quali i punti per la nostra proposta di legge di iniziativa popolare? Quattro questioni, su cui le opposizioni dovranno curare che l’istituzione si esprima. La prima. È compatibile con qualsivoglia accezione di unità del paese un assemblaggio di regioni e province ognuna delle quali è titolare di un proprio regime giuridico e di rapporti finanziari potenzialmente irreversibile? O va riscritto il modello dell’articolo 116, fondato sull’intesa tra stato e regione? La seconda. I livelli delle prestazioni da garantire per tutti devono essere «essenziali» o «uniformi»? Il punto è già emerso come centrale nell’intervento del senatore Magni. La terza. Ci sono limiti alle materie regionalizzabili? Va rivisto l’elenco delle materie di competenza concorrente di cui all’articolo 117.3? Il punto è già emerso nel testo Calderoli, con lo sbilenco affidamento al presidente del Consiglio del potere di porre limiti alla trattativa con la regione ai fini dell’intesa. Il quarto. Si deve o no prevedere una clausola di supremazia della legge statale, come esiste per lo stato centrale in tutti i sistemi genuinamente federali?

La legge di iniziativa popolare e le firme che ha raccolto sono state un successo. Hanno portato le questioni nell’istituzione, compattando le opposizioni su un tema di grande rilievo, e con i tempi che corrono non è poco. Inoltre, apre sul dopo. Il senatore Boccia non solo definisce la filosofia di paese sottesa all’intervento di Romeo un patchwork, ma dice quel che tutti ormai vedono: «Non ci sarà un centesimo per riequilibrare le diseguaglianze». Queste sono tra le diffide da consegnare ai parlamentari della destra, perché sappiano che un conto arriverà nel prossimo turno elettorale. Su tutto il percorso delle riforme andrà trovata la sinergia tra il lavoro parlamentare e quello di territorio. Un risultato che non si poteva raggiungere solo con la piazza o chiedendo per il disegno di legge Calderoli un ritiro che non sarebbe mai avvenuto.

Così va impostata la resistenza popolare alle riforme pensate e volute dalla destra. Oggi, conta poco che il presidente Balboni richiami 40 emendamenti delle opposizioni al testo Calderoli. Sa bene che non hanno cambiato molto la sostanza originaria. Il mastino leghista ha fatto buona guardia. Se però, come dicono, il più mastino di tutti i mastini è quello napoletano, sappia il ministro che da queste parti ce ne sono, pronti a mordere e a non mollare la presa

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MEDIO ORIENTE. Oltre Gaza, dallo Yemen allo Stretto di Bab al Mandeb fino a Suez. Come l’Occidente sta contribuendo a un’altra guerra senza avere tentato di evitarla

 Una manifestazione Houthi a Sana'a - Ansa

Li chiamano «ribelli» ma occupano la capitale Sanaa da quasi dieci anni, governano il 70% del Paese e controllano l’esercito yemenita: alleati dell’Iran – come Hezbollah, Hamas, il regime siriano di Assad e le milizie sciite irachene – minacciando la navigazione dallo stretto di Bab el Mandeb fino a Suez, sono il nuovo «nemico perfetto» degli Usa e dell’Occidente. Tutto questo senza averci mai parlato o negoziato e considerato le loro istanze. Non volevamo la guerra allargata in Medio Oriente ma stiamo contribuendo a un altro conflitto senza avere tentato di evitarlo.

Anche agli Houthi applichiamo una logica perdente, dal momento che dopo l’invasione russa dell’Ucraina l’Iran non solo non è più isolato ma conta sull’appoggio di Russia e Cina, membri del Consiglio di sicurezza e di quelle alleanze del Sud del mondo che stanno cambiando gli equilibri mondiali.

GLI HOUTHI stanno risucchiando gli Usa – e forse anche noi – in nuovo conflitto mediorientale che non riguarda solo il Mar Rosso ma anche la terraferma dove gli Stati uniti sono paladini di un’unica sovranità, quella israeliana, cosa chiarissima già con l’attacco all’Iraq del 2003, l’inizio del caos.

La deterrenza americana è un’illusione di stabilizzazione, anzi provoca esattamente il contrario. Perché gli Houthi sono intervenuti in Mar Rosso? I «ribelli» dicono che vogliono colpire le navi dirette in Israele e hanno anche lanciato attacchi contro il porto israeliano di Eilat, così come nel settembre 2019 avevano bersagliato gli impianti petroliferi sauditi.

La mancata reazione americana a protezione del regno wahabita allora fu uno dei grandi motivi di dissenso tra Washington e Riad che pure dalla guerra aperta agli Houthi, lanciata nel 2015, è uscita pesantemente sconfitta. Un fallimento visto che Riad aveva pesantemente bombardato e con gli Emirati aveva assoldato decine di migliaia di mercenari.

Se da una parte gli Houthi oggi intendono colpire le navi dirette nei porti israeliani, dall’altra forse il vero motivo è che intendono tenere in scacco l’Arabia saudita e la comunità internazionale per mostrare la loro influenza militare e ottenere in futuro un riconoscimento politico internazionale che finora non è mai arrivato.

Ma chi sono? Nel dicembre del 2009 credo di essere stato uno dei primi a conoscerli da vicino. La guerra contro il regime del presidente Saleh – poi ucciso dagli stessi Houthi nel 2017 in un tentativo di fuga – era già in corso e i sauditi pagavano i soldati yemeniti appoggiandoli anche con l’aviazione. Eccoli come mi apparvero allora. Erano una trentina, appostati sulla strada per Sada, la loro roccaforte storica.

Ad Harf Surfian, sullo sfondo di montagne con rocce nere e taglienti che preludono alla frontiera saudita, si mostrarono mentre ripiegavano nelle ultime sacche di resistenza, braccati dai soldati e dalle tribù fedeli al presidente. Un portavoce disse che avrebbero ripreso la città «molto presto» mentre «altri gruppi di guerriglieri – affermava – erano lanciati nel distretto di Jawf per attaccare i sauditi al confine».

INDEBOLITI e stanchi, gli Houthi di Harf Surfian non portavano però segni evidenti della battaglia, come se fossero usciti ancora indenni da questi santuari di roccia scura, crateri e fortificazioni millenarie e dove applicavano la tattica del “mordi e fuggi”. Armi ne avevano poche, a tracolla gli Ak 47 con bandoliere colorate e giberne militari. Ma niente ordigni pesanti, soltanto qualche lanciagranata Rpg appoggiata sul cassone dei pickup Toyota. Quasi tutti indossavano le kefiah a scacchi che incorniciavano volti duri, provati, tra loro combattenti esperti ma anche ragazzi di 14-15 anni o forse meno.

Gli Houthi già allora combattevano per Teheran anche una sorta di guerra per procura oltre che di liberazione. Eppure – fu quello che mi spinse ad attraversare lo Yemen – nessuno si interessava alla questione Houthi, un’altra delle grandi sottovalutazioni dei conflitti contemporanei. Gli Houthi appartengono alla minoranza zaydita e furono anche manovrati per contrastare l’ascesa dei predicatori wahabiti appoggiati dai sauditi.

Poi, quando ebbero acquisito un certo potere rivendicativo, si ribellarono facendo adepti nelle regioni del Nord più tradizionalista, dove ancora oggi non digeriscono la rivoluzione del ‘62 che abbatté l’imamato millenario. Il clan famigliare degli Houthi se ne sente in qualche modo l’erede rivendicando come Seyyed (i religiosi dal turbante nero) una discendenza diretta da Maometto.

Il conflitto locale degli Houthi ha dunque una dimensione religiosa, culturale, geopolitica e territoriale. Ma da isolato che era si è trasformato in una crisi internazionale collegata a problemi regionali. Nata all’inizio degli anni ’90, la ribellione rimane uno degli elementi chiave della situazione yemenita. Gli insorti hanno rappresentato il principale avversario delle forze governative sostenute da Arabia saudita ed Emirati.

DI NATURA TRIBALE e regionale, il movimento Houthi ha a lungo giustificato la propria ribellione con il desiderio di porre fine alla marginalizzazione dello Yemen nord-occidentale. A questo si aggiunge la difesa della minoranza religiosa che rappresentano, lo zaydismo, una corrente inclusa, con più di qualche dubbio degli islamologi, nello sciismo. La loro è stata un’avanzata anche violenta, spesso anche indiscriminata contro i civili, e alla devastante coalizione guidata da Riad, gli Houthi hanno opposto l’implacabile logica della ritorsione, non esitando a utilizzare bambini-soldato e a ricorrere al terrore contro ogni voce di dissenso.

Qual è la possibile evoluzione di questo conflitto? Gli Houthi puntano nel conflitto Israele-Hamas a ridurre la pressione militare israeliana su Gaza e intanto tengono sotto scacco soprattutto l’Arabia saudita, mettendo Riad in una posizione scomoda, proprio mentre negoziava per un cessate il fuoco.

Riavvicinandosi all’Iran con la mediazione cinese (i pasdaran armano e addestrano gli Houthi), i sauditi speravano di raggiungere un compromesso. Ma ora prevale la logica delle armi e i sauditi con l’attacco anglo-americano temono, come molti altri Stati della regione, una guerra maggiore e senza freni

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SCENARI. Negli Anni 70 esistevano ben 22 aliquote di prelievo sul reddito, con la più bassa al 10% e la più alta che arrivava al 72%. Oggi sono appena 3 con la più alta crollata al 43%

Fisco, serve almeno una «rotazione». Per esempio arrestando i capitali

 

Come fronteggiare il ritornante liberismo guerrafondaio, prono verso i ricchi e autoritario coi poveri, che di nuovo dilaga nel mondo e che in Italia è diligentemente rappresentato da Meloni, soci e camerati vari?

Per cominciare, sarebbe utile comprendere che questa ulteriore torsione politica verso destra non è accidentale. Essa trae la sua forza dalle tendenze di fondo del capitalismo contemporaneo, verso una disuguaglianza sempre crescente e una concentrazione del capitale e del potere in sempre meno mani. Queste violente tendenze sono ormai apertamente riconosciute anche da diversi grand commis delle istituzioni, i quali ammettono che per contrastarle servirebbero azioni «di forza» come non se ne vedono da mezzo secolo.

Nel dibattito lanciato dal manifesto sulla necessità che la sinistra non vada al traino della destra e la smetta di giocare sempre e solo di rimessa, è stato ricordato come persino Romano Prodi osi dichiarare che contro una tale onda di iniquità «ora serve non dico la rivoluzione ma qualcosa di radicale». In effetti tra le élites c’è chi si spinge addirittura oltre. In un dibattito con il sottoscritto, l’ex capo economista del Fondo monetario internazionale Olivier Blanchard ha sostenuto che l’ingiustizia sociale che ci tocca oggi fronteggiare è di tale portata da richiedere una «rivoluzione della politica economica».

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Certo, in questo bel paese addormentato la parola «rivoluzione» suscita sempre un certo imbarazzo, comunque venga declinata e persino quando sia evocata da specchiati cardinali dell’establishment.

Ci si potrebbe allora accontentare: se dalle nostre parti l’opposizione non può fare una «rivoluzione», almeno compia una «rotazione» copernicana. Dove per rotazione intendiamo qui una tersa autocritica, verso il liberismo autoritario che pure il centrosinistra ha avallato negli anni passati. Gli esempi, purtroppo, sono numerosi.

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Basti notare le regole sul diritto di sciopero o gli indici di tutela del lavoro calcolati dall’Ocse: per un trentennio sono sempre andati nella direzione dell’indebolimento della classe lavoratrice, quasi indipendentemente dal colore dei governi che si avvicendavano. A quando una svolta, ossia una «rotazione» della linea politica?
Oppure si pensi alle privatizzazioni, ancora oggi celebrate da larga parte dell’arco parlamentare. Come riconosciuto anche dalla Corte dei conti, il più delle volte sono state occasioni di guadagno speculativo per azionisti e faccendieri molto più che reali stimoli all’efficienza produttiva. Cosa si attende prima di avviare una «rotazione» rispetto alla consueta politica bipartisan delle svendite di Stato?

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Un esempio ulteriore, lampante come pochi, è la politica tributaria. Negli anni Settanta esistevano ben 22 aliquote di prelievo fiscale sul reddito, con la più bassa al 10% e la più alta che arrivava al 72%. Oggi sono appena 3 con la più alta crollata al 43%, senza contare gli speciali favori ai redditi da capitale.

Sappiamo che a questa accanita distruzione del principio costituzionale di progressività delle imposte hanno contribuito anche le forze democratiche. Pure di recente, col sostegno agli ulteriori ritocchi al prelievo sui capitali promosso dal governo Draghi.

Il problema è che la «rotazione» politica verso un ritorno alla progressività fiscale è oggi ostacolata dalla libera circolazione dei capitali a livello internazionale. In sostanza, se oggi alzi le aliquote su profitti e interessi, il capitale si sposta dove il prelievo è più basso o addirittura nullo. Specialmente nei paradisi fiscali, inclusi quelli «di fatto» situati nell’Unione europea.

Per fortuna una soluzione esiste: arrestare le libere scorribande internazionali di capitali, continuamente a caccia di nuove opportunità di elusione del fisco e di sfruttamento del lavoro e della natura. In un altro dibattito con il sottoscritto, fu proprio Prodi ad appoggiare entusiasta questa soluzione. Il presidente Prodi se la sentirebbe oggi di confermare la sua adesione a rinnovate forme di controllo dei capitali? E le forze di opposizione?

Insomma, se la destra ignobilmente cerca un capro espiatorio nell’arresto dei migranti, la sinistra dovrebbe invece arrestare i capitali. Sarebbe non una «rivoluzione» ma di certo una «rotazione» radicale: l’unica svolta realmente in grado di contrastare le inique tendenze di questo tempo durissimo

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PACE E GUERRA. Il Comune ha pensato di proibire la proiezione del film "Il testimone", una pellicola apertamente filo-russa

A Bologna il Pd gira un altro film

 

Ciò che sta accadendo in queste settimane a Bologna può essere rivelatore di quanto accadrà nei prossimi mesi in Italia, con un Partito democratico lanciato verso il baratro in cui rischia di trascinare le attuali opposizioni parlamentari. In un centro sociale comunale, affidato in gestione, era stato messa in cartellone la proiezione di un film russo, “Il testimone”.

Un film che non ha ancora visto nessuno ma che, a quanto si dice, è apertamente filo-russo e anti-ucraino. Per quanto propagandistica, l’iniziativa poteva essere criticata e magari contestata in loco. Il Comune, invece, ha pensato di proibire la proiezione, adducendo in una nota che il centro in questione «è uno spazio affidato in convenzione affinché siano perseguite finalità di carattere pubblico, e non altre. Questo rende radicalmente incompatibile ogni attività di propaganda». Una posizione alquanto discutibile visto che in molti casi si tengono iniziative, in spazi comunali, che possono essere definite di «propaganda», come ad esempio la recente presentazione del libro di Mario Adinolfi, leader del Popolo della Famiglia, intitolato “Contro l’aborto, le 17 regole per vivere felici” tenutasi in una sala di quartiere.

Un libro apertamente propagandista anti-abortista, in contrasto con una legge dello Stato. Non si capisce, dunque, perché la proiezione dei film in questione violi i regolamenti comunali più di altre iniziative simili, se non ammettendo che si sia voluto applicare una censura. Il che lascia pensare che l’Amministrazione comunale voglia intervenire sulle iniziative pubbliche che si svolgono nei locali di sua proprietà (ma, allora, non si capisce perché la propaganda anti-abortista sì e quella filo-russa no).

La vicenda, però, non è finita lì. Il consigliere comunale Davide Celli, dei Verdi, con delega al benessere animale, è intervenuto in Consiglio affermando di essere contrario ad ogni forma di censura e interessato a vedere il film, pur riconoscendo che si tratta di propaganda. Non è bastato che Celli abbia rigettato l’accusa di essere pro-Putin: la sua dichiarazione ha portato il sindaco Matteo Lepore a espellere “seduta stante” i Verdi dalla coalizione, accusandoli di difendere i pro-Putin «per un pugno di voti».

In realtà, il film che il Pd sta girando a Bologna è un altro, e la mossa di Lepore rispetta quel copione. Già insofferenti per una delega al benessere animale che è rimasta disattesa, i Verdi hanno di recente criticato la giunta comunale per le sue scelte sulla gestione del patrimonio arboreo – tagli indiscriminati di alberi – e sul consumo di suolo. Sulla stessa questione dell’allargamento del Passante autostradale – che prevede l’estensione a 18 corsie della tangenziale di Bologna – sul quale la giunta ha espresso il parere favorevole le posizioni erano divergenti da tempo.

Il fatto è che il Pd sta facendo quadrato marciando a testa bassa sulle questioni ambientali e di rapporto con le associazioni cittadine, senza possibilità di contraddittorio. Una giunta eletta con un voto che ha visto solo la metà degli elettori recarsi alle urne, dopo aver tenuto primarie che hanno svuotato la competizione elettorale, cooptando Isabella Conti prima, e poi i consiglieri 5 Stelle, entrati nel Pd, e la lista di Coalizione Civica, che nella passata legislazione era stata all’opposizione e il cui elettorato a sinistra del Pd ha finito per dividersi tra chi, come quelli facenti capo a Sinistra italiana, hanno preferito appoggiare il Pd e gli altri, che in buona parte hanno finito per astenersi.

Incurante dei dati che mostrano come Bologna primeggi nelle statistiche sul consumo di suolo, Il Pd persegue ora progetti di ulteriore urbanizzazione di aree della città, in barba ai 20mila alloggi sfitti, nel nome della “città della conoscenza” – i cui effetti di gentrificazione saranno evidenti negli anni – accanto alla cementificazione che verrà apportata dal Passante. A Bologna come in Regione, il partito del cemento si fa forte dell’appoggio delle “forze produttive” – con inutili bretelle autostradali e terreni adibiti a parchi per la logistica – totalmente dimentico dei danni che l’ulteriore cementificazione e impermeabilizzazione del territorio comportano. Dopo l’alluvione in Romagna, peraltro, nulla è cambiato e tutto è continuato come prima. La difesa del suolo, l’urbanizzazione di aree pluviali e idrogeologicamente fragili è proseguita come nulla fosse.

Certo, il Pd si rivolge a quelle fasce sociali sensibili alle sirene della Lega e della destra, quei ceti medi mobili oltre le Ztl delle città, tra le periferie delle piccole imprese e degli artigiani. Ma così facendo si aliena le fasce deboli, dei lavoratori e dei pendolari, e dei cittadini tutti, nelle periferie e nelle zone montane, che subiranno quella “neutralità climatica” che non arriverà mai. E sarà presto necessario che anche chi, a sinistra, aveva concesso carta bianca al Pd pur di “poter contare” faccia un esame di coscienza per prendere atto che, se quel partito non cambia nel profondo politiche e obiettivi, ben lontana sarà la possibilità che Bologna sia davvero la città «più progressista d’Italia». Abbiamo visto che film sta girando: diamogli uno stop

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IL NODO STRETTO. Rappresaglia contro gli Houthi per gli attacchi nel Mar Rosso. Sale il prezzo del greggio

Piazze piene a Sana’a per il raid anglo-americano sullo Yemen contro gli Houthi. Gli Usa: «Difendiamo il commercio mondiale nel Mar Rosso», ma anche Israele. Che all’Aja si difende dall’accusa di genocidio. La guerra è già larga, e sempre di più nord contro sud

L'ANALISI. All'Aja il Sudafrica post-coloniale si fa portavoce del sud per un diritto globale non più solo "bianco". In Yemen al via una guerra a sostegno di Israele, e non tanto per la libertà di commercio

Da Gaza a Sana’a, l’occidente abbandona la diplomazia per le armi Soldati britannici verso il mar Rosso - Ap

«È stato il devastante j’accuse del secolo, la voce della decolonizzazione. Due ore di fatti e prove davanti alla Corte di Giustizia internazionale, dopo le quali non esiste più la scusa del “non sapevamo”. È caduta a pezzi la facciata di moralità e rettitudine che Israele e Stati uniti rivendicano; è stata fatta la Storia, indipendentemente da cosa poi decideranno i giudici, da a cosa si piegheranno».

Così Priyamvada Gopal (studi postcoloniali, Cambridge) ha commentato l’arringa sudafricana contro l’azione di Israele a Gaza. Quasi a darle ragione, le stesse grandi catene televisive, che non hanno trasmesso la diretta all’accusa, hanno poi mandato in livestream la risposta degli avvocati di Israele.

CASOMAI qualcuno nutrisse dubbi su come il processo arrivi a toccare in profondità i rapporti fra gerarchie coloniali e violenza di massa, a rappresentare il Sudafrica c’è un’avvocata irlandese, Blinne Ní Ghrálaigh, mentre la difesa di Israele è guidata da un avvocato britannico, Malcolm Shaw KC.

Laureata a Cambridge, Blinne Ní Ghrálaigh ha rappresentato la Croazia contro la Serbia e ha difeso le famiglie delle vittime del Bloody Sunday nordirlandese: ha dipinto Gaza come il primo genocidio nella Storia in cui le vittime trasmettono la loro stessa distruzione, nella speranza che il mondo possa fare qualcosa. Anche Shaw è già stato davanti alla Corte, in difesa di Serbia, Emirati arabi e Camerun: ha denunciato la distorsione di fatti e circostanze presentate dal team sudafricano.

Del resto, per quanto quest’ultimo abbia

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OPINIONI. L’opposizione faccia le sue proposte. Come la fiducia al solo capo del governo, la sfiducia costruttiva e il riconoscimento del potere del presidente del Consiglio di chiedere lo scioglimento

Anche sulle riforme costituzionali non si deve giocare di rimessa

Non si può continuare a giocare solo di rimessa, l’opposizione deve riuscire a ritrovare le sue parole e smetterla di seguire i pessimi progetti dell’attuale maggioranza limitandosi a chiedere di migliorarli.

Anziché pretendere che sia la destra a far meglio, bisogna dimostrare che si sia in grado di cambiare il senso di marcia e su questo recuperare il consenso perduto, altrimenti – come è stato scritto su questo giornale (da Carugati e da Ricciardi) – il fallimento è annunciato.

Ecco allora l’utilità di scrivere una sorta di agenda sulle riforme da contrapporre a quello sgangherato e pericoloso che ci viene ora proposto (l’orrido premierato). Si tratta di smontare a destra, per rimontare a sinistra.

NEL DIBATTITO PUBBLICO si dà per scontato che in Italia sia necessario assicurare una maggiore stabilità ai governi. A fondamento di questa esigenza si pone il dato statistico della loro breve durata: 68 governi in 75 anni. Un fatto che non è contestabile, un fattore di debolezza intrinseca della nostra forma di governo. È invece la conseguenza dell’elezione diretta del capo del governo che appare del tutto impropria. L’equivoco si regge su un’ambiguità di linguaggio che confonde i tre diversi possibili significati più o meno arbitrariamente assegnati al termine «stabilità». Con quest’espressione si fa infatti riferimento: a) ai poteri direttamente esercitati al governo; b) alla solidità e autorevolezza della compagine ministeriale; c) alla permanenza nel tempo degli esecutivi.

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Nel primo caso si deve rilevare come, al contrario della vulgata corrente, bisognerebbe in realtà ridurre i poteri attualmente esercitati dai Governi, i quali, nel corso del tempo, si sono enormemente espansi ed appropriati dei poteri spettanti agli altri. Lo squilibrio tra governo e parlamento è fatto notorio. Sarebbe dunque auspicabile un riequilibrio, ma a favore del legislativo. E questo passa attraverso riforme di segno opposto rispetto a quelle che ci vengono proposte. Si potrebbe pensare ad una nuova disciplina dell’attività normativa del governo, rimettendo le mani sulla legge numero 400 del 1988, che dovrebbe essere affiancata da un profondo ripensamento dei regolamenti parlamentari.

Cambiamenti tendenti a eliminare le compressioni dei tempi della discussione parlamentare e ad assicurare la centralità dei lavori in commissione; ridefinire i rapporti con il governo, bloccando le prassi distorsive dei voti di fiducia reiterati, dei maxiemendamenti onnicomprensivi; introdurre corsie privilegiate per alcuni atti del governo a fronte di un uso ben più contenuto della decretazione d’urgenza; riservare alla legislazione esclusivamente la normativa generale e di principio, procedendo ad uno sfoltimento della selva di leggi minute di carattere amministrativo e provvedimentale. Insomma, una complessa agenda di riforme per dare la necessaria stabilità alla nostra forma di governo parlamentare, a vantaggio del sistema politico complessivo, non invece del solo Governo.

PER QUANTO RIGUARDA la seconda accezione di stabilità, frutto di un necessario aumento dell’autorevolezza della compagine ministeriale, quel che può dirsi è che è certamente un problema reale, ma esso è legato – ahinoi – alla più generale crisi della democrazia contemporanea. La disaffezione del corpo elettorale, la distanza tra popolo e la sua classe dirigente, i criteri di selezione dei nostri rappresentanti, la delegittimazione degli organi di governo del paese, sono fenomeni ben gravi che devono certamente essere affrontati, oltre che sul piano sociale e culturale, anche dal sistema politico. Ma anche in questo caso con misure diverse da quelle legate alla scelta del capo dell’esecutivo.

Provvedimenti incisivi, quale può essere una nuova legge sui partiti, per cercare di far tornare questi ad essere strumenti per assicurare ai cittadini di concorrere con metodo democratico alla politica nazionale; ovvero una riscrittura – l’ennesima – del sistema elettorale che non sia più unicamente ossessionata dalla governabilità, ma che riesca anche finalmente a rivitalizzare la rappresentanza e la scelta degli elettori, in fondo seguendo le indicazioni della Consulta nelle sue famose decisioni in materia elettorale; ovvero misure per riattivare i canali ostruiti della partecipazione e del coinvolgimento nelle scelte politico-istituzionali. Un campo sterminato d’intervento politico, da tempo non più arato.

Rimane l’ultima accezione di stabilità, intesa come durata degli esecutivi, che rappresenta una vera debolezza della nostra forma di governo parlamentare. Si tratta di affrontare senza ipocrisie il problema delle troppo frequenti crisi delle maggioranze governative. Ma la domanda che pongo è se la via da percorrere sia l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo, con l’accentuarsi delle distonie che qui abbiamo richiamato, ovvero se non sia più opportuno, nonché consono alla nostra tradizione, riflettere su misure di razionalizzazione guardando a quell’esperienza che nel nostro continente ha espresso governi assai longevi entro una forma parlamentare di governo. La Germania s’intende, ma non per copiarne pedissequamente tutti gli istituti, come va troppo di moda sostenere, ma per adattarne alcuni alle peculiarità della nostra forma di governo e del nostro frantumato sistema politico.

PASSANDO ALLORA rapidamente in rassegna le quattro misure che caratterizzano il sistema tedesco, si potrebbe stabilire di introdurre la fiducia parlamentare al solo presidente del consiglio per rafforzare la sua legittimazione senza provocare eccessivi squilibri. Ci sarebbe invece un prezzo da pagare nell’introduzione dell’istituto della sfiducia costruttiva, il quale sottrarrebbe al capo dello Stato la regia delle crisi, sebbene non possa sottovalutarsi che essa impedirebbe le cosiddette «crisi al buio», responsabilizzando le forze politiche.

Per quanto riguarda infine la revoca dei ministri e lo scioglimento anticipato delle camere, poteri secondo alcuni da assegnare al presidente del Consiglio, ritengo che essi possano ben essere iscritti nel nostro sistema come potere di proposta al capo dello Stato al quale spetterebbe l’ultima parola in qualità di garante della Costituzione. In fondo, per lo scioglimento già è così, essendo nel nostro ordinamento tale potere – come anche il potere di nomina del governo – un atto presidenziale duumvirale o complesso, non certo esclusivamente («formalmente e sostanzialmente») presidenziale.

Riforme istituzionali profonde, dunque, che si porrebbero in continuità con la nostra tradizione costituzionale, che sarebbero in grado di perseguire lo scopo di una maggiore stabilità, in tutti i significati ad essa attribuiti. Una via diversa, ma possibile. C’è qualcuno che se ne vuole fare carico?

 

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