Chissà quali ideogrammi cinesi significano rien ne va plus. Forse li en qù jia. Ma al casinò “laotiano” di Van Pak Len c’è solo una roulette elettronica e i tavoli sono tutti da baccarat, circondati, nelle salette adiacenti, da svariate slot machine. I clienti però sono soprattutto cinesi. Qualche thailandese forse.
I croupier e in genere il personale, di servizio o della sicurezza, di diverse nazionalità: cinesi, laotiani, birmani. E birmana è una gentilissima cameriera che ci accompagna al ristorante dell’albergo che ospita il casinò. I prezzi dei piatti sono tutti in yuan e sono anche piuttosto accessibili. Non quelli dell’albergo, le cui camere variano dai 300 ai duemila dollari a notte. Sconto nel weekend.
BENVENUTI al Kings Romans Casino, la più pacchiana, sfavillante e controversa attività di imprenditoria cinese in odore di mafia del territorio laotiano. Anzi della Golden Triangle Special Economic Zone, un’area di 10mila ettari affittati per 99 anni in gran parte a privati. Gode sostanzialmente di extraterritorialità e, per poterci entrare, la polizia laotiana deve chiedere il permesso al Kings Romans Group con cui Vientiane fece un accordo nel 2007.
Sulle attività della Kings Romans Group e del suo padrone, il tycoon cinese Zhao Wei, si è già detto tanto e di tutto (l’ultimo è un rapporto dell’International Crisis Group (Icg) con un titolo che parla da solo: Transnational Crime and Geopolitical Contestation along the Mekong). Nondimeno, la città che visitiamo è in piena espansione: gru ovunque, sbancamenti, palazzi in costruzione e addirittura una sorta di grande mall in stile “austroungarico rivisitato” che sembra voler emulare qualche parco giochi di Disneyland.
NELLA ZONA speciale, che si trova sul Mekong all’incrocio tra Laos, Thailandia e Myanmar, ci siamo passati sulla rotta per un altro avamposto cinese fuori dalla Cina: una delle tante città che i soldati del Kuomintang, rifugiatisi in Myanmar per riorganizzare la resistenza dopo la vittoria di Mao, hanno creato prima in Birmania e poi in Thailandia.
Ma se Ban Rak Thai si è dimostrata una delusione, il reame del Kings Romans Casino è davvero una sorpresa.
Potreste immaginare che questa enclave urbana cinese – dove si compra e vende in yuan e le scritte sono solo ideogrammi – e che per ora si espande urbanisticamente su tremila ettari nella libera Repubblica del Laos, si spaccia per un “modello asiatico di sviluppo” in uno dei Paesi più poveri del Sudest asiatico? E che si sviluppa pur avendo collezionato denunce e sanzioni oltre a una serie di nomignoli non proprio edificanti, come Scam City (città della truffa) o Hub of Illicit Activity, sede di sospetti crimini transnazionali che vanno dalla tratta di animali esotici a quella di esseri umani passando per il traffico di stupefacenti?
DIFFICILE DIRE se la cameriera birmana che ci fa una breve visita guidata all’interno del gigantesco e pulitissimo hotel-casinò faccia parte di quel gruppo di vittime che ciclicamente viene alla luce del sole quando riesce ad andarsene dalle favolose promesse di guadagno a cui abboccano ragazzi e ragazze dei Paesi vicini. Tornati casa, quando ci riescono, raccontano di ore di lavoro chiusi in stanze dove si traffica con cellulari e siti web per accalappiare i conti correnti di qualche arzillo vecchietto in cerca di avventure virtuali.
INUTILE DIRE che la guerra in Myanmar è uno dei miglior viatici per i birmani che cercano di uscire dal buio del conflitto. Basta attraversare la frontiera. “Lo Stato Shan del Myanmar e la provincia di Bokeo nel Laos settentrionale (dove si trova il Kings Romans, ndr) sono diventati una zona contigua di esuberante criminalità, in gran parte fuori dalla portata delle autorità statali. Il fiume Mekong che taglia in due la zona – scrive il rapporto di Icg – è anche un asse di competizione geopolitica che complica gli sforzi per combattere la criminalità organizzata”. La “competizione politica” è quella tra Usa e Cina.
AL KINGS ROMANS Casino nessuno è colpito dalla nostra presenza. Qualche europeo in cerca di avventure in carne e ossa non stupisce da queste parti e si confonde con i torpedoni dei turisti. Il sistema di sicurezza è discreto anche perché sembra godere di ampia impunità.
Venendo dal Laos, le autorità laotiane controllano i passaporti – come si fa alle frontiere – all’ingresso della zona speciale cui si può accedere comodamente anche dalla Thailandia in 5 minuti di battello. È in costruzione persino un aeroporto. L’aerostazione potrebbe portare dalla Cina o dalla Thailandia squadroni di giocatori incalliti che vengono da Paesi dove il gioco d’azzardo è vietato. Come in Laos peraltro (salvo rare eccezioni).
Il punto di domanda è se dietro le luci del casinò si nasconda in qualche segreta stanza anche il “gambling online”, vietatissimo e già nell’occhio del ciclone in altre zone del Laos (Boten) o della Cambogia (Sihanoukville), dove per anni è stato possibile praticarlo. Poi, improvvisamente, le leggi sono cambiate e sia Boten sia Sihanoukville si sono svuotate di imprenditori mafiosi e ludopatici. I prezzi di terreni e immobili sono crollati e Boten è risorta (ora ci passa la mega ferrovia Vientiane – Kunming); Sihanoukville è ancora nel limbo.
Il Kings Romans (ormai questa città si chiama così) potrebbe fare la stessa fine?
PER ORA il denaro circola, pulito o sporco che sia e la città si espande nonostante i dossier sempre smentiti dal boss Zhao Wei, che per il Tesoro Usa è a capo di una Transnational Criminal Organization. Il lavoro non manca e i cinesi – tanto meno i laotiani – non battono ciglio.
Finché ci si limita a qualche sanzione o a qualche denuncia, le cose sembrano andare a gonfie vele. Ma nonostante lo sfavillio il luogo resta avvolto dalle tenebre. Forse anche per il nome che porta e che – visti i picchi di produzione nuovamente alti in Myanmar e Laos – potrebbe far ritornare il Triangolo d’oro ai fasti di oppio ed eroina da accompagnare alla pastiglie di metanfetamina, droga sintetica molto richiesta. Traghettarla lungo il Mekong non è un’impresa.
MOLTO PIÙ A SUD, nella provincia tailandese di Mae Hong Son, il villaggio di Ban Rak Thai promette tutt’altro. E alla luce del sole.
Se una volta gli ex Kuomintang si davano davvero molto da fare a piantare e incidere papaveri nel Triangolo d’oro, ora non è certo l’oppio che li fa ricchi. La Thailandia ha fatto una gran pulizia delle piantagioni nelle zone di produzione e imposto la sostituzione delle coltivazioni.
A Ban Rak Thai, molto più a sud del Triangolo, è in espansione la pianta del caffè. Ma anche il turismo. Un turismo soprattutto locale ma che ha trasformato la piccola cittadina fondata dai nonni “bianchi” scappati dalla vittoria rossa: una trasformazione pacchiana con decine di villette monofamiliari in serie che scimmiottano la tradizione cinese classica ma sembrano un misto di edilizia popolare e vorrei ma non posso.
I residenti continuano a vivere in fatiscenti case tradizionali: le villette sono per i turisti. Affacciate su un laghetto, punteggiato da ristoranti e negozi di spezie e aromi cinesi, danno l’idea di un paesaggio finto dove le vestigia e i racconti che affascinavano i viaggiatori sono solo un ricordo sbiadito.
Come quella foto in bianco e nero che vediamo appesa in un negozietto cinese. Non c’è più traccia del Kuomintang e di una battaglia che Chiang Kai-shek ha perso ma che il capitalismo ha vinto. Del resto anche in Cina Deng Xiaoping aveva assicurato che «arricchirsi è glorioso».
I figli del Kuomintang lo sapevano già e da qualche anno a questa parte hanno superato i cinesi con questo business pacchiano che però non ha niente di illegale. Chissà non sia un modello anche per Zhao Wei
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SHOAH. Una minoranza può legittimare il nemico che rischia di opprimerla? La domanda torna di fronte alle linee guida dell’Ucei sulla Giornata della memoria
Le linee guida interne dell’Unione delle comunità ebraiche sul giorno della memoria dopo il 7 ottobre propongono una difesa di Israele da impropri accostamenti al nazismo, attraverso altrettanto improprie riduzioni ad antisemitismo di molte critiche al governo israeliano.
Ma una simile operazione rischia di far finire chi la compie in cattive compagnie. Il problema non è nuovo. Per assicurarsi protezione, una minoranza può strumentalmente legittimare il nemico che rischia di opprimerla? E se decide di farlo che prezzo potrebbero pagare altre minoranze? È la domanda su cui da tempo ci si interroga in relazione al rapporto che alcuni esponenti della comunità ebraica italiana hanno deciso di avere con l’estrema destra di governo.
Ultimo episodio è stata la presentazione di un libro sull’antisemitismo al Maxxi di Roma con l’attuale presidente, Giuli, un «fascista intelligente», secondo vari avversari, e il ministro della Cultura Sangiuliano, già fascista nel senso di camerata di Almirante. Noemi di Segni, presidente dell’Ucei ha partecipato. Al contempo, una settimana fa, dopo Acca Larenzia, Di Segni aveva rilasciato un’intervista a La Stampa in cui contestava che fosse possibile opporsi all’antisemitismo e, contemporaneamente, difendere le idee di Vannacci. Siamo lieti di questa presa di posizione – che ricalca in parte una pregevole lettera inviata a Repubblica circa un anno fa contro l’ipocrisia postfascista.
Tuttavia la stessa coerenza politico-morale sarebbe stata utile nel decidere con quali interlocutori fare una manifestazione contro l’antisemitismo a inizio dicembre 2023. Salvini era alleato dei neonazisti ripuliti della Afd anche allora. Eppure ha parlato dal palco. Certo il recente ritrovo vicino Wannsee tra vecchi e nuovi nazisti, dove alcuni esponenti del secondo partito tedesco nei sondaggi hanno discorso su come rinnovare le antiche capacità razziste, ha ricordato che tipo di alleati e interlocutori i nostri principali partiti di governo abbiano.
Alla Corte dell’Aja l’umanità è al bivio
Desta quindi sorpresa che le linee guida interne dell’Ucei siano concentrate solo sulla difesa di Israele e non anche su come rapportarsi criticamente ad un governo postfascista che non ha reciso – se non in modo rituale – i suoi legami con le proprie origini antisemite e razziste. Giustamente, si vogliono respingere sciocche banalizzazioni e relativizzazioni della Shoah. Ma i toni sono da propaganda, vige un manicheismo che mal si attaglia alla complessità – e violenza – di quanto accade in Israele-Palestina. Se, ad esempio, il Guardian, in un editoriale redazionale, invita a riflettere sul processo all’Aja contro il governo israeliano al fine di fermare il massacro a Gaza, forse potrebbe essere utile non liquidare ogni critica come antisemita.
Non a caso il dibattito ebraico globale, italiano e israeliano è molto più pluralistico di quello che questa comunicazione interna dell’Ucei mostra. Questo indebolisce sia la coerenza delle posizioni assunte, sia la vivacità critica che la diaspora ebraica può esprimere. L’identificazione tra ebrei diasporici e governo di estrema destra israeliano non serve a nulla – o meglio serve, oggettivamente, a Netanyahu ma non credo che sia questo l’obiettivo della rappresentanza istituzionale dell’ebraismo italiano. E non si tratta di aumentare o diminuire l’antisemitismo che purtroppo precede quanto avviene in Israele-Palestina e certo gli sopravviverà. Si tratta di rompere il nesso nazionalista tra una cultura e uno stato che la militarizza e la etnicizza ai danni di un’altra popolazione.
Ciò detto, non meno preoccupante è il cedimento sul fronte della memoria da parte di alcune aree della sinistra, come l’evento Anpi in provincia di Firenze mostra. Da tanti anni, e oggi quindi ancora di più, il Giorno della memoria è usato come una clava contro gli ebrei. La retorica è questa: da vittime a carnefici, gli ebrei hanno appreso gli strumenti dei loro aguzzini. Sono diventati come i nazisti, se non peggio. È un’accusa perversa che raddoppia il torto subito. Ed è un’accusa utile a chi la fa per autoassolversi. Il Giorno della memoria, infatti, se a qualcosa serve – ed è da discutere se sia efficace in questo senso -, dovrebbe servire a riflettere su quel che l’Europa ha prodotto tra gli anni Venti e gli anni Trenta. Su come il razzismo omicida abbia avuto una lunga gestazione, una circolazione tra metropoli e colonia e ritorno.
Riflettere sulla Shoah dovrebbe portare a riflettere su come fare quello che trivialmente si potrebbe chiamare un «buon uso» della memoria. Ossia un impiego nel presente del poco che le tragedie insegnano agli autori o comunque ai loro discendenti – più che alle vittime, in questo caso, prevalentemente ma non solo, gli ebrei d’Europa.
E allora a che serve pensare che lo scandalo del mancato buon uso della memoria sia in Israele e non qui, dove migliaia di migranti muoiono ai confini d’Europa, dove milioni di migranti vivono segregati nelle nostre città e nazioni, dove al governo decidono – o a breve decideranno – gli eredi di quella cupa esperienza genocidaria tutta europea? A nulla, a pensare che il male è altrove. E che noi siamo sentinelle. Anche se il fortino è dei nemici
Commenta (0 Commenti)L’Iran e il Pakistan hanno certamente alcuni interessi in comune e almeno un potente amico in comune – la Cina. Ma hanno anche molti motivi di rivalità
’Iran e il Pakistan si sono scambiati tiri di artiglieria e hanno sospeso le relazioni diplomatiche.
Dopo una breve escalation militare e verbale, è molto probabile che le due parti trovino il modo di allontanare il rischio di un confronto maggiore, che nessuno dei due può permettersi.
L’Iran accusa il Pakistan di ospitare “terroristi” baluci anti-iraniani sul proprio territorio, e il Pakistan accusa l’Iran di ospitare “terroristi” baluci anti-pakistani sul proprio territorio.
Il Balucistan è una regione sul mare Arabico, divisa tra tre paesi – Iran, Afghanistan e Pakistan – che aspira a diventare indipendente, e quindi ospita movimenti di guerriglia attivi in questo senso.
Come nel caso dei curdi, i vari gruppi indipendentisti sono sostenuti dai paesi limitrofi per metter in difficoltà i vicini; tipicamente, durante la guerra Iran-Iraq 1980-1988, i curdi iracheni erano sostenuti dall’Iran contro Baghdad e i curdi iraniani erano sostenuti dall’Iraq contro Teheran. Niente di nuovo sotto il sole.
Non è peraltro necessario che vi sia una guerra in corso: creare problemi ai vicini, soprattutto in condizioni “fluide” come quelle tra Pakistan e Iran, è un esercizio sempre utile, a cui nessuno rinuncia.
In particolare, non vi rinunciano Iran e Pakistan che, in materia di creazione, supporto e organizzazione di gruppi terroristi hanno ormai credenziali consolidate.
Alla domanda “perché adesso?”, le risposte non possono che essere speculazioni, e forse lo resteranno.
L’ipotesi che l’Iran abbia mandato un “avvertimento” al Pakistan perché prenda le distanze dagli Stati Uniti è suggestiva, ma non molto sostanziata.
Non solo perché il Pakistan ha legami con la Cina forse più solidi che con gli Stati Uniti, ma anche perché a Teheran sanno che parlare di Pakistan non ha molto senso: tra governo, militari (che oggi sono quasi la stessa cosa), servizi segreti, potenti partiti di opposizione, famiglie feudali, interessi regionali e bande terroriste in libertà, è sempre molto difficile sapere chi comandi cosa in Pakistan.
Non dimentichiamo che il Pakistan ha creato i talebani per conquistare l’Afghanistan, ma poi ha dovuto combattere contro i talebani dopo l’11 settembre, salvo ospitare la dirigenza talebana e persino Osama bin Laden sul proprio territorio mentre combatteva ufficialmente contro di loro.
Conviene quindi abbandonare il terreno delle speculazioni e concentrarsi sulle cose certe.
La tesi secondo cui i rapporti tra Pakistan e Iran erano ottimi fino all’attacco del 17 gennaio è viziata dall’abitudine di voler sempre inscatolare le cose in categorie nette e ben definite: o amici o nemici, o bianco o nero.
L’Iran e il Pakistan hanno certamente alcuni interessi in comune e almeno un potente amico in comune – la Cina. Ma hanno anche molti motivi di rivalità.
Intanto, non ha senso dire che la Repubblica islamica del Pakistan e la Repubblica islamica del Pakistan condividano fede e istituzioni.
L’Iran è a maggioranza sciita e il Pakistan a maggioranza sunnita; nessun sunnita ha mai avuto ruoli di responsabilità politica in Iran, e solo una manciata di sciiti l’hanno avuta in Pakistan, e sempre in posizioni minori (salvo il primo presidente Iskander Mirza, quando il presidente, però, aveva un ruolo politico quasi inesistente).
La loro interpretazione dell’islam e della sharia è diversa, anche perché guidata – come dappertutto – da esigenze politiche piuttosto che da comandamenti religiosi.
Ma le rivalità tra Iran e Pakistan hanno motivazioni più profonde, e riguardano la loro visione dell’Afghanistan e, soprattutto, i loro rapporti con l’India.
Per l’Iran, l’Afghanistan è una provincia orientale provvisoriamente separata (vi si parla in maggioranza la stessa lingua che si parla in maggioranza in Iran) e, per il Pakistan, che si ritiene l’erede legittimo dell’impero moghul musulmano, è una provincia occidentale provvisoriamente separata (Kabul faceva parte dell’impero moghul, anzi è stata la prima capitale della dinastia).
L’intellettuale pakistano Tariq Ali ha scritto che “the Taliban takeover in Kabul [1996] had been the Pakistan army’s only victory. Privately, the ruling elite – officers, bureaucrats and politicians – congratulated each other for having gained a new province. It almost made up for the 1971 defection of Bangladesh” [la conquista di Kabul da parte dei Talebani nel 1996 è stata l’unica vittoria dell’esercito del Pakistan. In privato, gli esponenti dell’élite al comando - militari, burocrati e politici - si congratulavano l’un l’altro per aver ottenuto una nuova provincia. Ha quasi compensato la perdita del Bangladesh nel 1971”, ndr].
Per questa ragione il regime dei talebani fu duramente osteggiato da Teheran, che partecipò anche alla guerra del 2001 per cacciarli dal potere.
Il rapporto con l’India è molto più delicato, soprattutto, è evidente, per il Pakistan. Non c’è dubbio che le relazioni tra New Delhi e Teheran siano migliori che quelle tra Islamabad e Teheran (e d’altronde le relazioni tra Islamabad e Pechino sono migliori che quelle tra Pechino e Teheran).
L’attivismo del Pakistan verso l’Afghanistan ha sempre avuto come obiettivo principale di evitare di essere preso in tenaglia da nemici.
Ogni avvicinamento dell’Iran all’Afghanistan è visto da Islamabad come una minaccia potenziale.
Oggi, la tensione tra i talebani che governano l’Afghanistan dal 2021 e il Pakistan non è mai stata così alta, dando persino luogo a degli scontri militari al confine.
Viceversa, i rapporti tra Teheran e Kabul non sono mai stati così buoni – in un contesto, va da sé, dove la bontà è un concetto estremamente relativo e fluido.
Ancora più concretamente: la Cina ha deciso di costruire il suo porto principale nell’oceano Indiano a Gwadar in Pakistan, punto d’arrivo di uno dei corridoi più importanti della Belt and Road initiative.
Al che l’India – rivale sistemico della Cina – ha risposto lanciando la costruzione di un grande porto a Chabahar, a 160 chilometri in linea d’aria da Gwadar, ma in Iran. Ovviamente, il progetto indiano non può competere con quello cinese, ma in futuro, chissà. Quel che invece si sa fin d’ora è che Gwadar e Chabahr si trovano, entrambi, in Balucistan.
Commenta (0 Commenti)APPELLO PER LE EUROPEE. Le elezioni europee sono all’ordine del giorno. Il ruolo europeo nel mondo, sarà fortemente condizionato dal loro esito. Oggi, nel mondo, è in affanno il dominio esclusivo dei blocchi imperiali […]
Le elezioni europee sono all’ordine del giorno. Il ruolo europeo nel mondo, sarà fortemente condizionato dal loro esito. Oggi, nel mondo, è in affanno il dominio esclusivo dei blocchi imperiali che si fronteggiano: spesso con le armi o con politiche economiche aggressive che soffocano lo sviluppo di paesi terzi e ne saccheggiano le risorse naturali. C’è quindi spazio per un’Europa che funga da polo aggregante autonomo e libero in uno scacchiere multipolare. Un’Europa che lavora per la pace, per rapporti economici equi e rispettosi dei paesi partner, che non sfrutti ma cooperi, che affronti in modo solidale i flussi migratori, le crisi climatiche e idriche, tuteli l’ambiente non con misure di facciata e utili solo ai propri territori. Un’Europa che pensi al bene delle persone e non delle multinazionali e dei fondi d’investimento. Un’Europa così è possibile.
Nel secoli l’Europa ha prodotto il colonialismo e due guerre mondiali, ma anche valori alti, principi universali di uguaglianza, democrazia, umanesimo, cultura e arte, rivendicazioni di giustizia sociale. Ha contato e può tornare a farlo purché prevalga la sua faccia positiva. Il sogno di questa nuova Europa verrebbe spazzato via se nelle prossime elezioni si affermassero forze conservatrici, sovraniste, portatrici di disvalori e diseguaglianze sociali. Questa tornata elettorale è uno spartiacque, siamo consapevoli che l’esito dipenderà da molti fattori. Le forze progressiste e la sinistra sono chiamate a fare la propria parte perché senza una loro presenza forte e rilevante nel nuovo Parlamento, l’Europa non prenderà la via giusta.
Conterà la composizione delle singole delegazioni e questo è il punto. Noi pensiamo che sarebbe grave se dovesse mancare, fra i parlamentari italiani eletti, una presenza della sinistra pacifista, ambientalista, dei diritti sociali e civili così ben scritti nella nostra Costituzione.
Non ce lo possiamo permettere. Le regole elettorali sono chiare. Quindi noi che, premettiamo, non abbiamo ambizioni di candidatura, sentiamo il dovere di chiedere a chi ha il potere e il dovere di decidere nei partiti, nelle assemblee, nelle trattative, persone come Acerbo, Bonelli, De Magistris, Fratoianni, Lucano, Santoro: lavorate per una sola lista unitaria alla sinistra del Pd.
Una lista che sia di tutti e proprietà di nessuno. Che trovi nelle candidature, le migliori energie a disposizione nel rispetto dei partiti esistenti e delle realtà locali. Che invogli nuovamente a tornare a votare molti delusi. Prevalga la volontà di base. Il voto europeo prevede le preferenze. C’è dunque spazio per valorizzare, attraverso queste, opzioni specifiche e priorità. Volendolo, si potrà tranquillamente dedurre dalle preferenze il peso specifico di singole forze politiche all’interno della lista unitaria. Non c’è ragione di andare divisi.
Certo non bisogna farsi guidare dai sondaggi, ma li guardiamo tutti e ci impongono una seria riflessione. Come non vedere che c’è il rischio di almeno un 6 o 7% di voti persi se nessuna lista a sinistra supererà la soglia del 4%? E che ci sono tanti elettori che forse tornerebbero a votare se ci fosse un unica lista che infonda speranza, fiducia e un pizzico di passione? E quanti voti dati altrove potrebbero tornare, dando la ragionevole certezza che la lista unica supererà il quorum? Lo ripetiamo. Dateci una lista unica. Vinca la generosità di qualche rinuncia a pur legittime aspirazioni identitarie e caratterizzanti. Vinca la consapevolezza di offrire una opportunità a molti di credere nella buona politica. Chi ha maggiore responsabilità nei partiti esistenti, nelle liste già pronte o in quelle che si stanno preparando, sia davvero responsabile e scelga un progetto di unità. Non ci si accomodi ad una tacita accettazione di un eventuale non raggiungimento del quorum con la consolazione di qualche zero virgola in più da tesaurizzare in seguito.
Non si usi una elezione così rilevante come una pura e semplice operazione di promozionale del proprio simbolo e della propria, specifica identità anche qui sperando in qualche zero virgola in più. Sappiamo che non sarà facile, ma questo non sia un alibi per non provarci.
Noi, come tanti elettori di sinistra, vogliamo avere l’opportunità di dare il nostro contributo in una competizione elettorale così rilevante. Vogliamo essere il voto utile del 2024.
Noi, con questo appello, vogliamo dare un segnale di partenza. Assolutamente lontani dall’idea di guidare il gruppo. E Anzi aspettiamo che siano in molte e molti a sorpassarci, strada facendo. Vorrebbe dire che siamo sulla strada giusta
Commenta (0 Commenti)Tutto pronto per il sì in parlamento all’autonomia differenziata, il prezzo pagato a Salvini per puntellare gli equilibri della destra. Si avvicina il vecchio progetto di secessione del ricco Nord, firmato dall’erede della prima Lega di Bossi e Gianfranco Miglio: il ministro Calderoli
AUTONOMIA. In parallelo con la trattazione nell’aula del senato del disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata si sono svolte manifestazioni di protesta in numerose città italiane. Dalle cronache locali traiamo una […]
Roma - Presidio contro il ddl Calderoli sull’autonomia differenziata - Lapresse
In parallelo con la trattazione nell’aula del senato del disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata si sono svolte manifestazioni di protesta in numerose città italiane. Dalle cronache locali traiamo una valutazione generale: molte piazze, poca gente. Il bicchiere è mezzo pieno, o mezzo vuoto?
È giusto dire che sia mezzo vuoto e dobbiamo chiederci perché. Per una parte, la ragione si trova nella ormai ridotta capacità della politica di mobilitare la partecipazione popolare. È lo stesso motivo per cui vediamo che quasi metà del corpo elettorale – e in qualche caso ben oltre la metà – diserta le urne. Ma nella specie troviamo anche ragioni ulteriori, specificamente riferibili al ritardo con cui una sinistra variegata e frantumata ha preso atto della pericolosità del disegno leghista, e per qualche parte ha addirittura fatto proprie le sue lusinghe.
Chi ha partecipato alle manifestazioni è stato poi colpito da una generale assenza dei giovani. Piazze dominate dai capelli brizzolati sono un problema nel problema. Una battaglia contro l’autonomia differenziata trova il suo significato più vero nel rivolgersi a chi avvia oggi il suo percorso di vita.
Qui non si tratta di essere passatisti in cerca di un mondo che non è più. È la scelta – tra quelli possibili – di un futuro da orientare secondo i valori in cui si crede: per noi, eguaglianza, diritti, partecipazione democratica. Bisogna fare di più, nella capacità di mobilitare, spiegare, convincere.
In senato la maggioranza di destra vuole arrivare al voto finale in tempi brevissimi. Lo scenario delle riforme rimane quello della competizione tra
Leggi tutto: Progetto pericoloso, ma riflettiamo sulle piazze vuote - di Massimo Villone
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