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IL RITORNO DEL LABOUR. Starmer vince, ma non convince. Una formula abusata, che in questo caso non è fuori luogo. La maggioranza numerica del Labour in parlamento è ampia, e la sconfitta dei Tories […]

Un leader ambiguo, lontano anche dalla Terza via Il nuovo primo ministro britannico del Partito laburista Keir Starmer a Downing street - foto Ap

Starmer vince, ma non convince. Una formula abusata, che in questo caso non è fuori luogo. La maggioranza numerica del Labour in parlamento è ampia, e la sconfitta dei Tories è schiacciante. L’analisi del voto, e i dati sull’affluenza, rivelano tuttavia una situazione diversa rispetto a quella in cui il Regno Unito si è trovato l’ultima volta in cui i Laburisti sono andati al governo, guidati da Tony Blair, in seguito a una landslide (valanga) di suffragi nel 1997.

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Anche nel 1997 i Tories avevano perso la fiducia del paese (la crisi monetaria del Black Wednesday nel 1992, e diversi scandali, avevano lasciato il segno), ma l’economia dava chiari segni di ripresa, e Blair sapeva di poter contare su un certo margine per gli interventi di spesa sociale annunciati nel manifesto del partito. Oggi Starmer ha tratto vantaggio da un partito Conservatore la cui credibilità è distrutta, forse in modo irrimediabile, ma prende la guida del governo in una situazione, non solo economica, di gran lunga peggiore rispetto a quella della fine degli anni Novanta. Nelle elezioni che videro il trionfo del New Labour era già presente il tema del rapporto con l’Europa, ma i candidati del Referendum Party, presenti in molte circoscrizioni, non riuscirono a entrare in parlamento. A guidare i Tories erano figure come John Major (che dopo aver rassegnato le dimissioni andò ad assistere a una partita di Cricket) e Kenneth Clarke.

Uomini dell’ala moderata del Thatcherismo, che infatti si sono schierati in tempi recenti contro il loro partito sulla Brexit.

Nell’atmosfera di fiducia nel futuro seguita alla fine della guerra fredda, Tony Blair poteva credibilmente puntare a rappresentare una versione aggiornata del Laburismo di Harold Wilson, progressista sul piano dei costumi e inclusivo dal punto di vista sociale.
Questo era il senso del New Labour, che trovava in tendenze analoghe negli Stati Uniti e in Europa interlocutori simpatetici. Una manifestazione chiara della diversa atmosfera che accoglie Tony Blair quando si reca a Buckigham Palace a ricevere l’incarico dalla regina si vede nei filmati di allora. Con uno strappo al protocollo, Blair e la moglie entrarono nella residenza reale a piedi, attraversando una folla in festa, che li salutava con entusiasmo. All’ingresso di Downing Street Blair dice poche parole (pare che per scaramanzia non avesse preparato un discorso formale) con un messaggio tutto in positivo.

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Molto diverso invece il discorso tenuto ieri da Starmer, davanti a una platea di militanti. Ripete ossessivamente la parola «cambiamento» e si riferisce molto spesso alla «nazione». Insiste sul fatto che il partito è cambiato, e poiché lo ripete di continuo in circa mezz’ora assume un tono apologetico, che era estraneo allo spirito del discorso di Blair nel 1997. Dice che il partito «cambiato» metterà al primo posto il paese, e che ne proteggerà i confini. Formule che riecheggiano temi centrali per la destra nazionalista, e la seconda non appare lusinghiera per quei quadri del partito che rappresentano la continuità rispetto agli anni di Corbyn e di Ed Miliband.

Solo negli ultimi dieci minuti c’è un accenno, brevissimo, a un tema classico della sinistra, quando rievoca il senso di sicurezza che la generazione dei suoi genitori aveva nel vivere in un paese in cui si poteva sperare in un futuro migliore per i propri figli. Su come si dovrebbe restaurare questo senso di sicurezza però non dice nulla.
La parola «fairness», centrale nel discorso del New Labour non viene mai pronunciata, e nemmeno parla di giustizia o eguaglianza.
Sullo sfondo ci sono seri dubbi, sollevati da molti osservatori, sulla solidità di una maggioranza che è ampia, ma che potrebbe rivelarsi fragile. Sul piano delle politiche sociali la sua preoccupazione principale in campagna elettorale è stata non spaventare gli investitori e le imprese.

L’impegno ribadito più volte per il rispetto della disciplina fiscale lo ha spinto a rinnegare misure popolari, su cui in passato aveva espresso un parere positivo, come quella che eliminerebbe i limiti imposti dai Tories ai benefici per le famiglie che hanno più di due figli. Questo, in un paese con un grave problema di povertà infantile, non è un segnale incoraggiante. Possibile che alcune di queste posizioni vengano riviste, ma sarebbe un nuovo cambio di direzione per un leader che ha già mostrato una certa disinvoltura nel rinnegare impegni presi in precedenza.

C’è poi il tema della Palestina, che ha provocato fratture che hanno avuto conseguenze importanti nel voto (anche nel suo collegio, dove Starmer ha perso molti voti a favore di Andrew Feinstein). Un dissenso che è stato soffocato, con metodi piuttosto sbrigativi, ma che potrebbe riesplodere trovando anche una sponda in parlamento (oltre a Jeremy Corbyn, sono stati eletti quattro parlamentari indipendenti su una piattaforma di difesa dei diritti dei palestinesi, e su questo tema i malumori ci sono anche nel partito).
Insomma, Starmer è per molti versi un’incognita, con ambiguità e debolezze, non un ritorno alla Terza Via

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LE AMBIGUITÀ DEI VERDI. Nel Parlamento europeo le famiglie “partitiche” transnazionali configurano equilibri che rischiano di non riflettere le preferenze degli elettori

C'erano una volta i Verdi tedeschi | il manifesto

Nel Parlamento europeo le famiglie “partitiche” transnazionali configurano equilibri che rischiano di non riflettere le preferenze degli elettori. Ciò è tanto più vero nel caso di meccanismi di formazione del consenso fortemente dipendenti da “single issue voters”, cioè elettori ed elettrici che hanno votato soprattutto per una questione specifica o che sono stati attratti da candidati molto riconoscibili, vuoi per posizione pubblica, vuoi per biografia personale. Se pensiamo, per esempio, alla composizione del gruppo dei Verdi europei non possiamo non notare la presenza di eletti appartenenti a partiti la cui linea politica contraddice quella del sottogruppo più forte, cioè i verdi tedeschi. Il punto non può essere del tutto ignorato, specie se le questioni dirimenti e che hanno indirizzato il voto si richiamano reciprocamente. La singola istanza “verde” non è sufficiente.

Il problema assume una portata anche maggiore quando gli eletti, che comunque fanno riferimento a un programma univoco del partito di appartenenza, si dividono tra gruppi parlamentari che sono in contraddizione palese su temi cruciali. Il gruppo verde europeo, appunto, è unito dalla sacrosanta centralità del tema ambientale, ma è invece molto ambiguo, fluido si potrebbe dire, sui temi di politica internazionale.

Per esempio, la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock è stata in prima fila nel sostegno, per lunghi mesi largamente incondizionato, a Israele. È anche una esponente di punta di un governo che si è distinto nella repressione del dissenso pro-Palestina, che ha messo a repentaglio diritti democratici che un sistema liberale dovrebbe dare per scontati, dalla libertà di espressione a quella di manifestazione – fino alla notizia, riportata pochi giorni fa – che gli immigrati in Germania richiedenti cittadinanza dovrebbero dichiarare come condizione necessaria il diritto di Israele ad esistere.

Le cose non vanno meglio, anzi, per quel che riguarda la guerra in Ucraina. I Verdi tedeschi sono senza dubbio il partito della coalizione tedesca che più spinge per il sostegno militare all’Ucraina, come infatti riportato da il manifesto qualche mese fa. E d’altronde il problema non sono solo i Verdi tedeschi, se lo stesso “Manifesto dei Verdi” è molto chiaro sul continuare ad armare Kiev perché – si sostiene – è attraverso la difesa armata dell’Ucraina che passa la sicurezza europea. Temi, questi, che rimandano a un posizionamento politico più ampio, se pensiamo che il gruppo dei Verdi era più che interessato a entrare nella maggioranza Ursula. Un’alleanza davvero lontana da quanto sostengono, per esempio, i Verdi italiani. Dal punto di visto politico, sarà interessante capire come e quando queste distanze si faranno sentire ed, eventualmente, saranno affrontate nel discorso pubblico.

Il punto in parola non riguarda certo le posizioni dei singoli o casi specifici, quanto la presenza di famiglie politiche europee che sono ormai obsolete rispetto alle dinamiche nazionali. Ciò è particolarmente vero per un gruppo come quello dei Verdi che, pur nascendo da posizioni politiche radicali, soprattutto sulla guerra, si tende a caratterizzare a livello europeo per il solo tema ambientale. Si tratta certamente di un tema centrale, se non decisivo per il futuro dell’intero globo, ma che se isolato da un quadro di priorità più generale lascia troppi spazi di ambiguità su altre dirimenti questioni.

I Verdi hanno avuto un ruolo centrale nel ridefinire l’agenda pubblica e non può esistere una forza di sinistra che non combatta anche lo sfruttamento delle risorse naturali, non diverse da quelle umane, legate ad una logica di profitto a tutti i costi e di mercificazione incipiente, con quel che ne consegue per clima e biodiversità. E dall’altra parte, come recita un vecchio adagio, l’ambientalismo senza socialismo è solo giardinaggio. La composizione e ricomposizione di queste tematiche – a cavallo tra i partiti nazionali e le alleanze europee – è uno dei temi da affrontare in un quadro di politica multi-livello, non dimenticandosi che il consenso politico, se vuole essere durevole, richiede la costruzione e l’attuazione di un quadro di coerenza generale tra le singole questioni

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I NUMERI. A costo di peccare di eccessivo ottimismo, ci pare di poter dire che in Francia la partita è ancora molto aperta. Non solo non è scontata la maggioranza assoluta al […]

 

A costo di peccare di eccessivo ottimismo, ci pare di poter dire che in Francia la partita è ancora molto aperta. Non solo non è scontata la maggioranza assoluta al Rassemblement national, ma forse i rapporti di forza nella futura Assemblea nazionale potranno risultare sorprendenti, alla luce della facili, e precarie, “forchette” che sono state diffuse domenica sera. Il fattore decisivo, com’è noto, saranno le desistenze: ma qui, bisogna guardare prima i dati e le mappe.

Su scala nazionale, il Rn ha ottenuto il 33,2% (11 milioni e 600 mila voti, tra cui gli ex-gollisti); il Nfp il 28,3% (9 milioni di voti), il centro macroniano il 22,8% (Ensemble a altri, 7 milioni e 300 mila voti); i gollisti “ortodossi” il 7,2% (2 milioni e 300 mila). A questi va aggiunto un altro mezzo milione di voti raccolti da candidati etichettati come «diverse gauche» (1,6%), in genere candidati socialisti o France Insoumise (Fi) dissidenti, che non hanno avuto la nomina ufficiale dei partiti, ma hanno deciso di correre ugualmente (e due di loro, peraltro, sono stati già eletti al primo turno).

La somma, (28,3 + 1,6) dà il 29,9%, non molto distante dal 33 del Rn: c’è stata l’ondata di destra, ma non si può sottovalutare, per una volta almeno, la buona contro-ondata a sinistra, grazie anche (finalmente!) ad una saggia strategia di accordi elettorali. Con un sistema elettorale come quello francese, è decisiva la distribuzione territoriale dei voti: il vantaggio percentuale complessivo di Nfp su Ensemble è dovuto essenzialmente alla massiccia forza elettorale della sinistra in tutta la grande area parigina e dell’Ile-de-France; ma, nella vasta provincia francese, è spesso l’area macroniana a piazzarsi al secondo posto, dietro Rn. La logica della desistenza favore del candidato meglio piazzato, subito affermata con notevole tempismo e abilità da Mèlenchon, ha prodotto alla fine questo risultato: al momento della chiusura delle liste, ieri sera, si registrano 218 casi di desistenza, di cui 131 da parte dei candidati “terzi” della sinistra a favore dei “secondi” centristi (in qualche caso perfino a favore del candidato gollista); e 82 casi di desistenza del centro a favore delle sinistra. Un notevole sacrificio, per la sinistra, che la dice lunga, peraltro, sulla favola costruita ad arte di un Nfp egemonizzato da pericolosi estremisti.

Chi ha la pazienza di spulciarsi uno a uno questi casi scoprirà alcune cose interessanti: che, ad esempio, i casi eclatanti di rifiuto della desistenza a favore di un candidato Nfp da parte del candidato centrista non sono poi molti (ne abbiamo contato una quindicina). In molti altri casi, questi triangolari vedono in testa il Nfp o Ens, e solo in terza posizione il Rn: qui, il triangolare non danneggia il fronte anti-Rn.

Emergono anche altri elementi, che andranno meglio studiati: un notevole successo dei candidati socialisti (sarebbe una buona notizia registrare una ripresa di questo partito, annichilito dal macronismo) e l’impressione di una saggia strategia di distribuzione territoriale delle candidature del Nfp, con una maggiore presenza di socialisti e verdi nelle aree tradizionalmente più moderate. Naturalmente, il voto di domenica ci dirà se il meccanismo delle desistenze è stato apprezzato e seguito dagli elettori: in genere, si può ipotizzare una maggiore disciplina degli elettori di sinistra (nous allons la savuer, ha detto spiritosamente il segretario socialista Faure, a proposito della desistenza a favore dell’ex-prima ministra Borne, in precaria posizione in un collegio del Calvados: gli daranno retta gli elettori di sinistra, o si ricorderanno di lei per la riforma delle pensioni?); ma si può pensare ad un maggior numero di defezioni in senso inverso (verso Rn o verso l’astensione? Cambia molto). E tuttavia, anche in questo caso, guardando i dati collegio per collegio, non è necessario che tutti i voti centristi siano riportati a sinistra: in molti casi ne basta la metà.

Naturalmente, a conti fatti, si dovrà riaprire un serio discorso sulle prospettive: assistiamo in Francia al fallimento dell’ideologia «riformista» di cui Macron si era fatto espressione, salvo poi condurre politiche segnate dalla peggiore logica neo-liberista. I fantasmi di Vichy li hanno risvegliati costoro, e la sinistra è stata troppo a lungo cieca di fronte alle domande di protezione, di sicurezza sociale, di dignità del lavoro, e di fronte alle paure sollevate da questo modello di sviluppo capitalistico e dalle politiche che lo hanno assecondato. Speriamo che non sia troppo tardi

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LIBERALI IN ROTTA. Il conto dei seggi da conquistare al ballottaggio del 7 di luglio resta un arduo esercizio acrobatico. Le incognite sono molteplici, le previsioni del tutto azzardate. Ma su quello che […]

Macron in visita al museo dove è custodita la divisa del generale De Gaulle Macron al museo Ordre de la Libération, vicino all’uniforme del generale de Gaulle - Yoan Valat /Getty Images

Il conto dei seggi da conquistare al ballottaggio del 7 di luglio resta un arduo esercizio acrobatico. Le incognite sono molteplici, le previsioni del tutto azzardate. Ma su quello che è accaduto nella società francese, nonché in buona parte d’Europa, le indicazioni non mancano.

Così come non è un mistero da dove provenga la minaccia che può condurre l’estrema destra al governo di Parigi. Non da un proletariato incattivito dalla crisi, non da una società sulla quale incombano pericoli reali e nemmeno dal sempre citato disorientamento indotto dalla globalizzazione.

La cartina di tornasole si chiama Eric Ciotti, il gaullista che pur al prezzo di spaccare il suo partito ha abbracciato la causa del Rassemblement national. Cosa ci manda a dire questo tristo personaggio?

Il fatto puro e semplice che la borghesia francese (e buona parte di quella europea) non ha più alcuna paura delle forme contemporanee di fascismo.

Non si preoccupa che il nazionalismo o la xenofobia possano intralciare i commerci e lo sfruttamento del lavoro, non tiene più di tanto all’estensione dei diritti individuali come fattore di sviluppo (per non parlare di quelli sociali) e ha il solo interesse che i suoi intenti, per quanto megalomani, e le sue azioni, per quanto spregiudicate, siano al riparo da limitazioni e interferenze.

Il volto del capitalismo contemporaneo, più che quello di una classe con la sua filosofia di comodo, ma in qualche modo universalistica, è quello arrogante e sfacciato dei Bolloré e dei Musk.

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Non a caso numi tutelari dell’estrema destra che, se fossero russi, non esiteremmo a chiamare oligarchi. Questo non vuole naturalmente dire che il Rassemblement national non goda di un forte seguito di popolo maltrattato dal macronismo e non risponda alle frustrazioni di una piccola borghesia declassata e incarognita. Ma il pifferaio e le promesse della sua musica provengono decisamente dall’alto delle élites che, dopo aver sdoganato l’estrema destra, ora trovano il modo di servirsene.

In poche parole, le formazioni della destra radicale prosperano sull’avvenuto divorzio tra liberismo e principi liberali, esattamente il fattore che mette fuori gioco la cosiddetta destra moderata, e che precipita nel ridicolo la retorica repubblicana del presidente Macron.

Ma veniamo al dunque.

L’esito del ballottaggio dipenderà in buona misura da quanta parte della borghesia schierata nelle file di Macron (e di chi ne ascolta la voce) propenderà per lo stato d’animo dei gaullisti di Ciotti, scegliendo di affidarsi a un’avventura nazionalista con salde radici reazionarie piuttosto che rischiare, non certo l’avvento del bolscevismo, ma un blando ritorno di politiche keynesiane e socialdemocratiche.

La demonizzazione della sinistra a opera dei centristi e di Macron lavora da anni a favorire, in casi estremi, una propensione tematica per la destra e non è facile intraprendere un brusco cambio di rotta quando ci si accorge tardivamente che le truppe nemiche sfondano da tutt’altra parte e che rappresenterebbero una ben più pericolosa soluzione di continuità.

Resta il fatto che il Nuovo fronte popolare rappresenta il solo argine credibile alla conquista del potere da parte dell’estrema destra e questo ha un peso rilevante nell’opinione pubblica francese.

Il Nuovo fronte popolare rappresenta il solo argine credibile alla conquista del potere da parte dell’estrema destra e questo ha un peso rilevante nell’opinione pubblica francese

Nonostante si sia fatto ricorso a ogni argomento possibile e impossibile per sottrarre consensi alla sinistra. A partire dall’antisemitismo di cui si sarebbe macchiato il partito di Mélenchon, laddove il Rassemblement national, storicamente pervaso da sentimenti razzisti e antisemiti, ne viene dichiarato indenne in quanto sostenitore del governo israeliano.

L’argomento è puramente strumentale potendosi trovare tracce di antisemitismo, così come intransigenti condanne del medesimo, praticamente in tutto lo spettro politico francese, in proporzione comunque assai minore del razzismo antiarabo che prospera a destra.

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Ma come ormai dovrebbe essere chiaro a tutti il problema non è l’antisemitismo (che ha sempre preso di mira gli ebrei e la loro cultura e non la politica di uno stato), ma l’obbligo di astenersi da ogni condanna del governo di Tel Aviv e del massacro della popolazione palestinese a Gaza e in Cisgiordania

 

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ASPETTANDO IL 5 LUGLIO. Ci sono un paio di chiavi di lettura per guardare alla corsa presidenziale in Iran che si risolverà con il ballottaggio tra il riformista Massoud Pezeshkian, ieri in vantaggio con oltre il 42%, e il fondamentalista Said Jalili

Il presidente Raisi, morto a maggio, in un manifesto a Teheran Ap Il presidente Raisi, morto a maggio, in un manifesto a Teheran - Ap

Ci sono un paio di chiavi di lettura per guardare alla corsa presidenziale in Iran che si risolverà i 5 luglio con il ballottaggio tra il riformista Massoud Pezeshkian, ieri in vantaggio con oltre il 42%, e il fondamentalista Said Jalili. La prima è sulla tenuta del regime.

Che vede ancora un volta un calo della partecipazione con circa il 40% dei votanti: la legittimità della repubblica islamica fondata nel 1979 con la rivoluzione di Khomeini è in discussione non solo per le pesanti disillusioni sul sistema degli ayatollah e la crisi economica ma perché queste elezioni arrivano dopo mesi di proteste quasi ininterrotte da parte della popolazione per ottenere maggiore rispetto dei propri diritti, manifestazioni duramente represse dalle forze dell’ordine. A far nascere il movimento “Donne, vita, libertà” era stata nel 2022 la morte della giovane Mahsa Amini, avvenuta mentre si trovava nelle mani della polizia per non aver indossato il velo nella maniera considerata corretta secondo le regole dei guardiani della morale.

Al di là del risultato, numerosi attivisti, come ha spiegato di recente la premio Nobel per la pace Shirin Ebadi considerano il voto “una farsa” dopo la quale non ci sarà nessun cambiamento. Secondo la costituzione iraniana, infatti, il potere decisionale continua ad essere appannaggio esclusivo del leader supremo Ali Khamenei. Il ruolo del presidente è solo quello di interpretare al meglio il suo volere. E la successione a Khamenei appare ancora lontana dall’essere definita: uno dei candidati più accreditati era proprio il presidente Ebraihim Raisi deceduto un mese fa in un misterioso incidente di elicottero.

Proprio per questo il regime serra i ranghi. Trovare un successore dell’attuale Guida Suprema è una questione di vitale importanza per la sopravvivenza della repubblica islamica. Per farlo non si può appoggiare soltanto sugli onnipresenti e potenti Pasdaran, le Guardie della rivoluzione da anni impegnati sui fronti di guerra, dall’Iraq alla Siria, dal Libano allo Yemen. Nati dal movimento di massa della rivoluzione del ’79 e dalla necessita di sostenere l’attacco del 1980 portato dall’Iraq di Saddam Hussein, sono diventati negli ultimi decenni i veri padroni del Paese e controllano oltre all’apparato militare anche le leve economiche. Ma non basta la loro potenza a tenere in piedi la repubblica islamica e soprattutto a garantirne la legittimità popolare.

Ecco perché il voto in Iran manovrato dall’alto è un test fondamentale. Ed ecco perché il regime ha “resuscitato” i riformisti e i moderati lasciati fuori dai giochi dopo l’uscita di scena prima di Khatami e poi di Rohani, due ex presidenti che avevano dato l’illusione di potere introdurre cambiamenti in un sistema sostanzialmente irriformabile. La corsa del candidato riformista Pezeshkian, dato favorito dai sondaggi degli stessi Pasdaran, appare quindi essenziale alla tenuta del regime chiamato a fornire una sorta di “credibilità” a queste elezioni presidenziali che rischiavano di diventare una specie di sondaggio riservato ai soli ultraconservatori. Se questa operazione avrà davvero successo lo scopriremo con il ballottaggio, per ora l’affluenza alle urne ne ha beneficiato in minima parte, anzi stando a rilevamenti informali è inferiore ai dati ufficiali. In poche parole “riscoprendo” i riformisti il regime torna indietro per potere andare avanti.

L’altra chiave di lettura, oltre alla tenuta del regime, è quella della politica estera. L’Iran – punto di riferimento dell’Islam sciita come l’Arabia saudita lo è di quello maggioritario sunnita – è un peso massimo del Medio Oriente, alleato della Russia, con la quale ha contribuito alla difesa del regime di siriano di Bashar Assad, ma anche della Cina, Paese verso il quale sono dirette la maggior parte delle su esportazioni di petrolio. Nonostante sia da decenni sotto sanzioni occidentali, in buona parte dovute al programma nucleare, la repubblica islamica non è isolata ed esibisce la leadership dell’”asse della resistenza” in cui a inglobato oltre agli Hezbollah libanesi, il movimento islamico Hamas (sunnita), le milizie scite irachene, più potenti delle stesse forze armate di Baghdad, e gli Houthi yemeniti che tengono sotto tiro il Mar Rosso.

Una sfera di influenza, dal Medio Oriente al Golfo, al Mediterraneo, dall’Afghanistan all’Asia centrale, che non si può ignorare. Soprattutto adesso che si avvicina, dopo i massacri di Gaza, l’ora della verità anche per il Libano. Due grandi incognite incombono sul Medio Oriente dal 7 ottobre, quando gli attentati di Hamas hanno innescato la reazione militare di vendetta israeliana. La prima riguarda il destino del popolo palestinese e la mutazione definitiva di Israele in uno stato illiberale dominato dal sionismo ebraico più radicale d’estrema destra. La seconda è come andrà a finire il braccio di ferro che contrappone Tel Aviv all’ “asse della resistenza” capeggiato da Teheran. Finora l’Iran appare come il vincitore di questo braccio di ferro. Ma questa vittoria sembra ancora fragile e una escalation regionale potrebbe rimettere tutto in discussione fino al punto di minacciare la sopravvivenza stessa del regime iraniano

 

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REGIONI DIFFERENZIATE. Cari lavoratori, imprenditori, famiglie del Nord: l’autonomia differenziata, nell’interpretazione estrema barattata dalla Lega con FdI e FI, farà male anche a voi, non soltanto al Sud

Roma - Presidio contro il ddl Calderoli sull’autonomia differenziata Roma - Presidio contro il ddl Calderoli sull’autonomia differenziata

Cari lavoratori, imprenditori, famiglie del Nord: l’autonomia differenziata, nell’interpretazione estrema barattata dalla Lega con FdI e FI, farà male anche a voi, non soltanto al Sud. Perché? Primo. La legge contraddice in radice il principio cardine del federalismo: la responsabilità politica del prelievo delle tasse, ossia delle risorse da spendere, in capo ai governi territoriali. Qui, la Regione differenziata non ha alcuna responsabilità: le entrate acquisite attraverso l’autonomia differenziata derivano interamente da compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturati sul “suo” territorio. In sostanza, la Regione si prende, a seconda di quanto definito nell’Intesa negoziata con il governo centrale, una quota di Irpef, di Ires, di IVA a prescindere dall’efficienza nell’utilizzo. Anzi, poiché le base imponibili delle principali imposte erariali compartecipate da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna crescono più della spesa corrente da finanziare (vedi analisi dell’Ufficio parlamentare di bilancio), gli incentivi piegano verso l’inefficienza e gli sprechi.

Secondo. Anche il Nord subirà gli effetti del declassamento politico di un’Italia ritornata «espressione geografica». Quale peso politico può avere a Bruxelles, nelle relazioni internazionali bilaterali e multilaterali un presidente del Consiglio senza il controllo legislativo sulle principali materie economiche, sociali, infrastrutturali? Ad esempio, con quale affidabilità avrebbe potuto negoziare un Pnrr dedicato quasi tutto a investimenti e riforme di esclusiva competenza regionale? Germania, Spagna, Austria, ecc. sono Stati federali e negoziano autorevolmente, ma noi saremmo, come per il premierato, un unicum nel globo terraqueo, poiché tutti gli Stati federali hanno una camera delle autonomie territoriali per raccordare i livelli di governo sussidiari e dare flessibilità ai poteri legislativi regionali. Noi, invece, avremmo 21 Intese rigide, soggette al veto del presidente della Regione per le modifiche.

Terzo e quarto (sintetizzo e rinvio al mio lavoro per Castelvecchi L’Autonomia differenziata fa male anche al Nord, prefazione di Pierluigi Bersani). In un quadro di federalismo competitivo, l’autonomia alimenterà il dumping regolativo e – spezzati i contratti collettivi nazionali dei privati a seguito della regionalizzazione del lavoro pubblico – retributivo; moltiplicherà le norme e gli adempimenti amministrativi e lascerà le nostre aziende senza il sostegno politico-diplomatico dello Stato.

Quinto. L’impatto sul costo di mutui e prestiti per imprese e famiglie. Il canale di trasmissione è il tasso di interesse sui nostri Titoli di Stato. Il debito pubblico rimane al Tesoro, parte dei tributi erariali è trattenuta dalle Regioni. È un nodo cruciale per un debitore malmesso come noi. Nessun problema se le entrate erariali sottratte al centro fossero strettamente correlate al finanziamento delle spese trasferite. Non è così. Nelle bozze di Intesa sottoscritte da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna con la ministra Stefani e tenute in vita dalla legge Calderoli è scritto: «L’eventuale variazione di gettito maturato sul territorio delle Regione dei tributi compartecipati … , rispetto alla spesa sostenuta dallo Stato nella Regione o, successivamente, rispetto a quanto venga riconosciuto in applicazione dei fabbisogni standard, anche nella fase transitoria, è di competenza della regione». Chiaro? Le risorse a garanzia del debito pubblico diventano sempre più esigue. Quindi, in stretta correlazione, salgono i rischi di sostenibilità, i tassi di interesse pagati dallo Stato e, a valle, le rate dei debitori privati.

Arrivati qui, pronto il soccorso, anche del Nord, con i mitici Lep. In primo luogo, va segnalato che soltanto una parte delle materie è dotata di Lep. In secondo luogo, che la definizione dei Lep, nonostante offra amplissimi margini di discrezionalità agli autori, viene lasciata al completo arbitrio del governo. Per valutarne il livello di affidabilità cito un passaggio della posizione della Banca d’Italia: «Le prestazioni qualificate come Lep effettivi … sono nella maggior parte dei casi formulate in termini troppo generici, in buona parte riconducibili a mere dichiarazioni di principio».

Sull’autonomia non dobbiamo alimentare la “guerra civile” sudisti contro nordisti, è anche questione settentrionale. Spieghiamolo bene da Roma in su

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