ISRAELE/PALESTINA. Intervista al sociologo israelo-tedesco Moshe Zuckermann: «Israele l’ha utilizzata a fini ideologici: il sionismo come risposta»
Moshe Zuckermann è un sociologo israelo-tedesco e professore emerito di storia e filosofia all’università di Tel Aviv. È autore di libri sul conflitto in Medio Oriente, tra cui Il destino di Israele. Come il sionismo porta avanti il proprio declino. Fa parte del gruppo di studiosi della storia dell’Olocausto, studi ebraici e studi sul Medio Oriente che nel 2021 ha elaborato la Dichiarazione di Gerusalemme.
Il Sudafrica, lo stato che ha come elemento costitutivo la sconfitta dell’Apartheid, ora accusa di genocidio lo Stato che ha come elemento costitutivo la memoria del genocidio e che allo stesso tempo è accusato di essere uno Stato di Apartheid. Cosa significa per Israele il fatto che sia stato proprio il Sudafrica a portarlo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia?
Vorrei iniziare dicendo che non penso che Israele stia commettendo un genocidio. Quello che sta facendo è già abbastanza grave, una catastrofe umanitaria con moltissimi crimini di guerra. Ma così come non sono del parere che il 7 ottobre ricordi l’Olocausto come qui è stato detto, non penso che quello sta succedendo a Gaza sia un genocidio. Preferirei conservare questa categoria per accadimenti storici come quello che la Turchia commise nei confronti degli armeni, per il Ruanda o anche il sudest asiatico e naturalmente per l’Olocausto. Per me l’uso del termine è determinato anche dall’entità dell’evento.
Israele è però senz’altro uno Stato di Apartheid. Basta dire che ci sono due sistemi giudiziari, uno per Israele e uno per la Cisgiordania. E il fatto che entrambi siano sotto sovranità israeliana è già una prova del fatto che i palestinesi sono discriminati, svantaggiati, ecc. È evidente anche perché Israele non ha mai voluto riconoscere che già l’occupazione stessa viola la legalità internazionale e produce costantemente crimini di guerra, a partire dalla costruzione degli insediamenti che sono illegali, fino ad arrivare quello che da decenni in Cisgiordania si verifica ogni giorno e ogni notte.
Che sia stato il Sudafrica a sollevare l’accusa di genocidio, potrebbe avere un significato simbolico perché ha vissuto l’Apartheid e sa di che si tratta. Ma nella lotta contro l’Apartheid tutto il mondo aveva preso la decisione monolitica che il Sudafrica andava boicottato. E chi non lo faceva era oggetto di sanzioni. Per Israele questo non avviene. Che Israele sia uno Stato di Apartheid non è condiviso da tutti. Se ci fosse una votazione, sarebbero in molti a difendere preventivamente Israele o a mettere veti. Sappiamo che in Sudafrica resta ancora molto da fare perché possa dirsi un Paese davvero liberato. Ma per me resta un’istanza morale, appunto perché ha vissuto la sofferenza di quell’esperienza, quali che siano le ragioni particolari che oggi hanno fatto sentire al Sudafrica l’urgenza di portare Israele davanti alla Corte de L’Aia.
Se la forza dell’atto di accusa si potesse usare rispetto all’Apartheid, sarebbe molto più utile. E riguarderebbe anche la guerra a Gaza che come sappiamo è iniziata con ciò che l’ha preceduta, con il 7 ottobre da cui Israele ha tratto il diritto di difendersi. I crimini di guerra che ora commette sarebbero stati un capo di accusa forte. Ma se qualcosa andava fatto penso che sia un bene che sia stato questo Paese farlo. Non credo però che potrà esserci qualche esito giuridico rispetto all’accusa di genocidio.
Quanto la memoria dell’Olocausto incide sulla narrazione interna israeliana, sia individuale che collettiva, e quanto gli attuali eventi hanno effetti sulla psiche politica israeliana – in un senso o nell’altro: la rimozione del massacro di Gaza, ad esempio, o al contrario l’affermazione di aver subito un genocidio il 7 ottobre come ribadito a L’Aia dal team di difesa.
Se il team di difesa ha detto questo è una distorsione. Semplicemente non è vero. C’è stato chi ha detto che l’esperienza di ebrei massacrati in territorio israeliano per lui ha evocato l’Olocausto. Non è stato né un genocidio né Israele è stato minacciato nella sua esistenza. Ciò che è successo il 7 ottobre è abbastanza grave di per sé senza arrivare a un’affermazione del genere.
Negli anni mi sono occupato molto della strumentalizzazione dell’antisemitismo nella cultura politica israeliana. L’Olocausto e la memoria dell’Olocausto che subito dopo la fondazione dello Stato avevano un impatto molto forte sulla psiche collettiva degli ebrei in Israele, molto presto si sono deteriorati in un’ideologia e così si è arrivati a una strumentalizzazione di questa memoria che ora va nella direzione di apostrofare o rappresentare qualsiasi critica nei confronti di Israele come antisemita. Più che di memoria si tratta di funzionalizzazione per un uso più o meno a proprio favore per questioni che con l’Olocausto c’entrano niente. La maggior parte delle volte questo avviene quando Israele viene criticato per aver fatto qualcosa di illecito. In particolare se le critiche arrivano dall’estero, soprattutto dall’Europa e di certo se arrivano dalla Germania – in effetti dalla Germania a livello ufficiale critiche non ne arrivano – la risposta immediata è “noi abbiamo vissuto l’Olocausto, voi non siete nella posizione di criticarci”.
All’interno di Israele, in politica interna, oggi l’Olocausto ha solo la funzione di autorassicurazione, nel senso di dire che Israele non è mai in torto, non ha mai commesso crimini, abbiamo l’esercito più morale del mondo, tutti quegli slogan che probabilmente conoscete. Si dice quindi “noi non possiamo essere in qualche modo fascisti perché i fascisti ci hanno inflitto quello che abbiamo vissuto, non possiamo essere immorali perché abbiamo vissuto sofferenze a causa dell’amoralità del mondo” e così via.
Oltre a questo però direi che la narrazione interna sull’Olocausto in Israele ha portato una tale quantità di banalizzazioni che mi sento di azzardare la tesi che in Israele l’Olocausto viene banalizzato più di quanto avvenga in qualsiasi altra parte del mondo. Per l’uso inflazionistico che se ne fa, direi che la memoria dell’Olocausto e l’approccio all’antisemitismo nel mondo, in sostanza non hanno niente a che fare né con l’Olocausto né con l’antisemitismo. Anche questo uso sbagliato è una banalizzazione. E siccome la memoria dell’Olocausto in Israele viene usata in modo così teleologico rispetto al sionismo, nel senso di dire che il sionismo è la risposta all’Olocausto, è stata completamente distorta. E Israele non ha mai combattuto l’antisemitismo. Per non essere troppo radicale non voglio dire che l’esistenza di antisemitismo nel mondo era benvenuta, ma non ci si indignava più di tanto perché per l’ideologia sionista quando gli ebrei nella diaspora stanno male, vengono in Israele e questo è ciò che il sionismo ha sempre voluto.
In Israele per altro in realtà non c’è nemmeno un buon lavoro di ricerca sull’antisemitismo. La ricerca consiste unicamente in una statistica che dice che c’è stato un certo numero di eventi nel mondo e questo viene poi presentato ogni anno: è aumentato dell’1,2% o calato del 3,2%, questo è tutto ciò che viene fatto. Ma le ragioni sociali, di psicologia sociale, psichiche, psicologiche e ideologiche del perché esiste l’antisemitismo nel mondo, non vengono studiate quasi per niente.
Allo stesso modo quanto la memoria dell’Olocausto definisce l’Europa di oggi? In termini di politiche e di diplomazia ma anche di rimozione del proprio ruolo strutturale nella persecuzione degli ebrei nei secoli, di antisemitismo profondo fino all’annientamento nazista. Insomma, l’Europa ha mai fatto i conti con se stessa o usa Israele per ripulirsi la coscienza?
L’Europa è un campo ampio, ci sono tanti Paesi e bisogna capire di cosa si parla. Io direi che l’unico Paese che ha fatto davvero un’elaborazione del passato – anche se oggi ormai la cosa si è rovesciata, è diventata scivolosa – è la Germania. Certo va detto anche che la Germania aveva da elaborare più di tutti gli altri Paesi perché quello che ha fatto nel ventesimo secolo è stato così eclatante, basti pensare ai campi di sterminio.
Ma soprattutto nella Germania occidentale l’elaborazione ormai è talmente consolidata, reificata e feticizzata che qualsiasi critica a Israele produce accuse di antisemitismo. Si sono specializzati nel definire antisemita chiunque e in questo modo la vera lotta contro l’antisemitismo viene completamente abbandonata, se non tradita.
Se Israele oggi viene usato per lavarsi la coscienza, non sono in grado di valutarlo perché devo dire che Israele stesso oggi commette un sacco di crimini e questo fa sì che l’antisemitismo oggettivo, intendo l’antisemitismo riferito a Israele, in Europa e nel mondo possa prosperare. Il fatto che oggi in Europa ci sia antisemitismo nei confronti di Israele e degli ebrei – qui parliamo dell’antisemitismo riferito a Israele – dipende molto dal conflitto in Medio Oriente e dal rapporto che Israele ha con i palestinesi. Ma le cose vanno distinte.
Penso che in Europa ci sia un problema enorme perché tanti Paesi che avrebbero molto da elaborare, per esempio i francesi o gli inglesi per quanto riguarda il colonialismo. Ma penso sia avvenuto solo in modo marginale. L’Italia ha avuto anche il fascismo oltre al colonialismo in Africa. La dimensione del colonialismo è stata minore rispetto ad altri, ma non meno crudele. Poi c’è anche il colonialismo classico come in Spagna, in Portogallo o in Olanda.
Il colonialismo e l’imperialismo sono stati un’invenzione dell’occidente e in particolare dell’occidente europeo e sono partiti proprio dalla parte più moderna del mondo (come le guerra mondiali), dalla parte di mondo dove è stato inventato l’illuminismo. Ed è esattamente quello che persone come Horkheimer e Adorno con la dialettica dell’illuminismo hanno cercato di affrontare dal punto di vista teorico. L’Europa in parte si è impegnata, ci sono democrazie funzionanti, ma se si vanno a vedere tutti i crimini che sono stati commessi nel corso della storia, penso che siamo ancora ben lontani da un’elaborazione del passato.
Oggi le persone nemmeno si pongono più il problema che ci sia ancora qualcosa da elaborare. Si chiedono cos’è che dobbiamo elaborare con tutti i problemi che abbiamo? Nel 2014 Angela Merkel ha detto “prendiamoci un milione di profughi”. Quanti Paesi in Europa hanno accolto un numero simile di profughi? E pensando proprio all’Italia, quante persone crepano sulle coste del Mediterraneo? Questo oggi sarebbe un insegnamento da trarre dall’Olocausto e dal colonialismo, che le persone che soffrono la fame, che fuggono dal terzo e dal quarto mondo devono essere fatte entrare nel primo mondo dove ci si abbuffa fino quasi a vomitare.
Cosa nel capitalismo occidentale e europeo abbia generato il terzo e quarto mondo, oggi non se lo chiede più nessuno: quale sia il nesso globale della modalità di produzione che fa sì che l’occidente possa vivere così bene che se non sbaglio il 5% del mondo consuma il 60 o 70% di quello che nel mondo viene prodotto. E questa è anche la logica interna del capitalismo. Se oggi non viene messa in discussione è anche perché non è nata un’alternativa al capitalismo a livello globale. Una vera elaborazione basata su un sistema umanistico alternativo avrebbe potuto produrla. Si ragiona ancora nei termini delle categorie dei crimini commessi e si cerca più o meno di porre rimedio e di materializzare un’espiazione. E all’epoca dando aiuti economici si pensava di aver riparato al danno, senza alcuna riflessione su come si era arrivati alla condizione dei Paesi in via di sviluppo e sulle responsabilità dell’occidente.
Questo rovesciamento da parte della Germania si può considerare una ragione per cui la Germania ora ha deciso di costituirsi alla Corte Internazionale dalla parte di Israele?
Non è una novità. Succede già fin dagli anni ‘50. Negli anni ‘60 c’era la stampa del Gruppo Springer che per un periodo aveva quasi il monopolio dei media tedeschi. E c’erano i cosiddetti Springer Essentials che spiegavano quali erano i valori della stampa Springer: noi crediamo nella democrazia, nello Stato di diritto, ecc. ecc., e al terzo posto c’era che Israele non deve mai essere attaccato, noi ci schiereremo sempre con Israele. La politica tedesca si è accodata. Già nell’accordo sulle compensazioni del 1952 era completamente chiaro non solo che la Germania paga e che in cambio Israele riconosce la Germania, ma che c’era in un certo senso anche un tacito accordo sul fatto che la Germania non avrebbe mai attaccato Israele. Ai media e alla politica si è aggiunto anche che con il rafforzamento delle comunità ebraiche tedesche ogni volta che la Germania diventava troppo critica, veniva alzato l’indice morale: voi siete antisemiti.
Oggi in Germania – lo dico metaforicamente – già solo pronunciando la parola “ebreo” e si vede come tutti impallidiscono, come non siano proprio in grado di affrontare il fatto che proprio la parola “ebreo” sia stata pronunciata, di gestirlo. Io stesso, pur essendo figlio di sopravvissuti all’Olocausto, ho sperimentato personalmente come si può essere definiti un ebreo che odia se stesso o un antisemita. Tedeschi che definiscono me, un ebreo, un ebreo che odia se stesso… Ormai mi sono abituato, non è più un problema, ma naturalmente questo è un sintomo di quello che succede.
Lei fa parte dei 50 accademici che hanno scritto un lettera Yad Vashem chiedendo di condannare gli appelli alla distruzione e allo sterminio a Gaza pronunciati da politici israeliani perché nella storia questo spesso si è rivelato essere il primo passo di crimini che possono arrivare anche al genocidio. Avete ricevuto una risposta che minimizzava la portata di quelle affermazioni. Che tipo di istituzione è oggi lo Yad Vashem? E qual è il significato universale che i firmatari della lettera attribuiscono a questo luogo?
Da un lato è un luogo dedicato alla ricerca e alla memoria e da questo punto di vista ha attraversato diverse fasi. Come museo è nato immediatamente dopo la Seconda Guerra Mondiale e dopo la fondazione dello Stato di Israele già negli anni ‘50, all’epoca era il più importante. Dopo c’è stata la fondazione del Museo dell’Olocausto a Washington e di diversi diversi altri musei. L’impostazione è cambiata. Il concetto originario si è spostato dall’Olocausto come matrice per la lotta per i diritti umani verso il sionismo. Fin dall’inizio però è stato anche un’istituzione strumentalizzata dallo Stato di Israele. Per esempio non esiste alcun politico di una certa importanza che arriva in Israele e che non preso direttamente dall’aeroporto e portato allo Yad Vashem dove viene subito indottrinato per bene perché abbia chiaro cosa può dire e cosa no.
Si vede anche dalla risposta che il direttore dello Yad Vashem ha dato alla nostra lettera. Avrebbe potuto dire, sì lo vedo, voi denunciate come momento universale che proprio gli ebrei che hanno vissuto la catastrofe nel ventesimo secolo avrebbero un dovere di combattere i crimini di guerra e tutto ciò che fa pensare a un genocidio, e qui invece abbiamo politici e personaggi pubblici che chiedono il genocidio – e il modo in cui questo viene chiesto rispetto a Gaza è eclatante, è per questo che abbiamo scritto la lettera. Avrebbe dovuto dire che è proprio così, perché il compito dello Yad Vashem è di condannare questo tipo di cose.
Siccome per dirlo avrebbero dovuto condannare anche il governo, importanti politici, pubblicisti e altri personaggi di spicco, hanno detto che si tratta solo di una minoranza. Cosa vuol dire che è una minoranza? In parte è proprio il governo a parlare in questi termini. E hanno aggiunto che comunque bisogna tenere conto di quello che successo il 7 ottobre. Ma non c’entra niente. Il 7 ottobre è il 7 ottobre e va condannato. Ma è diverso da quello che è successo dopo. Il fatto che esponenti molto in vista della politica israeliana abbiano parlato della distruzione di Gaza, di bombe atomiche e di cose che non è possibile interpretare diversamente da un genocidio e da una pulizia etnica, tutte cose che gli ebrei nel ventesimo secolo hanno vissuto, e che questo sia stato minimizzato nella risposta per me non è solo deludente, ma solo un’altra prova che Yad Vashem pur restando un importante istituto di ricerca e un importante luogo della memoria – e chi viene in Israele dovrebbe vedere il museo perché si può imparare molto – è sempre stato un ente propagandistico al servizio dello Stato di Israele e della strumentalizzazione che fa dell’Olocausto.
Con la lettera abbiamo fatto quel poco che qui in Israele potevamo fare. E la reazione è disperante, un circolo vizioso che non può essere spezzato. Più si commettono crimini, più si cerca di razionalizzarli e più si fa questo, più si rivendica quello che abbiamo vissuto e in questo modo si tradisce la memoria delle vittime nei Lager. Il modo in cui oggi agisce Israele tradisce la memoria delle vittime.
La memoria andrebbe sempre contestualizzata. Quindi come dovremmo affrontare quest’anno la Giornata della Memoria?
I luoghi della memoria non possono farlo perché vogliono essere monolitici, non vogliono affrontare le cose in modo dialettico, ma io parlerei della disumanizzazione delle persone che è avvenuta il 7 ottobre e di quello che ora fa Israele con enorme barbarie e brutalità per dire che dobbiamo lottare per un mondo diverso in cui questo non sia più possibile. Come marxista sono del parere che l’unica possibilità di praticare la memoria dell’Olocausto sia la lotta per una società umana invece di ripetere slogan vuoti nelle giornate della memoria. Ma questo sono io e questo è marxismo, e il marxismo non è una cosa che oggi è particolarmente ben accolta e non penso che succederà.
La mia tesi che ho esposto dozzine di volte è che è necessario ricordare le vittime nella loro condizione dell’essere vittime, così come i colpevoli nel loro essere tali e questo significa che quando parliamo di vittime e di colpevoli, è necessario capire come è possibile che ci siano ancora vittime nel mondo e cosa si può fare perché non ce ne siano più. Ma questo è esattamente ciò che Israele non vuole: siccome noi siamo per così dire il popolo vittima, e gli altri sono i colpevoli, si permette di diventare lui stesso colpevole, e lo fa rivendicando che noi abbiamo vissuto l’Olocausto.
Cosa pensa della proposta di Marek Halter di istituire il 7 ottobre una giornata contro l’antisemitismo?
Se volesse ricordare non solo ‘Olocausto, ma se si potesse celebrare una Giornata della Memoria all’insegna della lotta contro la xenofobia, l’islamofobia, l’antisemitismo, l’antiziganismo, contro il razzismo in tutte le sue derivazioni, direi subito di sì. Una proposta del genere da parte di un sopravvissuto avrebbe una grande forza morale. Ma parlare solo di antisemitismo, degli ebrei e in un momento come questo in cui nel mondo gli ebrei non sono proprio in una buona posizione perché Israele, sionismo e ebraismo vengono confusi e sovrapposti, penso che sarebbe solo un autogol.
Ormai il mondo è andato fuori asse e ovunque si uccide, si discrimina, si tormenta, e è questo va combattuto ovunque. Includerei anche la lotta per la parità di diritti delle donne e degli omosessuali. A Auschwitz non sono stati uccisi solo ebrei, ma anche omosessuali, rom e sinti, includerei tutto questo in una giornata della memoria. Ma questi sono solo sogni a occhi aperti. Israele insisterà perché non venga globalizzata, internazionalizzata e generalizzata, mentre invece è proprio questo che va fatto.
Anche per questo Israele non vuole riconoscere ufficialmente il genocidio degli armeni?
Ci sono due ragioni. Per un certo periodo Israele teneva a avere buoni rapporti con la Turchia e in caso di un riconoscimento del genocidio degli armeni, la Turchia avrebbe aperto una crisi diplomatica. Ogni volta che si levava qualche voce da parte di studiosi israeliani e di altri per includere anche la Shoah degli armeni, veniva subito risposto che non si potevano fare paragoni. Si voleva avere l’unicità: a nessuno al mondo è successo qualcosa come quello hanno subito gli ebrei. Esiste un momento di unicità nell’Olocausto, ma proprio questo andrebbe generalizzato nel senso di dire che gli esseri umani sono in grado di fare questo ad altri esseri umani, che di questo sono capaci.
*Ha collaborato Shmuel Sermoneta-Gertel
Commenta (0 Commenti)*Questa intervista all’ultimo segretario del Pci andrà in onda mercoledì 31 gennaio alle ore 21 sul nostro sito, manifesto.it. Il progetto di manifesto tv è stato accolto con grande partecipazione e sostenuto economicamente dai nostri lettori. «C’eravamo tanto odiati» è il titolo del programma dedicato al trentennale della «discesa in campo» di Berlusconi e alla sua eredità nell’Italia di oggi, governata dalla estrema destra.
ACHILLE OCCHETTO. La destra non dice mai la stupidaggine che sento dire alla sinistra: che non si fa la battaglia «contro». Ci sono momenti storici in cui il «contro» contiene in sé potenzialità positive
Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi - LaPresse
Segretario tutti ricordano quello storico faccia a faccia negli studi di Canale5. A un certo punto Berlusconi rilancia la promessa di un milione di posti di lavoro. È la prima fake-news, la prima bufala del berlusconismo.
Come dissi già dopo quell’incontro, senza peraltro essere creduto, ci trovavamo di fronte a una fase nuova della politica, che non era tanto, come si è detto, del passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica, ma del passaggio dalla repubblica dei partiti alla repubblica del populismo. Quello fu il primo esempio di comunicazione populista. Basti pensare che in quella trasmissione mi industriavo a spiegare che bisognava passare, anche a sinistra, da una vecchia visione statalista a un nuovo rapporto tra pubblico e privato, in cui naturalmente ci fosse una preminenza del pubblico che trasformava anche il privato. Improvvisamente mi sento uno che dice, io do ai cittadini italiani un milione di posti di lavoro in più. Populismo per populismo cosa dovevo dire “e io ne do 1 milione e mezzo!”? Ed è chiaro che qui nasce la difficoltà di comunicazione tra pensiero politico e fake-news populista.
Dopo 30 anni, al posto di Berlusconi abbiamo il governo di Giorgia Meloni. Questa destra rispetto a quella di allora, è più forte. E se sì, perché?
Se sia più forte non lo so perché Berlusconi è durato abbastanza, anche se dentro un quadro che non era ancora destra-destra. Oggi abbiamo una novità forte di cui Berlusconi è stato l’apprendista stregone: l’elemento di menzogna che c’era allora, ovvero la rivoluzione liberale, che ha ingannato molti, non c’è più, c’è invece la destra-destra che ha una maggiore forza come violenza comunicativa ma che probabilmente ha i piedi d’argilla. Non credo possa durare il tempo che è durato il berlusconismo in Italia.
La classe politica di allora era politicamente più qualificata di quella che ci ritroviamo oggi?
Sicuramente, in tutti gli ambiti, anche nell’ambito berlusconiano, bisogna ammetterlo. Proprio perché Berlusconi si era presentato con tante facce: la faccia giustizialista, la faccia nazionalista rappresentata dall’alleanza con il Movimento sociale, e quella invece di destrutturazione dello Stato con la Lega. E soprattutto quella di mallevadore sociale di una pretesa rivoluzione liberale che ha ingannato anche uomini di prima qualità, come Antonio Martino, che ho apprezzato diventando poi suo amico e che, non a caso, è di quelli che hanno abbandonato Berlusconi.
Tra le teste pensanti ricordo un intellettuale come Lucio Colletti….
E c’erano persino i radicali…
Trent’anni dopo, al posto di Occhetto e Berlusconi abbiamo Elly Schlein e Giorgia Meloni. Due donne, un cambiamento antropologico, profondo, radicale, segno dei tempi. Ma è tutto oro quel che luce? È un cambiamento destinato a durare?
Che nei punti alti della politica italiana, ci siano oggi due donne, è un fatto storico importante. Naturalmente non è tutto oro, dobbiamo valutarlo sul comportamento. Perché già il fatto che si parli prevalentemente di uno scontro al femminile è qualcosa di antifemminista, somiglia a una ghettizzazione di donne che si considera possano parlare dentro un arco che non è l’arco generale della politica. La misura sarà se queste donne sapranno portare il femminismo al governo del paese, il che vuol dire se non accetteranno di entrare nel sistema di potere maschile costruito sulla loro esclusione. A partire, lo voglio dire subito, da un punto centrale: quello della lotta alla personalizzazione e al leaderismo.
Veniamo al nostro campo. Rispetto a trent’anni fa, ai tempi dell’Ulivo, quando lo schieramento era ampio e articolato, ora che abbiamo il Pd, i 5Stelle, e forze minori, è più debole?
Lo schieramento, in partenza e in teoria, rispetto alle potenzialità di voto del ’94, direi che è più forte. Noi abbiamo un’area disponibile all’alternativa più ampia di quella che poi concretamente si manifesta nella capacità politica di federare questa area, come si dice adesso. Non mi riferisco tanto ad alcune differenze programmatiche, certo non irrilevanti, ma soprattutto al fatto che, nelle elezioni che ci attendono, c’è più il tentativo di fare una lotta dentro le coalizioni piuttosto che l’esigenza di una prospettiva unitaria.
Il messaggio delle piazze tedesche è a tutte le forze politiche
Ma perché la destra riesce sempre, anche se divisa (come nello scontro per le elezioni regionali), a marciare compatta, mentre la sinistra sembra condannata alle divisioni perenni?
La destra-destra è più realistica e più cinica. È più disposta, quando si deve fare la lotta contro l’avversario, a mettere da parte le divisioni interne e unirsi. La destra non dice mai la stupidaggine, che sento dire a sinistra, che non si fa mai la battaglia “contro”. La destra fa la battaglia “contro”, perché nella battaglia “contro” c’è anche la battaglia “per”, ed è una cosa che la sinistra non capisce: tu certamente devi essere organico sulle prospettive, ma ci sono dei momenti storici in cui il “contro” contiene in sé delle potenzialità positive e quindi, in questo caso, devi essere disposto a mettere da parte quello che divide e privilegiare quello che unisce.
Tra le cose che dividono il Pd dai 5Stelle c’è anche il giudizio su come comportarsi nella guerra in Ucraina, e anche all’interno del Pd c’è maretta.
È una divisione che speriamo legata a un periodo, perché già sull’altro momento drammatico di Israele e Palestina, invece, vediamo che questo non si sta manifestando. Sull’Ucraina si dovrebbe trovare una via d’uscita che non è il mantenere puntigliosamente la posizione di partenza. La sinistra potrebbe unirsi sulla prospettiva, perché su un nuovo ordine internazionale ha molto da dire. Basterebbe che si capisse che sulla vicenda della guerra in questo periodo non influisce nessuno in Europa, mentre l’Europa può influire per offrire un’altra visione del mondo. Basta cambiare tema e invece il tema viene utilizzato per dividersi.
Stiamo correndo verso cruciali elezioni europee, il momento è drammatico, attraversato da guerre, oltre che da elezioni in mezzo mondo, dagli Stati uniti alla Russia. Siamo giunti a un momento di svolta?
Purtroppo non stiamo comprendendo che queste sono elezioni decisive: se l’Europa sposta il suo asse politico a destra, sullo sfondo di elezioni americane che portano al potere Trump, addio democrazia occidentale, la liberal-democrazia sarà sempre di più una pelle di zigrino che si restringe, circondata, ad est e a ovest, da poteri autoritari. L’Europa deve capire che intanto c’è una crisi della democrazia liberale. Indubbiamente bisogna fare un tagliando a questa democrazia, ma andando nella direzione opposta da quella della personalizzazione, dell’elezione diretta del premier. Bisognerebbe muoversi nella direzione della cittadinanza attiva, della partecipazione popolare, di un rapporto democratico più intenso con le persone, con la popolazione. Per questo dico: siete degli irresponsabili se ritenete che questa campagna elettorale serva per misurare i rapporti di forza interni ai vari partiti e tra i partiti, non capite il pericolo storico che sta di fronte a noi. Siete irresponsabili di fronte alla storia.
A proposito di questioni di piccolo cabotaggio: la segretaria Schlein deve candidarsi?
Sono abbastanza d’accordo con i consigli di Prodi, però voglio dire che non sono disposto al mainstream dell’ipocrisia che finge di non vedere che non c’è nobiltà nelle preoccupazioni di quelli che oggi stanno assediando Schlein, ma soltanto strumentalità. Qualcuno ha detto che se si candida perde, se non si candida perde lo stesso perché diranno che non ha avuto coraggio. Io dico invece che c’è una via d’uscita semplice: consultare il proprio partito, magari non così capillarmente perché non si fa in tempo. Per mettere sul piatto della bilancia una questione di carattere molto realistico: il gioco vale la candela? Io non so dirlo, non sono nei giochi. Ma si deve capire fino a che punto violare un principio per cui, come è anche giusto, non ci si può candidare per poi non andare in parlamento. Perché, invece, se questo, lo dico francamente, fosse la carta vincente per sconfiggere Meloni, non avrei dubbi. Bisogna calcolare costi e benefici.
INTERVISTA. Il segretario Si Nicola Fratoianni su guerra, destre e voto europeo: «Ci saremo, con la pace come primo punto. Ma coi nostri simboli»
«A Gaza è in corso uno sterminio, Netanyahu sia processato per crimini di guerra»: la petizione lanciata qualche giorno fa da Alleanza Verdi Sinistra ha raccolto finora trentamila adesioni. «L’abbiamo lanciata per chiedere che l’Italia sostenga la causa aperta dal Sud Africa alla Corte dell’Aja – spiega Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana – Siamo di fronte a uno sterminio, forse un genocidio. Come dovremmo chiamare una guerra che si abbatte da settimane contro gli abitanti di Gaza, che muoiono solo perché palestinesi? Non esiste più un luogo sicuro, bisogna solo sperare di non finire sotto le bombe. Occorre un sussulto della comunità internazionale e dei governi. Io credo che l’unica cosa che non sia più consentita sia il silenzio o i timidi appelli al senso di responsabilità rivolti a un governo, quello israeliano, che ha dimostrato di non avere alcune responsabilità e travolgere i principi del diritto umanitario internazionale»
Come mai il governo Meloni non prende parola?
In questi mesi ha detto che Israele poteva difendersi ma nell’ambito del diritto internazionale, proteggendo la popolazione civile e nella prospettiva del ‘Due popoli, due stati. Quando prenderanno atto che il diritto internazionale è stato travolto, che la popolazione civile viene colpita e che Netanyahu ha dichiarato esplicitamente che fin quando sarà lui al governo non nascerà mai uno stato palestinese? Serve discontinuità, lo dico per palestinesi soggetti al massacro e per Israele e la sua sicurezza: se la comunità internazionale non mette fine a questo massacro si va incontro alla cancellazione di ogni prospettiva di pace.
Le parole di Elly Schlein degli ultimi giorni rappresentano un salto di qualità?
Noi fin dal 7 ottobre abbiamo detto con fermezza che condannavamo Hamas ma che non avremmo consentito trasformare il bisogno di giustizia in ricerca di vendetta. Lo abbiamo fatto con le interrogazioni, nei question time, nel dibattito parlamentare. È positivo che su questo Schlein si sia espressa e si possa creare un fronte ampio. Non riguarda solo l’opposizione al governo, ha a che fare con la pace e con l’evidenza di una necessità di un sussulto. Serve un salto di qualità, non possiamo rifugiarci nel cortile della retorica. Ma di tutto ciò non abbiamo visto traccia perché è evidente che senza iniziativa internazionale che fermi la guerra di sterminio non è possibile neanche un intervento di carattere umanitario.
Lei aveva lanciato dal pulpito del congresso di Si la proposta di agire in comune alle altre forze d’opposizione, a partire da alcuni temi sui quali esiste già unità d’azione. Il suo appello non ha raccolto grandi consensi…
Mi pare che si continui ad andare colpevolmente in ordine sparso, anche sulle proposte sulle quali c’era convergenza. Tanto più che la convergenza bisogna costruirla anche su altri temi. Il dato preoccupante è che la maggioranza costruisce la propria unità attorno al potere mentre opposizione continua ad essere indietro e immatura. La costruzione dell’alternativa non può essere derubricata né rinviata a ultimo momento. Immaginare che la coalizione si faccia alla fine è un errore esiziale. La destra ha costruito un’idea di società e sulla base di essa ha creato egemonia e consenso. Non ha la maggioranza nel paese, per questo occorre rimotivare al voto le persone e costruire un’alternativa possibile. Noi, con le nostre posizioni, continuiamo a dire agli altri: «Se non ora, quando?».
Le elezioni europee si giocheranno sul tema della pace e della guerra?
Da anni e anni che le forze della sinistra ed ecologiste a ogni elezione cambiano simbolo, nome e forma. Invece serve la continuità di un proposta politica e della sua rappresentazione simbolica. Alleanza Verdi Sinistra ci sarà attorno a tre nodi. Intanto, la pace: perché immaginare un mondo diverso senza pace è impossibile. Se c’è la guerra non si può pensare alla transizione ecologica e alla giustizia sociale, le due grandi contraddizioni che si tengono una con l’altra. L’Europa non è solo decisiva con la sua unità, il futuro passa dalla sua autonomia strategica sul terreno della pace e del disarmo e sul terreno delle scelte ambientali e sociali. Senza questi temi l’Europa rischia di scomparire
Commenta (0 Commenti)
L’APPELLO ALLA SINISTRA. Abbiamo letto l’appello per una lista unica alla sinistra del Pd in occasione delle prossime elezioni europee di giugno, pubblicato dal manifesto, a firma di Emilio Molinari e Basilio Rizzo. […]
Abbiamo letto l’appello per una lista unica alla sinistra del Pd in occasione delle prossime elezioni europee di giugno, pubblicato dal manifesto, a firma di Emilio Molinari e Basilio Rizzo. Lo condividiamo nella sostanza e siamo ben felici se si comincerà finalmente a prendere apertamente un’iniziativa che vada in quel senso: lista unica o almeno passi concreti in quello spirito.
Elezioni del 2024: una lista unica a sinistra
L’estendersi dei teatri di guerra ha messo a nudo l’inerzia della Unione europea, adattatasi rapidamente al più piatto filoatlantismo. L’ultimo voto di Strasburgo su una proposta del Ppe, sostenuta non solo dalle destre, ma anche da rilevanti settori progressisti, nella quale si è voluto anteporre condizioni al cessate il fuoco, mostra non solo l’assenza di un ruolo a favore della pace da parte del Parlamento europeo, ma l’assuefazione della attuale maggioranza ad una logica di prosecuzione di un conflitto che sta portando allo sterminio dei palestinesi e alla distruzione di Gaza. E ciò stride con il fatto che alla Corte Internazionale di Giustizia si discute dell’accusa di genocidio portata dal Sudafrica nei confronti di Israele.
Le cose non vanno meglio sul terreno delle politiche economiche e sociali, visto che si sta preparando un ritorno di fatto delle vecchie regole del Patto di Stabilità e Crescita, sospese durante la pandemia. Proprio la mancata crescita declina la stessa approvazione del Mes con la vecchia e inefficace politica dell’austerità. Le linee del Next generation Eu rimarrebbero, quindi, una parentesi da cancellare, anziché l’apparire di un possibile percorso verso un bilancio europeo utile per sostenere la transizione ecologica, nonché gli investimenti di carattere sociale, capaci di dare risposte occupazionali e di sostegno al welfare state.
In tale quadro, si impongono soluzioni istituzionali autoritarie, come è evidente in Italia, funzionali ad orientamenti economico-sociali regressivi, xenofobi e razzisti, di cinica chiusura verso i processi migratori.
Per tali ragioni il voto di giugno diventa importante, se si vuole mantenere viva la speranza. Purtroppo, le sinistre di alternativa hanno subito in diversi paesi sconfitte e divisioni. A maggior ragione è necessario che non si disperdano voti alla sinistra del Pd.
Le scadenze elettorali non sono l’occasione propizia per dare vita a nuovi soggetti politici. Quest’ultimo compito va ben al di là delle urne. Tuttavia, se nessuna lista di alternativa ottenesse il quorum nel voto, tale obiettivo si allontanerebbe ulteriormente.
Per questo, chi ha la responsabilità di guidare forze politiche che si collocano alla sinistra del Pd dovrebbe porsi l’obiettivo di un’unica lista, costruita attorno a un programma essenziale, nel quale trovino posto la pace, la difesa del pianeta dalle alterazioni climatiche, una svolta nelle politiche economiche caratterizzata da un intervento pubblico in settori innovativi in grado di creare occupazione, la tassa patrimoniale, la difesa e l’estensione dello stato sociale contro le privatizzazioni, la tutela e l’ampliamento dei diritti, la lotta contro il patriarcato, l’istituzione di un reddito di cittadinanza e del salario minimo, l’apertura delle frontiere e l’attuazione di una politica di accoglienza per i migranti, la salvaguardia del pensiero critico e della libertà di informazione.
Tutto ciò mette in discussione i pilastri e i vincoli del Patto di Stabilità e punta ad una riforma in senso solidale dei Trattati su cui si basa l’Ue.
Sono solo alcuni punti di riferimento, da approfondire e articolare ulteriormente in un confronto aperto e reale.
Ed è quello che si può e si deve fare assieme ai movimenti politici e sociali che in questi anni hanno fatto vivere una sinistra diffusa nel paese. Dare a quest’ultima una rappresentanza, pur caratterizzata da diverse ma non confliggenti sensibilità, è un obiettivo alla nostra portata. Non manchiamolo
Commenta (0 Commenti)GAZA E LA CORTE DELL'AJA. L’identità israeliana si costruisce nell’identificazione con le vittime della Shoah fino al punto di iscriversi nel concetto di genocidio. E dunque che il genocidio sia perpetrato invece che subito, è inconcepibile
Il team legale sudafricano alla Corte internazionale di Giustizia lo scorso 11 gennaio - Ap/Patrick Pos
«Lo stato di Israele sa fin troppo bene perché la Convenzione sul genocidio, che è stata invocata in questo procedimento, fu adottata». Si apre così l’arringa di Tal Becker, il primo avvocato della squadra di difesa israeliana alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja. La «memoria collettiva di Israele» è evocata immediatamente dopo, insieme con il richiamo a Raphael Lemkin, il giurista ebreo polacco che coniò il termine.
Non gli bastava – aggiungiamo noi – il termine «sterminio» usato a Norimberga, e neppure «crimine contro l’umanità», coniato da Hersch Lauterpach, un altro giurista sopravvissuto alla Shoah. Uccidere persone perché appartenenti a un certo gruppo e con l’obiettivo di sradicarlo è peggio che ucciderle senza questa specifica intenzione. Che è poi la parte dell’accusa più difficile da provare, nonostante le oltre 60 citazioni e le 9 pagine di riferimenti ad alti funzionari israeliani, non sanzionati dal loro governo.
È di questo «elemento soggettivo» che vogliamo occuparci: delle sue implicazioni psicologiche e morali ma anche filosofiche, sia dal punto di vista degli accusatori che degli accusati. Sgombriamo anzitutto il terreno dagli equivoci. La Corte non è chiamata nell’immediato a un verdetto di innocenza o colpevolezza: ma solo a determinarsi sulla possibilità che un genocidio sia in atto, e solo in questo caso ad accogliere (eventualmente) la richiesta di misure precauzionali come il cessate il fuoco. Sarebbe ridicolo che quel verdetto pretendesse di anticiparlo chi scrive.
La questione è un’altra. Qual è il senso dell’accusa? Ancora. La Corte ha giurisdizione sulle controversie fra stati, ma solo se questi l’accettano, o una tantum o nelle clausole dei loro trattati. Israele l’ha accettata praticamente solo per questo trattato così fondante per la sua legittimità: la Convenzione sul genocidio.
Genocidio, olocausto non siano indistinta «banalità del male»
Per questo ha dovuto prima sorgere una controversia fra il Sudafrica e Israele, perché i Sudafricani potessero presentare alla Corte la loro accusa di genocidio, prima comunicata a Israele e respinta. A questo punto l’Art. 9 della Convenzione «obbligava» Israele a difendersi in Corte.
E ora torniamo alle arringhe difensive. L’argomento di Becker torna continuamente: che sia accusato di genocidio proprio Israele, fondato sulla «memoria collettiva» del male «unico», «eccezionale», «assoluto» subito dagli ebrei, per il quale fu inventata questa fattispecie di reato, è inaudito. Una sorta di contraddizione «genetica» (Giacomo Costa, Affaritaliani.it, 16/1).
«L’accusa è assurda perché mossa nei confronti di uno stato nato, lo ricordo, dalla Shoah». Questa stessa tesi, espressa il 9 gennaio dall’avvocato internazionalista Giorgio Sacerdoti, la trovate come argomento cardine di tutte le arringhe difensive, insieme all’altra complementare: accusare proprio Israele di genocidio svuota di senso il termine, lo banalizza. Ecco: ma perché? Come comprendere più in profondità il senso di questo che sarebbe di per sé evidentemente un non sequitur?
Perché ci sia intento genocida, la vittima designata deve essere presente, e in modo quasi ossessivo, alla mente del suo carnefice. Ora, onestamente, chi potrebbe dire che i palestinesi siano stati presenti alla mente della maggioranza degli ebrei israeliani in una società che, come quella israeliana, era letteralmente costruita come un sistema di invisibilità – architettonica, logistica, segnaletica, linguistica e culturale – nei confronti delle popolazioni dei territori occupati, ridotti allo status generico di «stranieri» – o al più soltanto «terroristi» – da cui difendersi, invece che sfollati superstiti di una popolazione residente da una dozzina di secoli almeno in Palestina?
È questo «elefante nella stanza» che nessuna delle crisi passate ha reso tanto visibile quanto il tremendo eccidio del 7 ottobre. Si parva licet, conosciamo questo meccanismo. Distolgo istintivamente lo sguardo da qualcosa, senza volerlo sapere. Ma se qualcuno mi costringe a guardare, la mia reazione può essere feroce. In fondo, l’othering, la disumanizzazione annichilante, era già nel sogno dei padri fondatori: una terra «senza popolo» per un popolo senza terra.
Ecco perché l’argomento principale dell’accusa è stato la «contestualizzazione» dello sterminio di Gaza: certo in rapporto all’eccidio criminale del 7 ottobre, ma anche in rapporto all’intera storia della pulizia etnica della Palestina storica, prima e dopo il 1967 e il regime di occupazione dei territori destinati dall’Onu alla Palestina. Come dire: ignorare la vittima che stermini, mentre la stermini, non solo non cancella l’intento genocida, ma semmai l’aggrava, come se tu avessi anticipato l’annientamento in forma di negazione del vero: «Non esistono».
Nurit Peled Elhanan, già docente alla Jerusalem University, illumina questo buio nel suo ultimo libro (Holocaust Education and the Semiotics of Othering, 2023), riconducendo la rimozione (l’elefante ignorato) proprio a una politica della memoria: l’identità israeliana si costruisce nell’identificazione con le vittime della Shoah fino al punto di iscriversi nel concetto di genocidio. E dunque che il genocidio sia perpetrato invece che subito, è inconcepibile. Ma questa è una memoria centripeta: dice «mai più questo deve accadere a noi». E non invece «a nessuno». Solo quest’ultima sarebbe una memoria «universale». L’avevo chiamata kantianamente «memoria del diritto» (17 gennaio). Nurit la chiama «memoria centrifuga».
Questo vorrei rispondere a Roberto Della Seta, che ieri ha avanzato riserve sulla portata etica dell’accusa sudafricana (oltre che sulla sua correttezza giuridica e opportunità politica). In etica – e relativamente alla mente umana – le questioni sono più complesse di come paiono. È bene ricordarlo, alla viglia della Giornata della Memoria.
Commenta (0 Commenti)INTERVISTA AL PARLAMENTARE INDIPENDENTE DEL PD. Il rappresentante di Demos: le parole della segretaria? Più che una svolta, l’evoluzione davanti a un dramma di oltre 100 giorni. Il «cessate il fuoco in cambio del rilascio degli ostaggi» si sta facendo strada ovunque
Pacifisti alla marcia Perugia-Assisi
Onorevole Paolo Ciani, seppur da indipendente, lei che è stato il primo nel Pd a portare avanti le tematiche pacifiste, le parole della segretaria Elly Schlein a Gubbio sono una svolta nella posizione del partito?
Più che una svolta sono l’evoluzione davanti al dramma a cui stiamo tutti assistendo a Gaza. La preoccupazione di Elly Schlein per il dramma umanitario non è una novità ed stata ribadita nelle ultime settimane con grande forza e attenzione.
Però è la prima volta che parla esplicitamente di «crimini di guerra» rispetto al comportamento di Israele, tanto è vero che gli ex renziani sono già sul piede di guerra…
Non ho colto differenze. Negli atti parlamentari e negli interventi pubblici, va riconosciuta grande coerenza nei suoi comportamenti. A partire dalla denuncia della gravità degli atti perpetrati da Hamas il 7 ottobre, Schlein ha prima certamente appoggiato la reazione di Israele ma poi è prevalsa la preoccupazione per l’escalation degli attacchi su Gaza. Ora sono passati oltre 100 giorni ed è sotto gli occhi di tutti come la strategia di Israele non stia portando da nessuna parte. Peraltro la richiesta di “cessate il fuoco” legata alla liberazione degli ostaggi è ormai largamente condivisa a livello internazionale, in primis dall’amministrazione Biden. È evidente che esiste una sensibilità diffusa per il cessate il fuoco che aumenta giorno dopo giorno.
La novità riguarda però anche il no all’invio di armi tout court, una sorta di tabù per il Pd, fin dalla nascita…
Sulla vendita delle armi in realtà l’Italia ha già una legge che vieta la vendita a paesi in guerra e la segretaria ha fatto bene a ricordare anche la posizione del parlamento europeo.
Lei comunque ora si sentirà meno solo, finora era l’unico a portare avanti le istanze pacifiste nel Pd…
In realtà ci sono molti altri che nel Pd stanno portando avanti la proposta di cessate il fuoco: da Arturo Scotto a Roberto Speranza che sono andati in Palestina in questi mesi a Peppe Provenzano. Io sono un pacifista storico e queste istanze le ho portate avanti anche sulla guerra in Ucraina, ma sono esterno al partito. Devo però sottolineare che, pur facendo parte di Demos, ho potuto farlo con grande libertà e senso di responsabilità. Se all’interno del Pd non ho avuto problemi, mi lasci dire che sono state riprovevoli alcune caricature grottesche delle mie posizioni – «amico di Putin» – da parte di chi – la destra – amica di Putin è sempre stata.
Non pensa che il Pd avrebbe preso molti più voti sposando prima e meglio le posizioni pacifiste?
Già in campagna elettorale avevo avuto la sensazione che il pacifismo facesse breccia fra gli elettori e dunque rivendico la giustezza della mia posizione. Io continuerò con Demos a portare avanti queste posizioni che sono di contrarietà alla guerra e di lotta per la pace che hanno grande spazio nel paese denunciando come l’Unione europea sia silente: l’unica che non ha un rappresentante per la pace, a differenza del Vaticano e della stessa Turchia.
Il pacifismo può essere la leva per costruire il famoso «campo largo» del centro sinistra?
Penso che dovrebbe esserne l’asse portante. Il tema della pace è molto sentito. Finora il Pd aveva posizioni più defilate rispetto a quelle di M5s e Alleanza Verdi Sinistra. Lo sono molto meno i cosiddetti centristi che dovrebbero far parte dell’alleanza di centro sinistra. Detto questo, dovremmo preoccuparci di più della sensibilità sul tema degli elettori rispetto a quella dei partiti. Sono loro che devono votarci.
In vista delle Europee, il risultato del Pd potrebbe essere decisivo per il futuro politico di Elly Schlein. Lei le consiglierebbe di mettere in lista molti pacifisti?
Non so se sarà decisivo per il suo futuro. Io di certo lo auspico fortemente e mi sto impegnando e lavorando giorno dopo giorno perché nelle liste del Pd alle Europee siano candidati esponenti della società civile convintamente su posizioni pacifiste
Commenta (0 Commenti)