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IN MARCIA. Il sistema agricolo europeo si è basato e si basa due fattori decisivi che sono i contributi pubblici e il lavoro super sfruttato del bracciantato agricolo (in larga parte di immigrati)

Agricoltori belgi e olandesi bloccano un’autostrada che collega i due paesi foto Ansa Agricoltori belgi e olandesi bloccano un’autostrada che collega i due paesi - Ansa

La vista di quei trattori e delle enormi macchine agricole costose quanto rumorose mi ha fatto riflettere su cose del passato che si ripresentano ora in chiave nuova. Mi ha spinto innanzitutto a chiedermi chi sono questi che protestano con tanta sicurezza.

E anche con baldanza in mezz’Europa e a Bruxelles. La risposta sembra ovvia: sono agricoltori perché tali si dichiarano e perché i giornali parlano della «rabbia degli agricoltori». Eppure qualche differenza ci dovrà pure essere tra l’ex-giudice Di Pietro, l’elegante signore presidente della Confagricoltura e il povero affittuario di un piccolo fondo agricolo tutti e tre in piazza.

Una volta, e fino a mezzo secolo addietro, era diverso: si usavano altri termini a cominciare da quello di contadino che ormai è scomparso come peraltro è quasi scomparsa la figura sociale del contadino. Ma rimane vero il fatto che la struttura sociale dell’agricoltura era – ed è – tutt’altro che omogenea, così come è non omogenea dal punto di vista di classe la composizione della gente che manifestava e manifesta a Bruxelles.

Questa reductio ad unum è politicamente utile per la destra ma non è corretta, come non lo erano a metà Ottocento i marxisti revisionisti – che definivano l’agricoltura un «vasto ceto medio», come se fossero tutti uguali.

La tematica della questione agraria – cioè del rapporto tra movimento operaio organizzato e contadini – era uno dei punti più importanti della strategia nelle discussioni interne ai partiti marxisti.

E a buona ragione: le aggregazioni interclassiste agricole e rurali come quella in atto a Bruxelles sono sempre state pericolose e hanno portato nel miglior dei casi al populismo, nel peggiore e più frequente a blocchi politici reazionari.

Oggi come in passato, differenze interne e interessi contraddittori sono presenti tra i manifestanti, come veniva spiegato nell’articolo su il manifesto di giovedì scorso di Fabrizio Garbarino, sottolineando la differenza tra quelli che ricevono dallo Stato decine e decine di migliaia di euro all’anno e coloro i quali arrivano a riceverne qualche migliaia.

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L’incontro con il ministro Lollobrigida spacca il movimento dei trattori

I primi prendono più soldi non solo perché sono più grandi ma perché producono a costi unitari sempre più bassi rispetto a quelli dei piccoli che vivono le effettive difficoltà. Infatti le grandi aziende sono all’avanguardia nella produzione e nella tecnologia.

La linea di sviluppo tecnologico dominante si fonda su tre cardini: in primis sulla chimica (per fertilizzanti e pesticidi), poi su una meccanizzazione sempre più costosa e basata su macchinari complessi e infine sulla ricerca biotecnologica (compresi più di recente gli Ogm, etc.).

Il sistema agricolo europeo si è basato e si basa a livello organizzativo su due fattori importanti che sono i contributi pubblici e il lavoro super sfruttato del bracciantato agricolo (costituito in larga parte degli immigrati che lavorano generalmente in condizioni indecenti). Ciò senza considerare l’effetto ambientale di pesticidi ed altri veleni usati con grande profusione. E la politica agricola comunitaria, a parte grandi operazioni retoriche, ha favorito sempre questo andamento.

Procedendo secondo il modello produttivo finora seguito le cose andavano bene -naturalmente molto più bene per i grandi, molto meno per i piccoli – fino a che si poteva seguire il modello californiano del cheap food-cheap labor: del produrre cibo sempre meno salutare e sempre più scadente attraverso un lavoro sempre meno pagato ( per altro motivo alla base di un così alto numero di lavoratori immigrati in agricoltura).

Sono ‘andate bene’ fino a che la politica agraria comunitaria, che è sempre stata altamente benevola nei confronti dei grandi produttori, non è stata costretta a imporre vincoli ambientali e controlli sulla nocività delle produzioni e del processo produttivo: un’amara sorpresa perché su quel meccanismo i grossi avevano prosperato. Da ciò la «rabbia dei coltivatori».

La protesta corporativa in atto, che ha un’antica tradizione italiana, è ora appoggiata da partiti e movimenti di destra, dalla Lega in primis e va contro gli interessi dei piccoli produttori, della gente e – va detto anche questo – del Paese

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PD-M5S. C’è una logica politica in quella che si prospetta come un’estenuante altalena nei rapporti tra Pd e M5S? E fino a quando potrà andare avanti?

Elly Schlein e Giuseppe Conte Elly Schlein e Giuseppe Conte

C’è una logica politica in quella che si prospetta come un’estenuante altalena nei rapporti tra Pd e M5S? E fino a quando potrà andare avanti? «Costretti a cooperare, destinati a competere», ha scritto su queste colonne Mario Ricciardi.

Il dilemma nasce da alcune difficoltà oggettive, che hanno radici lontane. Chiediamoci perché Conte rifugga da ogni impegno vincolante ogni qualvolta gli viene posto il tema di una qualche alleanza organica con il Pd. Credo che la risposta vada cercata nella valutazione delle caratteristiche degli attuali, potenziali elettori del M5S. Elettori che, in gran parte, oramai, sono ex-elettori di sinistra, che hanno maturato una radicale rottura nei confronti del Pd nel corso degli ultimi dieci anni. E non è una rottura che si possa rimarginare facilmente. La diffidenza è molto radicata.

Si aggiunga che il M5S è davvero un partito post-ideologico, con tutta la libertà di movimento che ne deriva, accentuata dai forti tratti personali della leadership: il suo profilo è segnato da alcune bandiere identitarie, ma non da una qualche strategia di governo fondata su una visione comprensiva. Da qui, una collocazione talvolta ambigua, che marca la propria autonomia su alcuni temi (e non conta molto la coerenza con le scelte passate). Più che competere con il Pd per sottrargli elettori, Conte vuole innanzi tutto tenere i suoi – elettori, peraltro, con un basso indice di fedeltà, come dimostrano le elezioni locali.

Tuttavia sulla questione della concorrenzialità elettorale bisogna intendersi: tutte le analisi concordano sul fatto che le caratteristiche sociali, culturali e territoriali degli elettorati del M5S e del Pd sono profondamente diverse, solo in piccola parte sovrapponibili. Gli stessi sondaggi, visti su un’ottica di lungo periodo, mostrano negli ultimi mesi solo spostamenti marginali. E lo stesso vale per il Pd. I critici di Elly Schlein la accusano di arrendevolezza: ma, come è stato ricordato, essere i più unitari è davvero l’unico modo per parlare a quella quota di elettori del M5S sensibili all’idea di un’alleanza politica a sinistra. E magari per provare a spostarli, se il M5S si mostrasse troppo riluttante. O forse i critici pensano che rispondere aggressivamente possa essere foriero di chissà quali benefici al Pd? Si perpetuerebbe solo l’atteggiamento suicida degli anni scorsi, quando il modo sprezzante di trattare il M5S (gli «scappati di casa», ricordate?) non ha fatto altro che rinsaldare l’ostilità di questi ex-elettori di sinistra alla versione «riformista» e «istituzionale» del Pd (quello a cui alcuni, in modo altrettanto suicida, oggi vorrebbero tornare).

Tuttavia, di fronte a certe uscite (come quella su Trump, o sui migranti) sorge il dubbio che Conte coltivi un’illusione: che il M5S possa tornare a caratterizzarsi come una forza trasversale, che raccolga elettori da tutte le direzioni (come il M5S del 2013, molto meno quello del 2018, che si giovò soprattutto della fuga dal renzismo). Non è più possibile questo ritorno alle origini, è bene che Conte ne prenda atto: il governo giallorosso segna uno spartiacque. Da allora, la percezione del M5S è cambiata, e anche la relativa tenuta alle elezioni del 2022 nasce da questa nuova collocazione. Da una parte, il Pd è costretto a cercare la cooperazione perché i suoi margini di espansione elettorale a breve-medio termine sono piuttosto ridotti (e bene ha fatto Prodi, in un suo recente intervento, a ricordare i sei milioni di voti persi per strada: un esodo di massa, un ridimensionamento strutturale delle basi sociali di questo partito, a cui solo un suo radicale rinnovamento e un lavoro di lunga lena potranno forse porre un qualche rimedio); il M5S, d’altro canto, può certo marcare la sua autonomia su certi temi, ma dovrà alla fine spiegare ai suoi elettori che uso intende fare, ai fini del governo del paese, della forza che riesce eventualmente ad accumulare.

Questo nodo dovrà essere sciolto, prima o poi. Intanto, ciò che ci possiamo aspettare nei prossimi mesi, fino alle elezioni e forse anche oltre, è una sorta di competizione e/o emulazione, speriamo a bassa intensità polemica, che punti almeno a recuperare voti dell’astensione. A breve, non ci può essere alcuna alleanza «organica», ma non ci sarà nemmeno una rottura.

Quello che invece occorre chiedere con forza, a tutte le opposizioni, è che individuino qualche altro terreno di impegno comune, con nettezza e decisione: in particolare, sulle politiche istituzionali. Da più parti, anche su queste colonne, è stato ricordato come non si possa giocare di rimessa rispetto al governo. Ebbene, c’è un tema su cui è possibile davvero costruire una compiuta proposta alternativa, sostenuta da un fronte molto ampio, che comprenda anche Calenda: prospettare riforme che si ispirino integralmente e rigorosamente al modello tedesco, sia per la forma di governo, sia – e questa potrebbe essere la novità – per la legge elettorale proporzionale. Pare che ci possa essere una convergenza su questo punto. Cosa si aspetta a parlarne apertamente, di fronte allo spettacolo insieme inquietante e abborracciato che sta dando la maggioranza?

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SINISTRA ALLE EUROPEE. Il dibattito sulle elezioni europee e le formazioni di sinistra continua sul manifesto. Il contributo di Giacomo Russo Spena

Una sola lista, oltre il giacobinismo e i personalismi 

Ho aderito con gioia all’appello «pace, terra, dignità», sia per l’amore verso Raniero La Valle, sia perché mi appassiona la ricerca sul «confederalismo democratico» di Ocalan, anticapitalista, antipatriarcale, meticcio. Sostengo, quindi, la lista di scopo, che sarebbe piaciuta molto anche a Dino Frisullo e a Eugenio Melandri. Condivido completamente l’intervento su questa pagine di Luigi De Magistris, portavoce di Unione Popolare, della quale sono anche io attivista.

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Una lista per la pace con idee e candidati che siano credibili

Una lista per la pace, ma anche contro la Nato, per il disarmo unilaterale è soprattutto una critica radicale verso questa Unione europea, strumento della nuova guerra fredda, nemica del Sud globale. Spero che il fondamentale ricorso del Sudafrica alla Corte internazionale abbia posto il tema, anche da noi rimosso, della rifondazione del diritto internazionale. L’imperialismo lo distrugge; noi non possiamo rimuoverlo.

La militarizzazione pervasiva ha svuotato completamente le sedi della cooperazione internazionale. È un pericoloso ossimoro storico; perché, contemporaneamente, matura l’esigenza di un governo multipolare. Anche perché, come scrive Emiliano Brancaccio, l’evidenza scientifica supporta una «legge di tendenza» verso la centralizzazione del capitale, che produce le guerre, costruisce un rapporto tra capitale e catastrofe ambientale, distrugge la democrazia costituzionale. Le catene del valore del capitale si stanno ricostruendo nell’intreccio assoluto con il potere politico/militare.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Elezioni europee, uniamoci per una nuova storia collettiva

L’articolo 11 della Costituzione, irride il ministro Crosetto, è l’anticaglia di un mondo che fu. È l’autobiografia della nazione, oggi. Allora «pace, terra, dignità» non è un progetto marginale; è fondativo, perché si proietta sulle insorgenze (Gkn, Ilva, Val di Susa…), sui conflitti sociali, sul mutualismo antiliberista; ma anche sull’attuazione della Costituzione. Autonomia differenziata e premierato non sono un tecnicismo istituzionale ma un possente processo di revisionismo storico contro la Repubblica nata dalla Resistenza. Il diritto costituzionale, spinto ormai ai margini non solo della statualità ma della stessa formazione sociale, è un limite ineludibile all’orrore, perché è critica e limite dei poteri. Israele esercita il «diritto materiale di difesa»? E quali sono i limiti? E quale organismo li attiva? In assenza, vi è l’attuale genocidio, ci sono i crimini di guerra.

Costruiamo, allora, questa lista unitaria. Che, per lo meno, allude timidamente a un progetto. Ma che sappia superare i limiti del giacobinismo e dei personalismi. Tentiamo di rompere le gabbie della delega e dell’indifferenza. E si discuta, perché su alcuni punti emergono certamente articolazioni e accentuazioni diverse. Parlo del mio piccolo campo, per esempio. Io vorrei che tutta Unione Popolare (e, quindi, ovviamente, anche Potere al Popolo, che ne è parte integrante) costruisse la lista. Tentiamo e ritentiamo, ricomponiamo le differenze, non le alimentiamo. L’unità è un traguardo. Il resto è noia, coazione a ripetere frantumazioni.

*Segui il topic Elezioni Europee

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RIFORME. Parte alla camera dei deputati il disegno di legge sull’autonomia differenziata firmato da Calderoli, proprio mentre la maggioranza sembrerebbe essere in dirittura di arrivo sulla riforma costituzionale del premierato. Si […]

Roberto Calderoli e Giorga Meloni, foto Ansa Roberto Calderoli e Giorga Meloni - Ansa

Parte alla camera dei deputati il disegno di legge sull’autonomia differenziata firmato da Calderoli, proprio mentre la maggioranza sembrerebbe essere in dirittura di arrivo sulla riforma costituzionale del premierato. Si precisano dunque contenuti e tempi della nuova Italia vagheggiata dalla destra di governo.

Al voto finale sull’autonomia di Calderoli si giungerà probabilmente prima delle elezioni europee di giugno, e le opposizioni non potranno – per un regolamento che non consente un ostruzionismo insuperabile – impedirlo. Il massimo impegno rimane però indispensabile, perché potrà fornire argomenti per il contrasto al disegno leghista dopo l’approvazione, ad esempio con ricorsi alla Corte costituzionale. Non ci aspettiamo che le opposizioni fermino la legge ma che combattano in prima linea sì.

Gli argomenti non mancano. Si punta a un’Italia di regioni speciali, stravolgendo l’assetto vigente del rapporto tra lo stato e le regioni. Cos’è in fondo l’autonomia in salsa leghista se non la specialità della singola regione, diversa nella forma ma nella sostanza analoga a quella delle regioni in senso tecnico speciali? In entrambi i casi l’autonomia si sottrae alla legge ordinaria e al referendum abrogativo. Ma dobbiamo ricordare che la Consulta dichiarò costituzionalmente illegittima la legge regionale che prevedeva il quesito referendario «vuoi che

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INTERVISTA. L’ex ministro Pd: «Serve chiarezza. Anche nelle regioni, se non ci uniamo resta la destra. Su Gaza auspico una linea comune, basta coi risentimenti. Capisco la fatica di guidare i 5S, ma il prezzo non lo può pagare il Pd. Pensare di prendere più voti da soli è miope». «Il governo non si faccia ricattare da Stellantis. Lo Stato entri nel capitale se può davvero incidere sulle scelte. Le promesse fatte dagli Agnelli nel 2020 sull’occupazione sono state tradite, anche il governo giallorosso ha commesso errori sul prestito da 6 miliardi: mai più incentivi senza garanzie sull'occupazione»

Andrea Orlando, foto Ansa Andrea Orlando - Ansa

Andrea Orlando, deputato Pd, ex ministro del Lavoro. Nei giorni scorsi la tensione tra Pd e M5S è salita oltre il livello di guardia. Conte ha mostrato sintonia con Trump e vi ha accusato di «bellicismo». Un’alleanza è ancora possibile o si tratta di una relazione tossica?

Una coalizione tra le forze alternative alle destre è una strada obbligata e anche possibile guardando ai contenuti, corrisponde a una domanda che c’è nell’elettorato. Di Conte apprezzo il senso di responsabilità e anche il coraggio con cui ha gestito la pandemia. E il modo in cui ha accompagnato sino a qui l’evoluzione del M5s. Quando però Speranza gli ha fatto notare lo stupore per le sue posizioni su Trump, lui ha dato una riposta piccata e risentita, quasi sul piano personale, accusando il Pd di bellicismo. Come se non fosse il leader di una forza politica che, come il Pd, ha la necessità di costruire una coalizione.

Quell’accusa vi ha fatto insorgere e ha aperto lo scontro.

Mi domando come abbia fatto il leader 5s a non accorgersi che quell’accusa avrebbe messo in moto un meccanismo che intralcia il percorso unitario: le parole pesano, quello è un marchio che ci indica come persone che amano le guerre. E proprio nel momento in cui nel Pd matura una posizione più avanzata sul conflitto in Medio Oriente.

Nei prossimi giorni il Parlamento discuterà le mozioni sul conflitto in Palestina. È ancora possibile una posizione comune tra voi?

Mi auguro di sì e credo che ci siano le condizioni, se non prevale la logica del risentimento personalistico. Ricordo a chi ha simpatie per Trump che su questo conflitto ha avuto posizioni molto distanti dalla parola d’ordine “Due popoli due stati”. Una ragione in più per evitare di distribuire patenti di bellicismo.

Schlein ripete che da lei non partono mai polemiche contro le altre opposizioni. Stavolta però la sua postura zen non è durata. Condivide l’idea di evitare il fuoco amico o rischia di farvi apparire arrendevoli?

Serve un giusto dosaggio. Credo che gli elettori apprezzino il nostro atteggiamento unitario, questo però non deve impedirci forme di deterrenza: Elly ha fatto bene a marcare questo punto con equilibrio. A chi giova una escalation che sposti il conflitto dentro il fronte progressista?

Il Conte di questi giorni sembra quello del passato: né di destra né di sinistra, genericamente populista.

Non condivido l’etichetta di trasformismo che gli vogliono affibbiare. Non è semplice guidare le spinte diverse che ci sono nel M5S fin dalle origini, conseguenza anche della crisi del sistema politico: si tratta di un lavoro faticoso che rispetto, ma che non può essere fatto a spese dei potenziali alleati. Oppure, se qualcuno pensa di collocarsi stabilmente all’opposizione lasciando il governo a Meloni a tempo indeterminato, meglio che lo dica subito. La postura radicale si combina male con l’inconcludenza nella costruzione dell’alternativa.

Sta succedendo in Piemonte e Basilicata: Conte non arriva mai all’intesa. Perché?

Forse pensa che, correndo da solo, il Movimento possa raccogliere più voto di protesta, magari ottenendo l’1% in più: un calcolo miope. Una forza politica si misura anche dalla capacità di indicare una prospettiva. E correre sapendo già di perdere non dimostra una grande visione.

C’è un problema di disagio dei cattolici nel Pd? O i moderati usano il tema cattolico per contestare una leader più spostata a sinistra?

C’è in effetti un utilizzo improprio della questione, che non aiuta ad affrontare i temi che realmente richiamano la coscienza. Mi spiego: oggi dove sta scritto che cattolico sia sinonimo di moderato? Spesso sulla critica al capitalismo sono più netti dei laici. Evitiamo dunque i retaggi del secolo scorso. Poi è vero che nel Pd occorre evitare polarizzazioni sui temi etici, riaffermando il principio della libertà di coscienza.

Teme fuoriuscite di cattolici?

Non vedo questo rischio, non c’è nessuna messa al bando di posizioni che hanno piena cittadinanza.

Spesso si legge che le europee saranno dirimenti per la leadership di Schlein. Perché nel Pd ogni elezione diventa una resa dei conti sul leader pro-tempore?

Se ci fosse questo atteggiamento vorrebbe dire che non abbiamo imparato nulla dagli errori del passato. Se si fa di ogni passaggio elettorale l’ultima spiaggia non si costruisce niente: rifondare il Pd è più complicato che costruire Roma. E allora non bastò un giorno.

Il Pd sembra essersi svegliato sul caso Stellantis.
Gradualmente sì. Oggi chi critica l’ex Fiat per il disimpegno in Italia non subisce più il fuoco amico dai compagni di partito. Serve però una posizione più compiuta, mi pare che Schlein sia sulla strada giusta.

Lo Stato deve entrare nell’azionariato?

Se fosse una partecipazione come quella dello stato francese, in grado di incidere sulle scelte, potrebbe servire. Il governo vada a vedere le carte E verifichi la possibilità di incidere effettivamente. Certo, se lo Stato avesse messo i soldi spesi negli incentivi per l’auto in azioni, oggi sarebbe uno dei soci principali di Stellantis…

Chi è più colpevole per il rischio di chiusura di Pomigliano e Mirafiori? L’azienda o il governo che non fa abbastanza?

La responsabilità principale è dell’azienda che continua nella storica linea di minacciare licenziamenti per avere sovvenzioni. Il problema del governo non è solo essere subalterno a queste richieste, ma di essere schizofrenico: Meloni fa la voce grossa, il ministro Urso tratta con Tavares. Se il governo fa due parti in commedia è ancora più debole nella trattativa: bisogna essere meno muscolari davanti alle telecamere ma più stringenti nel vincolare i finanziamenti alle garanzie sull’occupazione in Italia.

Nel 2020 lei chiese vincoli sul prestito da 6 miliardi a Fca: la accusarono di essere sovietico.

Mentre la Francia entrava nel capitale e chiedeva garanzie, da noi chi avanzava dubbi sul prestito veniva subissato di critiche, in particolare dai giornali del gruppo che fa capo agli Agnelli. Il premier Conte e il ministro dell’Economia Gualtieri dissero che c’erano le dovute garanzie per la produzione in Italia: non è andata così, visto che oggi si torna a parlare di chiudere stabilimenti. Ci fu una certa sufficienza verso chi lanciava allarmi, anche nel nostro campo.

Calenda accusa la Cgil di aver smesso i toni duri dei tempi di Marchionne, di non fare abbastanza contro Stellantis.

Mi pare un rimprovero eccessivo, forse qualche autocritica rispetto all’apologia delle scelte di Marchionne dovrebbe farla anche Calenda. Ma oggi, invece delle recriminazioni, occorre costruire un fronte comune di chi vuole difendere i livelli produttivi. Invece che querele tra Landini e Calenda, nel tribunale della battaglia politica portiamoci chi non ha rispettato gli impegni presi col governo.

Il governo, al dunque, cosa dovrebbe fare?

C’è la leva delle risorse pubbliche, che copre gran parte degli investimenti sull’auto in Italia: bene, la si usi fino in fondo invece di farsi ricattare da Tavares. Un cane che abbaia e non morde non fa paura a nessuno

 

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SINISTRA. Da Riace vedo prioritari: l’emergenza umanitaria, i profughi tutti, la pace, il cessate il fuoco subito di scontri armati e violenze sui civili, lo stop all’invio di armi ai paesi in guerra. La mia ambizione è quella di riuscire a svolgere un ruolo di cerniera, di ponte tra le diverse e sparse anime della sinistra, un "intero popolo" che in Italia vuole tonare a impegnarsi
Per le strade di Riace

Intervengo in seguito a quanto scritto sul manifesto in questi giorni dai compagni sulle prossime elezioni europee. Mi rivolgo subito a Michele Santoro, visto che sulle questioni prioritarie fortemente dirimenti, della pace e della cessazione immediata degli scontri armati, delle violenze sui civili inermi, dello stop all’invio di armi ai paesi in guerra, la sua è stata la voce più convincente.

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Uniti in Europa in nome della pace. Noi ci siamo

A Riace, lo scorso 20 dicembre, abbiamo portato avanti lo stesso tentativo, abbiamo proposto un appello per l’unità delle sinistre, immaginando una sinistra autentica, unita e aperta all’incontro con tutti i movimenti, gli attivisti e le organizzazioni di base, da sempre schierate per la pace, l’accoglienza e la solidarietà tra i popoli.

Il tema che sento più urgente è senza dubbio legato alle emergenze umanitarie, alla drammatica attualità che stiamo vivendo per le guerre in Palestina, Ucraina, Rojava ed altre parti del mondo. Mentre però la resistenza ucraina è stata sostenuta e ugualmente, l’accoglienza dei profughi ha avuto corsie preferenziali, nulla è stato fatto per la questione palestinese, per il dramma di quel popolo, per il genocidio che si sta consumando sotto gli occhi del mondo.

Così come nulla si sta facendo per il popolo curdo del Rojava che ha avuto un ruolo fondamentale per contrastare l’Isis, per poi essere abbandonato e subire la violenta repressione fascista del governo turco. Non dimentico che l’accoglienza ai rifugiati politici a Riace si è avvalsa nella fase iniziale di un grande amico del popolo curdo, il compianto Dino Frisullo.

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Oggi siamo di fronte al dilagare della destra portatrice dappertutto di una visione disumana della società, che crea segregazioni, lager, centri di detenzione e di deportazione, a volte appaltandoli a stati esteri come il governo Meloni con l’Albania che danno l’idea, per dirla con l’insegnamento di Franco Basaglia, di «un’enorme sala anatomica dove la vita ha l’aspetto e l’odore della morte».

Di fronte a tutto ciò è necessario ribadire una visione non personalistica dell’impegno politico ma con l’entusiasmo di allargare l’orizzonte ai contributi che provengono dai territori e con la consapevolezza di partecipare ad un progetto più grande. Al contempo, mi rivolgo a tutti coloro che hanno a cuore le sorti di chi subisce oppressioni e umiliazioni, alle forze della sinistra radicale e moderata, ai tanti giovani e adulti laici e cattolici impegnati nel volontariato sociale e aperti ad una società multiculturale, a quanti pensano che questo mondo sia ingiusto e non si arrendono, impegnandosi nella resistenza contro la sopraffazione di mafie e potentati economici. Insieme abbiamo la speranza di un altro mondo possibile.

Una speranza che si rinnova attraverso segnali incoraggianti che colgo dalle parole di De Magistris, Acerbo, Santoro, Fratoianni, Bonelli, di tutti i compagni che si sono riconosciuti intorno all’esperienza di Riace.

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Una lista di scopo per la pace e per non ripetere l’errore

Occorre in primo luogo sconfiggere l’indifferenza. Ciò significa in primo luogo trovare il coraggio della propria differenza. La vicenda giudiziaria che ha riguardato me, la comunità di Riace, credo sia intrinsecamente legata a questa visione. Un aiuto fondamentale alla comprensione di quello che è avvenuto a Riace è stato per me avere incontrato Luigi Ferrajoli, giurista di fama, il quale ha affermato, dopo aver approfondito l’argomento e leggendo gli atti, che la cabina di regia è stata il neoliberismo e i corposi interessi messi in campo per distruggere un messaggio politico giudicato pericoloso, che si basava sul riscatto degli oppressi e si collegava alla rinascita delle aree interne, dei borghi, abbandonati a seguito dell’avanzare della società dei consumi, plasmata dal libero mercato e dal profitto. Così come Luigi Manconi è stato determinante nel rilanciare l’accoglienza a Riace attraverso la raccolta fondi lanciata all’indomani della sentenza di primo grado, quando tutto sembrava essere perduto e che ha dato, invece, nuova linfa al “villaggio globale”.

Oggi è quanto mai necessario ripartire da questa connessione con i luoghi e con le persone che subiscono la privazione dei diritti umani fondamentali avendo come stella polare l’uguaglianza sociale: senza uguaglianza non ci può essere umanità, né legalità.

Il neoliberismo ha nella sua struttura il tarlo perenne dell’ingiustizia e della barbarie. È questa la dimensione della destra, facciamo in modo di costruire insieme tante sacche di resistenza. La mia ambizione è quella di riuscire a svolgere un ruolo di cerniera tra le diverse anime della sinistra, un ponte tra le sinistre sparse in mille rivoli. Vi è un intero popolo di sinistra in Italia che vuole impegnarsi e tornare a scrivere una nuova storia collettiva fatta di diritti, di benessere diffuso e di umanità e a cui bisogna, insieme dare gli strumenti per essere rappresentata. Questo è l’appello che mi sento di rivolgere a tutte le sinistre in vista delle elezioni europee: uniamoci

 
 
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